Quando la si interroga sul tema di una scrittura propriamente femminile, Virginia Woolf inorridisce all’idea di scrivere “in quanto donna”. Bisogna piuttosto che la scrittura produca un divenire-donna […]

(G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani)

 

 

           Come è possibile il matrimonio? A quali condizioni si è sposi? Cosa rende qualcuno moglie o marito? Il sesso, il “genere”? Ricominceremo da un racconto di Virginia Woolf, Lappin e Lapinova.

             They were married. «Si erano sposati». Il matrimonio è stato. L’atto è stato celebrato. Ci sarà dunque, anzitutto, il linguaggio giuridico a costituire il matrimonio e due soggetti come marito e moglie, ad assegnare loro le rispettive posizioni. Forse qualcosa del genere nel testo hegeliano – citato e riletto in Glas: non si è mai altro che sposati. Ossia: non ci si sposa mai, si è sempre sposati dagli altri, per gli altri. Ma il matrimonio – la relazione tra i due sposi – , allora, sarà sempre dopo, e mai si darà come atto.

            Riprendiamo il problema. Non si è sposi che per il diritto, perché è soltanto la legge che fa il marito e la moglie. Ma non è questo, in fondo, che conta. Perché la performatività dell’atto, ossia della parole, non viene, propriamente, per “prima”. Questo lo sappiamo, in parte, già, se Benveniste ricordava: non è mai il verbo ad essere performativo, ma è il discorso giuridico in forza del quale viene pronunciato che lo rende performativo. Dovremo spostare in avanti la questione.

             «Questo avvenne di martedì. Ora era sabato. Rosalind doveva ancora abituarsi all’idea di essere la signora Ernest». Cosa significa? Occorre saper leggere il rovesciamento essenziale: non si è sposi che dopo essersi sposati, ma al contempo non si sarà mai stati propriamente sposati finché non ci si potrà dire “sei mio marito”, “sono tua moglie”. Era martedì, quel giorno. E adesso era sabato: è come se la settimana stesse passando – that was on Tuesday. Now it was Saturday –  senza che la signora Thorburn, pur essendosi sposata, sia ancora sposa e moglie. Lo è già, indubbiamente. Ma al contempo non lo è, perché non si è già moglie.

            Le mariage n’est point une situation, mais un état, osservava Portalis. Ossia: è solo perché siamo marito e moglie che lo siamo stati. E’, cioè, solo l’iscrizione dei coniugi all’interno di un certo tipo di linguaggio – che sarà il linguaggio del diritto inteso come diritto del linguaggio – che renderà possibile la “dichiarazione”, la parole, che pure lo precede.

            La parole è per la langue, anche quando viene prima, e mai viceversa. Il che significherà: il matrimonio è quel linguaggio che obbliga gli sposi (e quindi: una volta sposati, perché prima non si è sposi), a produrre e ri-produrre la condizione che li ha resi tali. Ci si sposa, diremmo, soltanto per essere costretti a dimostrare di essersi sposati: “mio marito”, “mia moglie”.

            Per questo Rosalind non è ancora la moglie di Ernest Thorburn, pur essendolo già, pur non essendo altra dalla signora Thorburn. Ernest non è il nome giusto: «non era un nome cui fosse facile abituarsi», non è il nome che lei avrebbe scelto (it was not the name she would have chosen). Ernest non è il nome che consente di inaugurare la significazione, ossia che consente ad entrambi di parlare a partire da esso.

            Ma – proprio perché non c’è nulla di “naturale” nel nome, proprio perché il linguaggio crea la realtà – la significazione potrà cominciare da qualsiasi nome. E proverà che non è il linguaggio ad essere a disposizione di Rosalind ed Ernest, ma che sono loro ad essere parlati da esso, ad essere marito e moglie in quanto parlati dal linguaggio di Lappin e Lapinova.

            Il signore e la signora Thorburn si sono sposati, ma non saranno mai due sposi. Lo saranno solo nel momento in cui la loro relazione sarà significata ed ordinata a partire da due significanti: re Lappin e la regina Lapinova. Re e regina: i due titoli, le due insegne del diritto del linguaggio (ci sarà sempre in gioco una erezione, un fallo), perché solo per il linguaggio è la realtà, solo attraverso il linguaggio esiste il matrimonio.

            Quello di Lappin e Lapinova non è affatto un linguaggio inventato da marito e moglie – una lingua sovversiva, “minore”, de-lirante, una lingua al di là del linguaggio –. Tutto il contrario: sono marito e moglie ad essere soggetti al linguaggio di Lappin e Lapinova, a non essere che parlati da esso, a non essere ciò che sono che attraverso di esso. Ed è proprio per questo che sono marito e moglie: solo in quanto interpellati dal linguaggio (e questo racconto della Woolf è, in fondo, così cupo e privo della gioia dei «divenire donna» che attraversano la scrittura dei suoi grandi romanzi).

            Sembrerebbe, da principio, una somiglianza, una somiglianza naturale, una certa corrispondenza tra il nome e la realtà, a rendere possibile il linguaggio: But here he was. Thank goodness he did not look like Ernest—no. But what did he look like? She glanced at him sideways. Well, when he was eating toast he looked like a rabbit.

            Ernest, sì, assomiglia ad un coniglio, mentre mangia il suo toast. Ma è una somiglianza che nessuno vede, una somiglianza senza somiglianza: «nessun altro avrebbe forse visto una somiglianza tra una creatura così minuscola e timida e questo elegante giovanotto muscoloso».

            Il naso di Ernest freme come quello di un coniglietto, mentre mangia: “It’s because you’re like a rabbit, Ernest,” she said. Ma è solo perché Rosalind lo vede così, che Ernest somiglierà ad un coniglio. Più che somiglianza, allora, ci sarà metafora, non ci sarà altro che una economia metaforica – che è, poi, l’economia della significazione – a creare una relazione tra il naso di Ernest ed il naso del coniglio: la somiglianza non è la condizione della metafora, ma ciò che la metafora costituisce.

            Non c’è dunque, propriamente, alcuna somiglianza, se non a partire e a causa del linguaggio che – cancellando ogni naturalezza, ogni “somiglianza naturale” – la fa esistere. E’ sempre e soltanto in gioco il significante, nel suo spostamento metonimico, mot à mot: rabbit, Lapin, Bunny, Rosalind non trova il nome “giusto”; poi finalmente Lappin, punto in cui si produce la metafora, si assicura la significazione, ma dove  manca sempre il significato, dove esso insiste senza consistere, in cui non sarà mai altro che un significante per un altro significante: «Lappin, Lappin, re Lappin – ripeté. Gli stava a pennello; non era Ernest, era re Lappin. Perché? Non lo sapeva» (Why? She did not know).

            Eppure, Lappin è stato pronunciato «come se avesse trovato proprio la parola che stava cercando». Il matrimonio sarà possibile, allora, soltanto in quanto «appello all’amore di un nome» (Soler): è la ricerca di un nome che, nominando il vuoto, possa “annodare” l’identità di Rosalind.

            Se si dà significazione, non c’è però alcuna garanzia che essa sarà sostenuta da qualcosa: essa è senza perché, senza significato, senza la presenza – o la possibilità, almeno de jure, della presenza – di un significato ultimo (trascendentale). Dietro il significante Lappin non c’è nulla (non c’è Altro dell’Altro), se non il linguaggio stesso, nel suo movimento di continuo scivolamento – linguaggio dunque che manca a se stesso, che non si “assicura” mai. Ma proprio questo – è del tutto evidente – è il linguaggio della legge: Lappin, «coniglio che detta legge a tutti gli altri conigli», significante della regalità (“Re Lappin”), nome-della-legge e legge-del-nome[1].

            La legge impone il nome, il nome impone la legge: la «storia della tribù dei Lappin» è il registro simbolico – e dunque non immaginario, ma il linguaggio della realtà (Under her hands—she was sewing; he was reading—they became very real) – all’interno del quale si articolano le relazioni coniugali. Non è una “fantasia” di Rosalind, lo si ripete: è la realtà stessa, il matrimonio come realtà (e dunque – in senso lacaniano: come l’antitesi del reale), ordine dei rapporti simbolici che consentono ai coniugi di amarsi.

            Così, nel momento in cui Re Lappin catturerà una lepre bianca, Rosalind si potrà riconoscere, ed essere riconosciuta, nel linguaggio. Solo in esso esiste the real Rosalind: «E’ così che si chiama? – chiese Ernest – la vera Rosalind? – La guardò. Si sentiva molto innamorato di lei. – Sì, si chiama così – disse Rosalind, – Lapinova». E’ solo per l’altro, per il nome della legge, Re-Lappin, il re-cacciatore, che ciò che fino a quel momento per Rosalind non era stato altra che un’identità immaginaria diviene simbolica, cioè reale: non c’è soggettivazione senza assoggettamento (la “cattura” della lepre) alla legge del nome.

            Ma il linguaggio non è altro che il diritto: si tratterà sempre di istituire dei titoli (il re e la regina), tracciare confini, territorializzarsi, spartire e dividere: i conigli rossi e quelli neri, la palude e le prateria. «Alleati contro il resto del mondo», ma non c’è nessun movimento di fuga, nessun flusso, ma una continua fissazione e codificazione di segni.

            Il loro è un mondo («senza quel mondo, si domandava Rosalind, come sarebbe riuscita a sopravvivere durante quell’inverno?»), ossia è codice e territorio, è l’ordine imposto dalla legge del significante – che è sempre legge maschile, legge che il fallo al re cacciatore: «lui regnava sull’indaffarato mondo dei conigli; il mondo di lei era un luogo desolato e misterioso e lei lo percorreva soprattutto nelle notti di luna».

            Se l’insegna del re è l’avere il fallo, la “mascherata” in cui si impegna Rosalind – la piccola lepre bianca indifesa, protetta da Lappin – è quella dell’identificazione al significante fallico, a «quel significante destinato a designare nel loro insieme gli effetti di significato, in quanto il significante li condiziona perla sua presenza di significante» (Lacan): Rosalind impara ad essere il fallo, ad essere se stessa, come donna e come moglie, solo in quanto «oggetto del desiderio», oggetto ritrovato, catturato da Re Lappin, il quale però, al contempo, le dona la legge simbolica, da un al di là in cui egli si trova.

            Rosalind non può che abitare nel luogo della legge, del significante, del discorso: solo esso consente la sua sessualizzazione, il suo “essere” moglie, il suo inscriversi come donna attraverso la mancanza del fallo che è, al contempo, il fallo come mancanza, ciò che manca a tutti i significanti per cogliere il loro oggetto (Cadeau).

            Non c’è matrimonio se non nella costruzione del discorso su di esso – che non è altro, però, dal discorso in cui esso consiste. Non sarà diversamente per la Chiesa: «il matrimonio è amore ed è struttura». Ossia: il matrimonio è il discorso amoroso prodotto dalla struttura del linguaggio. O, ancor più propriamente: non c’è matrimonio che nella parola del marito, poiché Rosalind non può godere che della parola, poiché la domanda d’amore è essenzialmente domanda di un nome, di una parola, della significazione. Torneremo su questo punto. Per ora, basti dire che non siamo affatto, qui, in una sovversione del linguaggio, in una scrittura segreta, isterica, del divenire donna: al contrario, il linguaggio di Lappin e Lapinova è essenzialmente pubblico, giuridico, simbolico e codificato, nella misura in cui è quel linguaggio che assicura la significazione e che esiste soltanto in quanto condiviso, anche implicitamente, da tutti.

            Per questo è sufficiente che uno dei Thorburn pronunci la parola rabbits: anche se lui non ne sa niente, egli si comporta come se questo linguaggio esistesse anche per lui. Non si chiederà mai ai Thorburn di riconoscere quel linguaggio: non siamo noi a parlare il linguaggio, e così a farlo esistere, ma è esso che ci parla, e ci fa così esistere.

            Chi lo garantisce, piuttosto, è sempre il significante, il nome-del-re, Lapin. At that word, that magic word, she revived: la parola crea nuovamente la realtà, riattiva le relazioni simboliche che a Rosalind era parso, per un istante, fossero sparite. Ora vede di nuovo il naso di Ernest che freme, come quello di un coniglietto (ma freme davvero?).

            Ora il suocero non è più il suocero, ma un bracconiere; Celia, un furetto bianco; la suocera, il signore di campagna. Si giocherà certamente, qui, l’economia metaforica: non ci sarà metafora (quella degli sposi come rabbits, conigli) senza l’ossessione per il matrimonio come assicurazione della trasmissione della paternità (procreare come conigli, certamente – cuniculus, cunnus). Ma non ci sarà, propriamente, sposa, moglie, non vi sarà l’iscrizione della donna sotto questa metafora della trasmissione del fallo se non a partire dalla parola, dal significante. Non scopami!, ma parlami! è la domanda d’amore della “sposa”: essere parlata dalla parola, essere riconosciuta dalla parola.

            Il linguaggio si potrà disfare soltanto quando sarà il nome-del-re a rivelare il proprio vuoto, la propria mancanza: a rivelare che dietro Lapin non c’è niente, che non c’è alcun significante del significante, che dietro Lapin c’è soltanto Ernest, ed Ernest non è nulla, è soltanto un «uomo, semplicemente un uomo» (Fusini). Il loro matrimonio – sono le ultime pagine del racconto – finirà nell’istante in cui Ernest non riconoscerà più il proprio nome, lasciando Lapinova intrappolata, uccisa, perduta, e si siederà a leggere il giornale, ormai indifferente alle “sciocchezze” di Rosalind. So that was the end of that[2] marriage: la scoperta della mancanza dell’Altro, che non c’è linguaggio dietro il linguaggio – per noi: non c’è diritto dietro al diritto – determina la fine del matrimonio, ossia la fine dell’amore inteso come relazione codificata ed istituita dall’ordine del linguaggio.   «Ranicchiata nel suo lato del letto, come una lepre nella tana»: il dominio della legge è vuoto, non è fondato su nulla. La risposta manca (è da sempre mancata).

            Il testo letterario fa così saltare il discorso del diritto – la sua riproduzione (la riproduzione della riproduzione, diremmo: la riproduzione della trasmissione della paternità, dell’eredità maschile) –, fa fallire il matrimonio non tanto come “istituzione” ma, più propriamente, come regime discorsivo. Il matrimonio è infatti istituzione è sempre secondariamente, sempre perché è anzitutto discorso. E’ solo per la parola, per il suo imporsi, infatti, che si dà scambio, e dunque struttura parentale, separazione della moglie dalla madre.

            Per questo, dunque, è la scrittura letteraria – prima di ogni possibile lettura filosofica, sociologica o psicoanalitica (che pure necessariamente è già stata attivata, richiamata) – ad essere sempre profondamente in gioco. Perché ciò che fa di una mogie una moglie, ciò che rende possibile il matrimonio, i suoi scambi, i suoi ruoli, le sue logiche di coppia, non sarà mai altro che il linguaggio. Ed il linguaggio è sempre legge del nome del padre, è sempre l’imposizione della parola paterna, maschile, fallica, giuridica, normativa.

            Per questo non ci sarà mai matrimonio – se esso non è possibile al di là del linguaggio – che non sia dal lato della sessuazione maschile (indipendentemente dunque dal “genere” sessuale dei coniugi: qualsiasi matrimonio, “eterosessuale” od “omosessuale” che sia, ed ammesso che questi termini abbiano un qualche senso, sarà sempre fallocentrico). Solo la scrittura letteraria potrà portare davvero la sovversione,  il movimento del senza-diritto, perché essa non si farà che spingendo il linguaggio fino al punto in cui esso possa mancare, in cui possa cedere.

            Per questo la scrittura è sempre, diremmo, in radicale opposizione al matrimonio: tra i due vi è incompatibilità assoluta. Bisognerebbe, qui, ripercorrere soprattutto i testi di Kafka, seguendo la splendida lettura proposta da Derrida sul rapporto tra scrittura e matrimonio. Ma già questo racconto di Woolf – anche a non volerlo rileggere nuovamente attraverso i riferimenti ai diari, alle lettere ed agli altri romanzi della scrittrice – ci consente di seguire il punto di rottura tra matrimonio e scrittura.  Non vi sarà scrittura – e la scrittura non è altro che il divenire-donna, che la possibilità di un altro godimento – se non nel fallimento del simbolico, della parola del maschio, del nome-del-padre, se non nella sua contestazione continua.

[1] Cfr. E. Semino, Blending and characters’ mental functioning in Virginia Woolf’s Lappin and Lappinova, in «Language and Literature», 15, 1, 2006, p. 60: «The ‘monarchy’ space provides the notion of power and control over others, as well as the expectation of reverence and respect. Indeed, the choice of the Russian-sounding name ‘Lappin’ could be seen as resulting from one of the long-term memory structures that may be linked with the ‘monarchy’ input space in the character’s mind (when the story was written, Russia had only recently ceased to be ruled by the Tsars)».

[2] Cfr. C. Reynier, Virginia Woolf’s Ethics of the Short Story, New York, Palgrave, 2009, p. 54: «“So that was the end of that marriage”. However the deictic “that” suggests the other married couples will know the same fate as Ernest and Rosalind; their marriage is therefore given a paradigmatic value which in turn prevents the closure of the short story».

Testi di riferimento: E. Semino, Blending and characters’ mental functioning in Virginia Woolf’s Lappin and Lappinova, in «Language and Literature», 15, 1, 2006; C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi, trad. it. di G. Senzolo, Milano, FrancoAngeli, 2005; J. Lacan, La significazione del fallo, in Id., Scritti, II, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974; N. Fusini, Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf, Milano, Mondadori, 2009; C. Reynier, Virginia Woolf’s Ethics of the Short Story, New York, Palgrave, 2009; M.-C. Cadeau, Un continente…non-tutto nero, in Le mie sere con Lacan, Roma, Editori Riuniti, 2012.

 

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