(In margine a Processo per Stupro, di Loredana Rotondo, trasmesso in RAI per la prima volta il 26 aprile 1979).

 

 

Je veux col. Je veux cul. Je n’ai pas peur. Je veux peur. Je veux: veux. Je veux vœu aussi. Je veux tout. Je veux joue je veux joues, je veux tout joue. J’ai une langue. Je veux que ma langue jouisse. Je veux qu’elle ne se veuve d’aucun bien. Je veux que tout vivant lui revienne vivant.

H. Cixous, , Paris, Gallimard, 1976, p. 109.

 

 

I. Non ci sarà stato processo se non per accertare, ricostruire, condannare ciò che è stato. Ma non vi sarà stato, propriamente, stupro, se non dopo che il processo sarà terminato, se non come ciò che il processo avrà qualificato come tale. Lo stupro è ciò che è accaduto, ossia la realtà di ciò che è stato: il suo significato – i giuristi direbbero: la sua qualificazione normativa.

Per questo, quando il processo comincia, quando il discorso processuale, il linguaggio, ha il suo inizio, esso non troverà nulla, propriamente, che lo preceda.

Non c’è linguaggio giuridico, discorso processuale che non si affermi ponendo i propri presupposti, costituendo retroattivamente le proprie condizioni, far essere ciò che è stato. La ricerca processuale della verità crea il proprio oggetto, la verità dello stupro e lo stupro come verità, come realtà.

Dunque nessuno stupro, prima del processo. Nessuno stupro se non nel processo, come suo risultato e presupposto, nello stesso tempo.

II. Il processo, il diritto, non potrà mai comprendere ciò che Fiorella ha subìto prima del processo. Tutto ciò che è stato, per noi lo sarà solo dopo esserlo stato: solo più tardi, après-coup, ciò che è stato sarà stato quello che è stato.

Ciò che è accaduto, invece, prima, ciò che soltanto dopo sapremo, è il reale, la violenza di quattro uomini che eccede ogni nome perché rompe la trama della significazione che è la trama della realtà.

Non è neppure accaduto, ma accade: senza-nome, possibile solo in quanto impossibile. Solo in quanto non avrebbe potuto accadere. Prima ancora del dolore, della sofferenza (Che ti hanno fatto? Di tutto), quello che le accade, ora, in un’ora che non passa, non ha nome, è il senza-diritto nel suo senso più radicale: ciò che non poteva accadere e ciò che il diritto non potrà mai dire, riconoscere, condannare.

III. Dovremo dunque distinguere: lo stupro come reale, e la realtà dello stupro. Ed è qui che le cose cominciano a cambiare. Certo, è solo con la condanna che, retroattivamente, sarà accaduto uno stupro (e non un rapporto sensuale consenziente). Ma non è questo, in fondo. Ed il punto, a ben vedere, non è neppure – come spesso si è detto – il fatto che Fiorella subisca una vittimizzazione «secondaria», un nuovo “stupro” nel processo, che passi da vittima a imputata.

E’ vero: è solo nel processo, ma per la prima volta, che Fiorella viene stuprata, e stuprata dal linguaggio, dal linguaggio processuale che subisce. Eppure sarebbe improprio pensare che ciò avvenga a causa delle retoriche e delle ideologie che in quel processo trovano espressione. Sarebbe improprio pensare che tutto ciò non accadrebbe più se solo potessimo abbandonare i “pregiudizi di genere”. Le argomentazioni degli avvocati difensori, certamente, tradiscono fin troppo apertamente questi pregiudizi. Fin troppo, appunto: quasi che rivelassero, proprio nell’aderire perfettamente ad essi, che non sono loro a nutrirli, che non sono i loro pregiudizi il problema.

Occorrerà allora saper leggere correttamente la tesi di fondo: solo il linguaggio stupra, violenta, Fiorella. Si tratta, cioè, di capire da dove passi l’ideologia, la violenza maschile sulla donna.

IV. Ciò che non vediamo è che non si tratta, qui, di pensare la circostanza che, nonostante lo stupro sia stato riconosciuto ed accertato, la vera imputata sia stata la donna, il giudizio di colpevolezza sia ricaduto su di lei. Bisogna rovesciare il discorso: è proprio per poter riconoscere lo stupro, proprio per dire il diritto di Fiorella, che è accaduto tutto questo.

E’ questa la logica intrinseca al processo, al linguaggio giuridico: per poter essere la vittima, dovrai essere l’imputata; per poter condannare loro, dovremo condannare te. Dovrai essere stuprata ancora, nuovamente – una seconda volta, ed in realtà per la prima volta –. Ma ciò accade non nonostante, ma affinché gli imputati possano essere condannati, affinché il diritto possa restituire la verità dei fatti.  E’ questo che deve essere pensato: il diritto, qui, è immediatamente e sempre anche il delitto stesso che punisce. Perché avviene tutto ciò, perché non può essere altrimenti?

V. “Nessuno immaginava realmente quello che avveniva in un’aula giudiziaria, dove la giustizia era altrettanto violenta degli stupratori nei confronti delle donne” (T. Lagostena Bassi). Tutti noi vediamo come Fiorella, nel corso del processo, venga stuprata dal linguaggio: come era vestita? cosa ci faceva a quell’ora fuori di casa? Ci dica esattamente come è avvenuto il rapporto, se i maschi hanno goduto, se lei ha provato piacere, se è lei che ha afferrato il membro per prenderlo in bocca. E mentre Fiorella risponde, con la voce che si strozza in gola, il Presidente continua a ripetere benissimo, benissimo, benissimo. Vada avanti, racconti, prosegua: è il linguaggio che sta godendo, stuprando chi lo parla. Ma da dove proviene questo modo di domandare, questa logica della domanda?

VI. Nel processo si parla sempre a partire da una certa posizione, ineliminabile: c’è rapporto sessuale perché c’è consenso, alla condizione che vi sia consenso, «accordo delle volontà»[1]. Non ci sarà, cioè che il consenso a costituire il rapporto sessuale. Cosa significa?

Vi saranno più strategie di risposta possibili. Anzitutto, quella di un discorso che insista sulla natura ideologica del «consenso»[2], sull’economia dello scambio, dell’equivalenza, del contratto[3]. La donna acconsentirebbe, dunque, a farsi acquistare, nulla più. Che si tratti di una finzione legale, lo aveva espresso bene Guy Hocquenghem: «Cette notion de consentement est de toute façon piégée. Il est certain que la forme juridique d’un consentement intersexuel est un non-sens. Personne ne signe un contrat avant de faire l’amour»[4].

Eppure non si tratta semplicemente di questo. Giuridicamente, il consenso non serve soltanto ad escludere la violenza, ma a costituire l’esistenza del rapporto sessuale, ad affermare che c’è rapporto sessuale. Il consenso non è, cioè, causa di giustificazione, esimente, ma è costitutivo dell’esistenza di un rapporto sessuale (cd. consenso improprio).

Il consenso, l’ «accordo delle volontà», il contratto, non è semplicemente, allora, finzione giuridica, finzione dell’eguaglianza formale tra i due sessi, sotto la quale si riprodurrebbe una perdurante logica del possesso della donna (se i contraenti sono liberi, ciò non fa che ribadire come la donna possa sempre essere comprata, come si tratti sempre ed ancora di acquistarla e possederla). C’è dell’Altro, si direbbe.

VII. Che cos’è una finzione legale? Che cosa è proprio della fictio iuris? Ci serviremo di una breve digressione, seguendo e cercando di leggere nella sua reale profondità una tesi di Kelsen: non c’è mai finzione nel diritto (nella creazione e nella sua applicazione)[5]. Non c’è mai, cioè, contraddizione con la realtà – diremo, noi: non c’è mai alcuna alcuna realtà che la finzione velerebbe. E’ questo passaggio che dev’essere compreso a fondo.

Cosa implica – si chiede Kelsen – che il marito sia «considerato» padre del bambino nato a seguito dell’adulterio della moglie? Si tratta davvero di una finzione (di una logica del come se, del «come se» X fosse Y, anche se X non è Y)? Per poter esservi finzione, sia X che Y dovrebbero essere “qualcosa di reale”, scrive Kelsen. Non così nel diritto: la legge, infatti, non afferma affatto che il marito, a certe condizioni, venga considerato come se fosse il padre naturale del bambino. Essa dice, diversamente, che il marito è giuridicamente il padre, ossia che «padre» è soltanto colui che è indicato dalla legge come tale. Non finge, cioè, che una realtà stia al posto di un’altra, ma dice che la realtà dev’essere quella che il diritto prescrive.

Non c’è mai finzione, in altri termini, perché la legge non può mai essere in contraddizione (Widerspruch) con una qualche realtà effettiva (Wirklichkeit). E ciò, essenzialmente, perché la legge è sempre costitutiva della realtà – nelle parole di Kelsen: il diritto non è niente di reale (Nun ist aber das Rechts von vornherein überhaupt nichts Wirkliches), ma prescrive in modo che si debba creare una realtà (als eigentlich eine Wirklichkeit geschaffen werden soll).

Dal punto di vista del diritto, non c’è alcuna realtà che preceda la legge: non c’è alcun padre naturale prima o “dietro” la presunzione di paternità, perché padre, giuridicamente, è solo quello che la legge dice sia tale. «Ignoret-on que, dans l’état de société, c’est la loi qui fait les pères?», aveva osservato Bonaparte durante una seduta del Consiglio di Stato, nel 1801. Non c’è padre che per la legge.

Eppure – nel momento stesso in cui il testo kelseniano cancella la finzione dal diritto – esso mostra implicitamente un’altra “finta”, un’altra struttura di finzione che sarebbe propria di questa stessa assenza di finzioni.    La legge non sembra fingere davvero qualcosa nel suo porre una presunzione di paternità? Non sembra, in altri termini, che vi sia una certa finzione nel far ritenere per vero qualcosa che essa stessa ammette non si possa provare, accertare. Anzi, diremo con Kelsen: nel far ritenere vero ciò che la legge è sicura che non lo sia. Ma in cosa consiste, allora, questa “finta”?

La finzione che la legge realizza consiste precisamente in questo: nel fingere che vi sia la finzione, nel fingere che la paternità giuridica copra, nasconda, si sovrapponga alla “paternità naturale”.

La finzione, cioè, consiste nel fingere di fingere: nel fingere, nella presunzione di paternità, che si tratti di una finzione, di qualcosa che serve a nascondere la realtà. La legge finge che esista davvero qualcosa dietro di essa, che esista davvero la paternità al di là della “presunzione” di paternità. E ciò proprio quando, invece, che non c’è alcun padre “dietro” il discorso giuridico che lo costituisce

La finzione che la legge produce consiste proprio in questo, allora: nel creare l’illusione che ci sia qualcosa dietro il velo della la legge, nel nascondere che, dietro alla legge, non vi sia nulla.

La finzione – o, piuttosto semblant, sembiante, ciò che pare e che appare – non consiste allora nell’occultare la realtà, ma nel costituirla. Come ha osservato Jacques-Alain Miller, «nous appelons semblant ce qui a fonction de voiler le rien. En cela, le voile est le premier semblant»[6]. La finzione è «come un velo, un velo che non vela nulla: la sua funzione è di creare l’illusione che ci sia qualcosa di celato sotto il velo»[7].

VIII. E’ in questo senso che bisognerebbe allora ripensare la finzione che attraversa il motivo del reciproco consenso. Per dove passa, qui, la finzione? In cosa consiste?

Dovremo riprendere alcune pagine dedicate da Kant alla differenza sessuale[8] ed alla possibilità dell’ «uso delle proprietà sessuali»[9]. Come posso  possedere l’altro, come posso usarlo, servirmi delle sue qualità sessuali, dei suoi organi sessuali?

Ci sarà, anzitutto, una certa logica dello scambio, del consenso reciproco, a definire i diritti ed i doveri, le facoltà ed i limiti del rapporto sessuale. Vi sarà rapporto, cioè, proprio perché l’uso non potrà che essere  reciproco (wechselseitige), perché ci sarà sempre eguaglianza nel possesso (Gleichheit des Besitzes).

Potrò acquistare una persona come se fosse una cosa (gleich als Sache), ma alla sola condizione che quest’ultima acquisti, allo stesso tempo, me. Vi sarà, certamente, già una finzione, una “finzione di reciprocità”, laddove il testo kantiano, la sua logica, continua in realtà a pensare la differenza sessuale attraverso una serie di opposizioni implicite che definiscono la relazione tra uomo e donna nei termini di attività/passività, soggetto/oggetto[10]. Chi possiede davvero, chi acquista, è sempre l’uomo, infatti («l’acquisto secondo questa legge è, secondo l’oggetto, di tre specie: l’uomo acquista una donna […]» – la logica del mulierem habere, uxorem habere, uxoris animo habere).

Ma se vi è una “finta”, nel discorso kantiano, se esso non si scrive che attraverso una finzione, essa forse farà molto di più che nascondere qualcosa, una verità (quella dello sfruttamento dell’uomo sulla donna) che Kant non vorrebbe dire e rivelare. Per scoprirla, bisognerà spingere il testo nel punto in cui esso fingerà di fingere di nascondere qualcosa, in cui la finzione servirà proprio a creare l’illusione della finzione.

Riprendiamo, allora, il testo. La reciprocità, il possesso, non è affatto dell’altro in quanto tale. Non si tratta, cioè, mai di possedere la persona, di usare una donna: tutto ciò di cui voglio usare è una sua parte, il suo organo sessuale.

Si gode, per Kant, sempre e soltanto di una parte dell’altro, si gode del suo organo (Denn der natürliche Gebrauch, den ein Geschlecht von den Geschlechtsorganen des anderen macht, ist ein Genuss, zu dem sich ein Teil dem anderen). Si tratta sempre e soltanto dell’ «uso reciproco, che un essere umano fa degli organi e delle facoltà sessuali di un altro essere umano (usus membrorum et facultatum sexualium alterius)».

C’è come, allora, un fallimento del rapporto sessuale, come l’impossibilità di essere davvero Uno con l’Altro. Il testo kantiano dice (e non dice, vedremo) questo: non c’è rapporto sessuale che possa scriversi, non c’è alcun «rapporto» tra uomo e donna.

Eppure il testo si scrive, e lo fa proprio nel senso opposto: c’è Geschlechtsgemeinschaft, «comunità dei sessi» (nel senso più proprio di commercium sexuale, «rapporto sessuale»[11]). Si dà rapporto, e rapporto tra uomo e donna. E’ questo scarto che consente di individuare quella che è l’autentica finzione giuridica del testo, senza la quale esso sarebbe destinato a “fallire”. Si tratta del seguente principio:

l’acquisto di un membro di un essere umano è insieme l’acquisto dell’intera persona – poiché questa è un’unità assoluta» (Es ist aber der Erwerb eines Gliedmaßes am Menschen zugleich Erwerbung der ganzen Person, weil diese eine absolute Einheit ist)[12]

Per quanto il godimento (Genuß) non sia che di un membro, di un organo, di una parte del corpo dell’altro – e mai dunque dell’altro in quanto tale –, esso sarà però già-da-sempre stato definito attraverso il diritto sulla persona, sull’intera persona.

E’ questa ridefinizione, questo passaggio che è da sempre già avvenuto nel testo (e che infatti non viene mai argomentato, giustificato, domandato), che consente il costituirsi del discorso giuridico kantiano.

La strategia kantiana è sottile. Se ad essa è necessaria la “finzione” del consenso, della reciprocità, è perché è un’altra finzione a venire realmente in gioco. Kant finge di fingere. Finge, cioè, di nascondere il fatto che, dietro alla “reciprocità”, all’accordo delle volontà, al consenso, vi sarebbe una verità del rapporto sessuale da celare, da non rivelare – quella dell’uomo che possiede la donna, e mai viceversa. In realtà, ciò che nasconde è che dietro il velo non vi è nulla.

Dietro, cioè, alla finzione del consenso non si cela il fatto che il rapporto sessuale sarebbe sempre rapporto di dominio dell’uomo sulla donna, quanto, diversamente, il nulla del rapporto sessuale stesso. Non c’è rapporto sessuale: è questa la “verità” del testo kantiano e che il testo kantiano neutralizza per potersi porre come discorso giuridico; la verità che non c’è niente dietro il possesso, perché ciò che si possiede non è mai La donna, ma sempre e soltanto un suo “organo”, una sua “parte”.

Kant scopre l’impossibilità della donna, scopre che la donna non esiste, scopre il fallimento di ogni tentativo di fare de La donna in quanto tale, nella sua alterità e nella sua integralità, una cosa, un oggetto, di possederla in quanto oggetto. Tutto ciò che potrò possedere, se mai, sarà un oggetto (una parte di lei: un suo organo) come se fosse una donna.

Questo non è altro che il modo “maschile” di fallire il rapporto sessuale: «il fallimento, è l’oggetto», «l’essenza dell’oggetto, è il fallimento»[13]. E’ in questo modo che il diritto fallisce il rapporto sessuale, e lo fallisce nel modo propriamente “maschile”, fallocentrico,  poiché, per il desiderio maschile, non si tratterà che di godere dell’oggetto (la bellezza del corpo della donna, i suoi seni, le sue labbra, etc.): «dal lato dell’identificazione sessuale, dal lato maschio», è l’oggetto «che si mette al posto di ciò che, dell’Altro, non potrebbe esser colto». E’ l’oggetto che, per il lato maschile, esercita «il ruolo di ciò che va al posto del partner mancante»[14].

E’ questa la struttura di finzione che attraversa il testo kantiano: fingere di nascondere che la donna sia trattata come se fosse un oggetto, per non scoprire mai che, in realtà, tutto ciò che l’uomo può fare è in realtà trattare un oggetto come se fosse una donna.

Tutta la strategia del testo – e l’ideologia giuridica che l’attraversa – non servirà allora che a neutralizzare questo niente, questo nulla. Si dovrà piuttosto fingere di fingere che l’uomo possa acquistare la donna, purché la donna continui ad esistere, purché vi sia ancora rapporto sessuale.

IX. La lezione kantiana scopre dunque il “rovescio” del problema del consenso. Il consenso è una finzione non perché nasconderebbe il fatto che sarebbe sempre l’uomo a possedere la donna – sarebbe sempre la donna a consentire, ad acconsentire, passivamente –, ma perché esso non potrà mai costituire realmente il rapporto sessuale come tale.

Ma – come nel testo kantiano – non c’è diritto senza rapporto sessuale: costitutiva del diritto è, cioè, la necessità di scrivere la differenza sessuale come differenza tra due soggetti e di pensare la sessualità come rapporto, relazione, tra essi.

La necessità logica dell’ «unità assoluta della persona» è una necessità anzitutto giuridica di poter far esistere non tanto l’uomo, il «lato maschile» (che è come tale definito proprio dall’Uno, e non esiste che come concetto universale, «l’uomo») quanto La donna, l’Altro.

E’ a partire da questa necessità che si dovrà pensare allora il senso della funzione costitutiva che il consenso della donna rispetto al «rapporto sessuale».  A cosa sarà già condannata Fiorella? Condannata a parlare un linguaggio che la obbliga, per poter dire che c’è stata violenza, a dire che non ha voluto, e dunque ad ammettere che sia la volontà a far esistere il rapporto sessuale. Di questo si tratta, in ultima istanza: condannare Fiorella a volere o a non volere.

E’ questa volontà ad essere essenzialmente maschile, ad a tradire, a sua volta, il modo specificamente maschile di fallire il rapporto sessuale e di supplire a questo fallimento. Ancora una volta, infatti, questa logica cade nella stessa aporia che voleva evitare, ossia mettendo al posto dell’Altro (Fiorella, una donna) un oggetto: la volontà di lei. Tutto ciò che il diritto può fare non è altro che considerare un oggetto (la «volontà», la «dichiarazione di volontà») come se fosse La donna.

X. «La grande domanda alla quale non sono riuscito a rispondere è: “che cosa vuole una donna?”». Questa osservazione di Freud dovrebbe, allora, essere forse ripensata. Forse la domanda – ciò che in essa si chiede – è nell’impossibilità stessa di porla: una donna (e non dunque La donna) forse è ciò che non si scrive se non nella differenza rispetto ad ogni volere, ad ogni nozione di volontà (che, in ultima istanza, non sarebbe altro che ciò che sta sempre dal lato maschile, dalla costruzione del “soggetto” maschile: la volontà di volontà).

Come pensare, però, questo niente di volontà (che non avrebbe nulla a che vedere con una volontà di niente), per servirsi di un’espressione deleuziana? Non certo come una forma di passività, né di rinuncia. Al contrario, come una forma di contestazione radicale, come il senza-diritto che ciascuna donna è: il sottrarsi ad ogni sapere, ad ogni linguaggio, per una lingua nuova, da crearsi, per una nuova e diversa volontà di volere – che non sarebbe, al limite, neppure più una volontà, forse una volontà-senza-volontà.

XI. Ciò che va ancora chiesto, in fondo, non si darà che in un “rovesciamento” dell’arringa dell’avvocato difensore di Fiorella, della sua testimonianza di essere presente come donna, e non solo come avvocato. Dovremo domandare sempre: perché noi donne siamo presenti a questo processo? Dovremo, cioè, capire cosa in essa venga realmente chiesto e testimoniato, ed è questo è il compito ancora da assolvere, quarant’anni dopo il Processo per stupro. Perché il diritto, per noi donne?

[1] Cfr. D. Borrillo. Liberté érotique et exception sexuelle, in D. Borrillo – D. Lochak (a cura di), La liberté sexuelle, Paris, PUF, 2005, p. 45 : «La légitimité de l’activité sexuelle trouve donc son fondement dans la capacité à consentir; celle-ci devient désormais la clé du dispositif juridique». Si veda, nello stesso volume, anche J.-F. Chassaing, Le consentement. Réflexions historiques sur une incertitude du droit pénal, pp. 65-88.

[2] Cfr., per tutti, M. Hester, Lewd Women and Wicked Witches: A Study of the Dynamics of Male Domination, London, 1992. Si vedano anche i contributi raccolti in R. Hunter – S. Cowan (a cura di), Choice and Consent. Feminist engagements with law and subjectivity, New York, Routledge, 2007.

[3] Cfr. J.-F. Lyotard, Femminilità nella metalingua, in Id., Rudimenti pagani, trad. it. di N. Coviello, Bari, Dedalo, 1989, p. 158: «La libertà sessuale e affettiva delle donne (come degli uomini) è un valore capitalista, non solo perché trasforma “il sesso” in una merce facile da negoziare sul mercato (maschile), ma perché, come per il lavoro “libero”, occorre che siano neutralizzate le differenze, in questo caso quelle dei sessi, e anche quelle degli erotismi singolari, affinché possano essere globalmente poste sotto la legge della scambiabilità». Si veda anche C. Pateman, The Sexual Contract, Stanford, Stanford University Press, 1988.

[4] Cfr. La loi de la pudeur. Entretien avec M. Foucault, J. Danet, P. Hahn et G. Hocquenghem, in «Recherches», 37, avril 1979, pp. 69-82. Si veda, per la letteratura francese, G. Bertrand, Deux critiques du consentement, in «Raisons politiques», 2, 46, 2012, pp. 67-78

[5] H. Kelsen, Sulla teoria delle finzioni giuridiche (1919), in Id., Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, trad. it. a cura di A. Carrino, Napoli, ESI, 1988, pp. 237-265

[6]  Cfr. J.-A. Miller, Des semblants dans la relation entre les sexes, in «La Cause freudienne», 36, 1997, pp. 7-16.

[7] S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, trad. it. di C. Salzani e W. Montefusco, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 61. Questa differenza è illustrata da Lacan mediante l’apologo di Zeusi e Parrasio narrato da Plinio: «Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno d’orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore» (Plinio, Storia Naturale, XXXV 61-66).

[8] I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (1797); trad. it. di F. Gonnelli, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 51 e ss.. Per una ricostruzione più ampia e dettagliata del tema, cfr. P. Jauch, Immanuel Kant zur Geschlechterdifferenz. Aufklärerische Vorurteilskritik und bürgerliche Geschlechtsvormundschaft, Wien, Passegen, 1988.

[9] Cfr. I. Kant, Lezioni sul diritto naturale (Naturrecht Feyerabend), a cura di N. Hinske e G. Sadun Bordoni, Milano, Bompiani, 2016, p. 199.

[10] Cfr. R. M. Schott (a cura di), Feminist Interpretations of Immanuel Kant, Pennsylvania State University, 1997.

[11] Traduciamo, qui, Geschlechtsgemeinschaft anche con «rapporto sessuale», seguendo la lezione di F. Di Donato, Nei limiti della ragione. Il problema della famiglia in Kant, Pisa, Plus, 2004.

[12] Cfr. anche I. Kant, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, cit., §26, p. 143, a proposito del contratto di concubinato: «weil dieser ein Contract der Verdingung (locatio-conductio) sein würde und zwar eines Gliedmaßes zum Gebrauch eines Anderen, mithin wegen der unzertrennlichen Einheit der Glieder an einer Person diese sich selbst als Sache der Willkür des Anderen hingeben würde».

[13] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973,  testo stabilito da J.-A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, trad. it. di S. Benvenuto e M. Contri, Torino, Einaudi, 1983, p. 58.

[14] Idem, p. 63.

 

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