Lo scritto si prefigge di interrogare due lavori che, tra altri, si ritengono esemplari dell’intero pensiero di Giuseppe Boccassini, contemplante critico di un sacrificio del guardare a scapito del vedere, dalla produzione di Eidola (2010) sino all’ultima fatica, Orbit (2016). Giuseppe nasce a Terlizzi, Puglia, classe 1979. Filmmaker, laureato al DAMS di Bologna, consegue il master in regia cinematografica presso la NUCT (Cinecittà). Partecipa a diversi festival a livello internazionale. Si potrebbe definire autore di un cinema in cui il linguaggio si fa immagine per frammenti, di una produzione che sfrangia i contorni della pellicola. Il cinema, con Boccassini, non si fa più un meccanismo del guardare anzi, ironizza l’iperrealismo dell’audiovisivo contemporaneo: un codice deformante, come quello che lui utilizza, diviene a essere immagine nel momento in cui abbraccia la sensorialità del suo pubblico.

In una produzione, come quella contemporanea, che sempre più si rifà all’imperativo di visibilità totale, spicca la poetica di questo autore, nella piena libertà di sperimentare, sfidando il fruitore affinché si crei il proprio film attraverso un coacervo, un mare magnum di immagini, così -apparentemente- astratto, quanto in realtà concreto.

 La sensazione di smarrimento, che giunge nel cercare di comprendere il fil rouge di simili visioni, è dettata, secondo chi scrive, dallo scontro dialettico tra ciò che si crede di vedere e ciò che viene visto (potrebbe richiamare alla mente l’opera del 2014 Adieu au Langage di Jean Luc Godard). Ogni corpo, ogni oggetto, ogni ambiente viene de-soggettivizzato e s-materializzato grazie all’ideale di trasparenza assoluta, in un continuo dialogo tra pensiero e assetti filmici deforma(n)ti grazie l’utilizzo attento e accurato di lenti e filtri con cui l’autore lavora. Siamo spettatori di una continua soppressione della percezione, esito del duplice conflitto che possiamo riscontrare maggiormente in Lezuo (2013) e in The tin hat (2014): quello tra occhio e mente in relazione a quello tra corpo e territorio.

Lezuo. 1843: Andrea Lezuo partì per l’America sulla nave Ehon. Nata l’idea dalla lettura di epistole inviate dal protagonista al fratello, Boccassini, con questo breve (17’), ma intenso lavoro, ricrea l’immaginario di un viaggio oltreoceano ispirato a quelle parole di sogno e speranza, ma anche di terrore e incertezza, rispetto a quello che al di là poteva trovarsi. Aveva forse una percezione de ‘La Merica’, il Lezuo, grazie quei dispositivi in voga all’epoca, i cosmorami, che consentivano, grazie un’illusione ottica, di vedere quadri panoramici in rilievo; un’idea nel testo ci viene in alcune situazioni riproposta. Non pensiamo di vedere infatti una città, dei corpi in movimento, ma il ricordo sbiadito degli oggetti che compongono la storia percettiva del viaggio, che si fanno opere pittoriche, fasci luminosi e dal carattere mutevole, espressionisteboccassini 1

Il regista ricrea da quelle missive un viaggio percettivo, tramutando letteralmente in figurazione, le sensazioni che il giovane intagliatore trasmetteva nei sui racconti; artigiano dell’immagine, Boccassini compie simili procedimenti destrutturando l’oggetto di visione, riproponendo paesaggi cromatici, materia decostruita e «vanno in questa direzione le scelte della bassa definizione del formato Mini Dv, così come il quattro tersi e la scelta di filtri analogici, quali vecchi fotogrammi di pellicole Super8 e 35 mm, gelatine, vetri e lenti fotografiche, sfere trasparenti e spugne. […] Tutte le immagini ri-filmate appartengono all’archivio video della rete, in qualche modo classificabili come found footage»[1].

A questo punto, occorre chiedersi quale sia il compito del fruitore contemporaneo. La scelta di abbandonare il digitale potrebbe sembrare riduttiva, ma, è inevitabile richiami alla mente le modalità di visione dell’epoca, quando il cinematografo ancora non esisteva. Le pratiche deformative utilizzate sono certo lontane dalle tecniche d’oggi, abituate a mostrare una sequenza di eventi. Con questo lavoro, ci viene proposto di andare oltre il guardare per poter vedere. Ci viene concessa una piena identificazione in chi lesse quelle parole per la prima volta, permettendo così, come avvenne per il fratello di Lezuo, l’interpretazione di un reale. Se Boccassini ridà voce alle missive del mittente, lo spettatore, in un simile processo, si fa destinatario di tali parole-immagine, che nel loro essere non-riconoscibili, ci donano la possibilità, che sempre più va a scemare, di ritornare alla vera essenza del cinema: l’immaginazione.

boccassini 2L’anno successivo una produzione estrema e ricercata, in cui Boccassini lavora su materiale visivo della Prima Guerra Mondiale, già esistente. Mettendo in evidenza la relazione tra lo Sguardo e la Memoria, The tin hat (2014) ci permette di vedere, e quindi prendere coscienza, una realtà storica. L’idea del cortometraggio, non a caso, parte dalla considerazione di Tacito: ‘la guerra è il luogo in cui l’occhio viene per primo soggiogato’. L’argomento bellico funge così a essere filtro, secondo nostra opinione, di una questione ancor più spinosa connessa inevitabilmente allo sguardo contemporaneo.

Esse est percipi: la scelta dell’autore è quella di zumare su particolari reali donando un’obiettiva visione dei corpi deformati, dei paesaggi delle trincee. Il proiettile, premuto il grilletto, rileva nella sua traiettoria un coacervo di macerie, macerie della memoria, caotica e scomposta, frammenti di realtà di un paesaggio minato, come lo definisce Virilio[2]. Inevitabile che i sedici minuti di filmati ‘di repertorio’ non conducano lo spettatore a una destabilizzazione, poiché, quel proiettile, per come Boccassini sceglie di riproporci i fatti, si fa occhio su cui facilmente identificarsi.

Paragonabile per il fine, questo ‘sguardo artificiale’ sugli anni 1914-1918, possiamo paragonarlo a un moderno dispositivo bellico, un drone, in grado di catturare un’immagine, l’immagine che si fa informazione. Nell’anno del centesimo anniversario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, la scelta di lavorare su repertorio audiovisivo di carattere bellico induce a pensare alla medesima produzione negli anni successivi all’11 Settembre 2001, riscontrato da molta letteratura, momento cruciale di consolidamento dell’imperativo di una visibilità sistematica e quindi di una produzione illimitata di immagini, incontrollabili. Lo sguardo deformante contemporaneo è nuovamente qui messo in discussione: l’informazione oggi, scrive ancora la Storia attraverso l’immagine? O si è così saturi di testimonianze visive da non riuscire più a vedere (e quindi comprendere) la realtà? Difficile negarlo: siamo costantemente travolti da una spirale di immagini che impedisce una reale interpretazione di ciò che ci accade attorno. Boccassini sembra, con i suoi lavori, non voler piegarsi a simile processo.

[1] Così dichiara il regista, Giuseppe Boccassini, nelle note di regia di ‘Lezuo’ a cui si rimanda il lettore spinto dal desiderio di leggere frammenti delle missive, ivi contenuti.

[2] Si fa qui riferimento al testo di Paul Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione.

 

Laura Cesaro, classe 1991. Dottoranda di ricerca presso la Scuola di Dottorato in storia, critica e conservazione dei beni culturali dell’Università degli Studi di Padova, con un progetto di interesse prettamente cinematografico. Orientando lo studio alle interrogazioni che la narrazione cinematografica, quanto la serialità televisiva, compie nei confronti dell’attuale panorama mediatico, pone attenzione allo statuto dell’immagine in relazione a forme di ri-mediazione della stessa. Si occupa, in particolare, di quella che è ormai diffusa dimensione di videosorveglianza, quindi la narrazione di forme della società di controllo, la messa in scena delle relative organizzazioni spaziali in relazione ai corpi.

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