(Testo presentato in occasione della XVI Edizione delle Giornate Tridentine di Retorica e del VII Convegno nazionale della Società Italiana di Diritto e Letteratura, entrambe tenutesi a Trento, nei giorni 16 e 17 giugno 2016).

 

 

Ringrazio gli organizzatori di questo Convegno, il CERMEG e la ISLL, per avermi dato la possibilità di essere qui, oggi, a discutere con voi un tema su cui lavoro da tempo, ma dentro il quale, nonostante i frequenti soggiorni, continuo a sentirmi come una straniera, l’ospite-ostaggio, nel senso derridiano, di una lingua, di una cultura e di un tempo che non sono i miei (Cfr. Jacques Derrida, Le monolinguisme de l’autre, Éditions Galilée, Paris, 1996; tr. it. di Graziella Berto, Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004).

Questo tema ha a che vedere con la memoria del diritto moderno ed è nato dal tentativo di trovare una risposta a una serie di domande che sembrano ammettere più soluzioni. In questo senso, la mia riflessione non pretende dettare la parola definitiva sul punto, ma solo proiettare verso un orizzonte di senso che potrebbe essere legittimamente altro. Pertanto, mi scuso in anticipo se nel corso della nostra chiacchierata la mia parola potrà sembrare, come dice Roland Barthes, poco gentile (Cfr. Roland Barthes, Ecrivains, Intellectuels, Professeurs, in Tel Quel, n° 47,  Automne, 1971). Essa, nonostante il suo carattere performativo, non vuole dire che la memoria del diritto moderno sia come essa dice che sia, ma solo aggiungere alla legge delle parole già dette la propria. La sua logica, dunque, non è quella della critica distruttiva, ma quella del supplemento.

Fatta questa doverosa premessa, che serve ad aprire un dialogo tra la parola dell’altro e la mia o, che è lo stesso, tra la legge dell’altro e la mia, credo sia giunto il momento di introdurre quelle questioni preliminari in cui il discorso dell’altro sulla memoria del diritto moderno incontra il mio:

1) Esiste un’altra memoria del diritto moderno che non sia quella ufficiale delle Costituzioni, delle leggi, delle sentenze, delle dottrine e delle teorie del diritto?

2) Se si, di che tipo di memoria si tratta?

3) Dove si conserva?

4) Che relazione mantiene con la memoria ufficiale o volontaria del diritto moderno?

Prima di provare a dare una risposta a queste domande, ritengo opportuno chiarire cosa intendo quando utilizzo la parola memoria.

Memoria, dal greco μνήμɳ, rinvia, nel suo significato classico, a due distinte facultas mentis: 1) la facoltà di ritenere i pensieri primitivi; 2) la possibilità di riprodurli senza che rimanga o ritorni nel tempo l’occasione che li suscitò.

Secondo questa definizione, la memoria scaturisce da un rapporto diretto con l’esterno, prima, e da un accesso al passato, poi. Memoria, cioè, si produrrebbe, tanto negli individui come nella società, attraverso la conservazione di immagini, che sono immagini di eventi esterni, ed il loro richiamo o riattivazione nel presente.

In questo senso, si pensa a memoria come ad un qualche dispositivo di immagazzinamento di informazioni, di rappresentazioni fedeli dell’ambiente, riattivabili in qualsiasi momento.

Non è con questa accezione che utilizzo il termine memoria, perché credo che tale definizione classica contenga una dose eccessiva di ontologia, inconciliabile con i più recenti studi condotti sulla materia in ambiti disciplinari come la fisica (Cfr. Heinz von Foerster, Das Gedächtnis: Eine quantenmechanische Untersuchung, Franz Deuticke, Wien, 1948), la biologia (Cfr. Humberto Maturana, Erkennen: Die Organisation und Verkörperung von Wiklichkeit, Friedrich Vieweg & Sohn Braunschweig, Wiesbaden, 1982) e la filosofia della scienza (Cfr. Thomas Samuel Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago, 1962), dove è stato ampiamente dimostrato che l’ambiente non contiene alcuna informazione e che tutto ciò che è detto è detto da un osservatore.

Per questo, la definizione di memoria che io adotto è di matrice costruttivista e coincide con quella fornita dal sociologo francese Maurice Halbwachs, il quale, capovolgendo la tesi bergsoniana, secondo cui la coscienza individuale è in grado di conservare il passato, sostiene che ogni forma di memoria (individuale, collettiva o storica) non è altro che una ricostruzione parziale e selettiva del passato, i cui punti di riferimento sono forniti dagli interessi e dalla conformazione della società presente (Cfr. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, tr. it. di Paolo Jedlowski e Teresa Grande, Unicopli, Milano, 2001 [1987]).

Come dirà Tzvetan Todorov (in linea con il pensiero di Halbwachs), il ripristino del passato è qualcosa di impossibile. La memoria, come tale, è una selezione: alcuni aspetti di un dato evento vengono conservati; altri, invece,  marginalizzati e dimenticati. Per questo, continua Todorov, bisogna tener bene a mente che la Storia si riscrive ad ogni cambio del quadro dirigente e che ciò che chiamiamo memoria storica ufficiale o dominante è soltanto una delle memorie possibili (Cfr. Tzvetan Todorov, Les abus de la memoire, Arléa, París, 1995).

Partendo da questa sociologia della memoria, io credo che, in ambito giuridico, si possa distinguere tra una memoria ufficiale o volontaria del diritto moderno ed una memoria non ufficiale o involontaria, nel senso proustiano di non uniforme e non organizzata (Cfr. Samuel Beckett, Proust, tr. it. di Piero Pagliano, SE, Milano, 2004, pp. 24-28).

La prima coinciderebbe con quella prodotta dal sistema giuridico attraverso le sue leggi, i suoi procedimenti e le sue teorie. La seconda, invece, sarebbe quella prodotta da osservatori esterni al diritto e rintracciabile nelle opere letterarie con proiezione di senso giuridico.

Non è irragionevole considerare Davanti alla Legge (1915), Nella colonia penale (1919), Il processo (1925) ed Il castello (1926) di Kafka, come gli esempi più rappresentativi di questa seconda tipologia di memoria del diritto moderno. E ciò perché in essi è possibile incontrare una sequenza ininterrotta di immagini della macchina giuridica moderna. Immagini messe in scena non da uno scrittore qualunque, ma da un uomo di legge con vocazione letteraria, che dedicò la propria vita, in parte, all’esercizio del diritto ed, in altra, al racconto dello stesso, come se la prima metà dovesse necessariamente essere completata dalla seconda, per evitare vuoti di memoria.

Spesso si è detto, e si continua a dire, che le rappresentazioni che Kafka offre del sistema giuridico, nei suoi romanzi e racconti, sono solo fantasie, storie assurde raccontate da un visionario ossessionato dalla legge. Però, oggi, dopo aver visto come ha attuato il diritto nazista, come è stato costruito l’impero coloniale o, senza andare troppo indietro nel tempo, come il diritto europeo affronta la questione degli immigrati, chi potrebbe affermare con ragione che le storie kafkiane siano solo fantasie?

È evidente che non ci si può spingere sino al punto di considerare Kafka un teorico del diritto, però, non si può neppure arrivare a negare il fatto che la sua opera letteraria costituisca ancora oggi un legato giuridico importantissimo.

Tra l’altro, molti filosofi del diritto ricorrono proprio ai testi di Kafka per meglio comprendere e spiegare l’universo giuridico contemporaneo. E ciò accade perché in essi si accumula una memoria del diritto più ampia di quella ufficiale, una memoria che illumina la zona oscura, l’oblio che caratterizza il discorso autoritario del potere giuridico.

Ma, nella sostanza, cosa ricorda questa memoria che si tramanda nella narrativa di Kafka?

Essa ricorda, scrive Cornelia Vismann, un’altra genealogia del diritto, una genealogia diversa da quelle offerte dalla teoria giuridica (Cfr. Cornelia Vismann, Akten. Medientechnik und Recht, Fischer 2000). In essa, all’origine del diritto non c’è la Grundnorm kelseniana (Hans Kelsen, Reine Rechtslehre: Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Deuticke, Leipzig/Wien, 1934) né la rule of recognition hartiana (Herbert Lionel Adolphus Hart, The Concept of Law, Clarendon Press, Oxford, 1994), e neppure la chain novel di Dworkin (Ronald Dworkin, Law’s Empire, Harvard University Press, Cambridge, 1986). Per Kafka, all’origine del diritto moderno c’è un paradosso, una contraddizione insolubile che è data, da un lato, dalla promessa del moderno Stato di diritto di rompere con la violenza indiscriminata e, dall’altro, dal ricorso all’uso della forza per mantenere tale promessa.

In questi termini si esprime Menke nell’intento di spiegare il paradosso del diritto moderno a cui ci introduce Kafka:

Every attempt at defining the relationship between law and violence must start with two tensely related, if not blatantly contradictory, premises. The first states: Law is the opposite of violence; legal forms of decision-making are introduced to interrupt the endless sequence of violence and counterviolence and counter-counterviolence, so as to exorcise the spell of violence generating more violence. The second premise states: Law is itself a kind of violence; even legal forms of decision-making exert violence — external violence that attacks physically, as well as inner violence that hurts the convict’s soul, his being. “Legal interpretation takes place in a field of pain and death. . . . A judge articulates her understanding of a text, and as a result, somebody loses his freedom, his property, his children, even his life.” In these two statements, the law’s hostility toward violence and its own violent character confront each other: law’s claim to put an end to the “savage violence” of the state of nature of “externally lawless freedom” and the violence by means of which law enforces this claim. The problem of law and violence is the problem of the relation between these two statements. This problem is a paradox, a confusion of thought (and of passions). It is a problem that we cannot solve in favor of either side: both statements contradict each other, but both are true—neither can be denied. Thus, accepting the truth of both statements is the first step toward doing justice to the problem of law and violence.[1]

 (Christoph Menke, Law and Violence, in Law & Literature, vol. 22, n. 1, University of California Press, Spring 2010, pp. 1, 2)

Ma, in che modo lo scrittore praghese rende visibile questa aporia dell’origine? Mettendo in scena, dice Calasso, i poteri che la rendono possibile: l’elezione, da un lato; e la condanna, dall’altro (Cfr. Roberto Calasso, K., Adelphi, Milano, 2005).

La burocrazia de Il castello, scrive Calasso, ha il potere di eleggere coloro che entreranno a far parte del castello, metafora del moderno Stato di diritto. La burocrazia de Il processo, invece,  ha il potere di punire gli eletti, coloro che sono stati scelti per presenziare al processo di fondazione del diritto moderno. Ma, l’elezione e la condanna non si distinguono quasi. È come se essere eletti per una nuova Legge significhi anche essere condannati alla violenza della sua venuta. Il nulla poena sine legem, principio cardine dello Stato di diritto, viene rovesciato e diventa nulla lex sine poena.

Tuttavia, occorre precisare che Kafka non nomina mai queste forze, ma le disegna soltanto, ricorrendo a quella che a me piace chiamare la geometria curvilinea delle forme e degli spazi. (Per una teoria del diritto curvo, basata sulla costruzione geometrica dello spazio giuridico, si veda il singolare studio di José Calvo González, Direito Curvo, Livraria do Advogado, Porto Alegre, 2013: “[…] o Direito curvo não è ápice, è cúpula; não è vértice, è circularidade. Numa palavra: não è frontalidade, mas revolução.”).

Come ha notato Benjamin, nel saggio Franz Kafka. Zur zehnten Wiederkehr seines Todestages, la letteratura kafkiana è popolata da una lunga serie di figure curve, ricollegabili all’archetipo della deformità: il gobbo (Cfr. Walter Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Wiederkehr seines Todestages, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Aufsätze, Essays, Vorträge, Band II, 2, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1991, p. 431). Ed infatti, nell’opera di Kafka, non esiste gesto più frequente di quello dell’uomo che flette profondamente il capo, sotto il peso di forze primitive.

Curvo è K. quando, in ufficio, piegato sulla scrivania, cerca di scrivere la corposa memoria che dovrebbe scagionarlo; curvi sono anche i due uomini che K. incontra nel magazzino della banca, che inizialmente non riconosce e che scopre poi essere i due sorveglianti che irruppero nella sua camera d’albergo, il giorno dell’arresto, sottraendogli la colazione e la biancheria; curvo è il bastonatore, il funzionario del tribunale, incaricato di punire i sorveglianti corrotti denunciati da K.; in posizione curva sta l’avvocato Huld quando beve il tea servitogli dalla segretaria Leni; curva appare la signorina Bürstner quando ascolta il resoconto dell’arresto; con il capo chino sta il cappellano del carcere nel momento in cui tiene la sua predica; curvo è anche l’uomo di campagna, negli ultimi anni di attesa dinanzi alla porta della legge; curvo è l’esploratore quando il comandante della colonia penale gli descrive il funzionamento della macchina di esecuzione delle condanne; curvo è il carrettiere Gerstäcker quando trasporta l’agrimensore K. all’osteria.

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(Einmal ein großer Zeichner. Franz Kafka als bildender Künstler, Vitalis, Prague, 2011)

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(Franz Kafka, Der Prozeß, illustriert von Bengt Fosshag, Büchergilde Gutenberg, Frankfurt am Main-Wien-Zürich, 2005)

Tuttavia, nei racconti di Kafka, a deformarsi, sotto il tratto di una curva, non sono solo i personaggi, ma anche gli scenari in cui questi ultimi agiscono: il soffitto dell’aula del tribunale, dove si svolge la prima udienza del processo, sembra avere la forma di una cupola, dato che, sotto, vi corre una inusuale galleria, lungo la quale gli occupanti possono starvi solo con un cuscino adagiato dietro la nuca, per evitare di ferirsi, urtando contro la parete; e ancora, nel duomo, il cappellano del carcere si rivolge a K. da un piccolo pulpito, la cui volta di pietra comincia insolitamente in basso e si inclina talmente tanto mentre si leva verso l’alto che il sacerdote non può starvi ritto, ma è costretto a sporgersi stabilmente dal parapetto.

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(Franz Kafka, El proceso, Versión escénica por A. Gide y J.-L. Barrault, Traducción de A. Ruiz Guiñazú, Emecé, Buenos Aires, 1952).

Pertanto, in Kafka, la costruzione di linee curve sembra rispondere più ad un vero e proprio progetto geometrico e meno ad una semplice deformazione dei corpi, come vorrebbe Benjamin. Tracciando curve sui piani più disparati, lo scrittore praghese divide lo spazio in due regioni: una esterna, senza margini, aperta e luminosa; e una interna, delimitata da un arco, chiusa e meno illuminata. Nessuno dei personaggi kafkiani abita la regione esterna. Tutti, rappresentanti della legge compresi, si muovono nello spazio interno creato dalla curva. L’universo esterno, tendenzialmente infinito, è il regno della legge, a cui K. e gli arconti sono destinati, ma nel quale non gli è ancora permesso ascendere. La curva rappresenta l’impedimento materiale. Solo evadendola o aprendo un varco in essa, si può arrivare alla legge; in caso contrario, si resta dentro i templi edificati in suo nome, ma privi della sua presenza.

Per questo i personaggi kafkiani cercano sempre delle finestre. Esse simboleggiano la possibilità di un contatto con la legge, rappresentano i punti di apertura sparsi lungo la curva, che, sebbene non consentano un vero e proprio attraversamento, un passaggio al regno della legge, quanto meno, ne permettono la contemplazione.

La geometria curvilinea, a cui Kafka ricorre per rappresentare il rapporto dell’uomo con il diritto moderno, reca i segni della violenza, non solo perché divide il giuridico dall’umano, ma, ancor più, perché pone il primo in una dimensione superiore ed inaccessibile e circoscrive il secondo dentro uno spazio basso e arcuato, governato da ̔fuori-legge̕ e destinato al tormento.

Con questa organizzazione dell’ambiente Kafka ci ricorda che il diritto moderno, all’origine, non ha ancora quella struttura circolare di cui si doterà con il tempo, eseguendo un movimento rotatorio intorno al proprio asse e racchiudendo in unico spazio il giuridico e l’umano.[2] Nel momento fondante, di questa rotazione del diritto intorno a sé, si avvertono solo l’impulso motore, la violenza creatrice, e il primo segno del movimento, la linea curva. Non si vede nient’altro: la legge è la promessa, ma non c’è ancora; il soggetto di diritto è in costruzione, ma non esiste ancora come tale.

La curva è la prima linea del disegno giuridico moderno e Kafka la ripercorre all’indietro per detenersi e detenerci nell’istante violento della fondazione. E con questo viaggio, in direzione contraria, egli ci restituisce la visione di un passato caduto nell’oblio, non per riattivarlo, ma per pietrificarlo in un’immagine, nella quale il diritto moderno possa osservarsi nei momenti di crisi, quando il pericolo di ricaduta nella violenza indiscriminata è in agguato e adottare contromisure per evitarlo si fa necessario.

Esiste, dunque, nella narrativa di Kafka un invito a riflettere sulla ferita che il diritto moderno ha inferto alla società occidentale (il popolo degli eletti), una ferità ancora aperta, da cui esala un forte odore di ferro, che rischia di stimolare un desiderio inverso, quello di un ritorno alle armi. Per soffocare questa voglia, il diritto deve pulire regolarmente l’antica ferita e coprirla, affinché non imputridisca, contaminando l’aria e riaccendendo l’appetito della violenza.

Proprio a quest’attività di ̔sterilizzazione̕ e ʻbendaggio̕ sembra riferirsi Kafka, quando scrive neiDiari, che fra le grandi pietre della legge c’è del sangue, ma si trova nascosto negli interstizi, assorbito, messo in quarantena, per evitare il contagio (Cfr. Franz Kafka, Tagebücher 1910-1923, in F. Kafka, Gesammelte Werke, Herausgegeben von Max Brod, Fischer, Frankfurt am Main, 1951, p. 555).

Ho detto che esiste una memoria del diritto moderno diversa da quella ufficiale; l’ho chiamata memoria involontaria e ho chiarito in quali documenti viene archiviata. Ora, dovrei solo spiegare a cosa serve questa memoria artistica e per farlo ho deciso di cedere la parola all’altro, a quel K. che mi ha ospitato nel suo discorso e che, oggi, vorrei che si sentisse qui, nello spazio del mio discorso, come uno straniero a casa.

Die Kunst fliegt um die Wahrheit, aber mit der entschiedenen Absicht sich nicht zu verbrennen. Ihre Fähigkeit besteht darin in der dunklen Leere einen Ort zu finden, wo der Strahl des Lichts, ohne daß dies vorher zu erkennen gewesen wäre, kräftig aufgefangen werden kann.[3]

(Franz Kafka, Oktavheft G, 1917/18, in Nachgelassene Schriften und Fragmente II [Krit. Ausg.], Frankfurt a.M., 1992, pp. 75, 76)

Note

[1] [Ogni tentativo di definire il rapporto tra diritto e violenza deve partire da due premesse strettamente legate, se non, addirittura, palesemente contraddittorie. La prima afferma: il diritto è l’opposto della violenza, dato che le forme giuridiche del processo decisionale vengono introdotte per interrompere la sequenza infinita della violenza, della contro-violenza e della contro-contro-violenza, così da esorcizzare l’incantesimo della violenza che genera altra violenza. La seconda premessa dichiara: il diritto è di per sé una forma di violenza, poiché anche le forme giuridiche delle decisioni esercitano violenza  ̶  tanto una violenza esteriore che colpisce il fisico, quanto una violenza interiore che ferisce l’anima del detenuto, il suo essere. “L’interpretazione giuridica ha luogo in un contesto di dolore e di morte. . . . Un giudice articola la sua comprensione di un testo, e come risultato, qualcuno perde la libertà, la proprietà, i propri figli, e persino la vita”. In queste due affermazioni, l’ostilità del diritto verso la violenza e il proprio carattere violento si confrontano: la pretesa del diritto di porre fine alla “violenza selvaggia” dello stato di natura, caratterizzata da una “libertà esternamente senza legge”, e la violenza, per mezzo della quale, il diritto impone questa pretesa. Il problema del diritto e della violenza è il problema del rapporto tra queste due affermazioni. E questo problema è un paradosso, una confusione di pensiero (e di passioni). È un problema che non possiamo risolvere a favore di nessuna delle due parti: entrambe le affermazioni si contraddicono a vicenda, ma entrambe sono vere  ̶   nessuna delle due può essere negata. Così, accettare la verità delle due affermazioni è il primo passo per rendere giustizia al problema del diritto e della violenza.].

[2] Questo movimento circolare del diritto moderno è stato paragonato da Calvo González ad una danza immobile, eseguita da ballerini che girano su sé stessi: “Dans la tâche d’essayer d’imaginer l’expérience interprétative dans l’interprétation juridique, je me sers, en guise de sous-titre, d’une figuration métaphorique, pour mieux dire, d’un oxymore: la danse immobile. Dans cette image figurée se résout ce qui paraîtrait sans cela un insensé accouplement de contraires: changement et stabilité, adaptation et continuité. Commençons, alors, par figurer le tableau imaginaire de quelques danseurs dithyrambiques: des hommes en rond qui dansent en tournant sur eux-mêmes. C’est une très ancienne liturgie, vraisemblablement d’origine crétoise, dont le «créer/faire activement et originairement» consiste en une danse vagabonde, en entonnant des louanges et dithyrambes à Dionysos. Mais l’axe rotatoire y était libre et l’intarissable mobilité qui se précipitait sur elle-même était self-interférente. Il serait préférable donc d’imaginer la danse gyrostatique du derviche, composée d’une délirante apesanteur; d’une permanente rotation sans translation; d’un enveloppant retour sur un axe sans fuit ; d’un parcours perforant l’entourage et le contour et menant vers la profondeur intrinsèque; d’un voyage intérieur; d’une focalisation internaliste, auto-consciente, qui ne se distrait pas du remous dessinant un moulinet continu; d’une sorte de danse de toupie, qui, grâce à sa nature entropique, vainc la tentation du contrepoint, la menace de l’égarement, l’éventuel pèlerinage erratique, qui résiste à toute afonctionnalité spacielle extravagante; qui, somme toute, est toujours une danse autopoietique et assujettie à l’enroulement circulaire de son contour.”. Cfr. José Calvo González, Octroi de sens. Exercices d´interprétation juridique-narratif, Les Presses de l´Université Laval, Québec (Canada), 2008, p. 5.

[3] [L’arte vola intorno alla verità, ma con l’intenzione precisa di non bruciarsi. La sua capacità consiste nel trovare, nel vuoto oscuro, un luogo dove il raggio di luce, sebbene nessuno lo abbia percepito prima, possa essere catturato con forza].

 

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