MICHEL FOUCAULT PEDAGOGO / 1

 

Autrefois

La tirannia di una volontà buona, l’obbligo di pensare “in comune” con gli altri, il dominio del modello pedagogico, e soprattutto l’esclusione della bestialità, ecco tutta una spregevole morale del pensiero, di cui sarebbe facile senza dubbio decifrare il gioco nella nostra società. Occorre liberarsene. (Michel Foucault, Theatrum Philosophicum)

 

Una specie di introduzione

Si registra una certa ambiguità nel rapporto che Michel Foucault ha intrattenuto con la pedagogia e più in generale con i sistemi educativi. Da un lato, infatti, è assente nell’opera di Foucault una analisi archeologica specifica che ne ponesse in evidenza, motivo costante della produzione foucaultiana, il nesso fra forme del sapere, in questo caso pedagogico, e relazioni di potere, produzioni di soggettività mediante assoggettamento. Il maestro come sbirro, l’allievo come suddito, il diritto privato come una griglia sì da smussare, ma da poter applicare alle relazioni educative. Il corpo del fanciullo nelle mani del maestro: una massa muscolare grezza da plasmare, un ammasso di gesti da educare, disciplinare, indirizzare verso fini migliori dello schiamazzo inoperoso. Le attenzioni dedicate da Foucault al diritto penale, alla psichiatria, alla medicina, non hanno attecchito sul terreno pedagogico. Strano davvero.

La biopolitica, di cui Foucault detiene oramai (e, per certi versi, purtroppo) una specie di diritto di autore, di prelazione disciplinare, ha un doppio volto. Infatti, essa può essere intesa sia come la condizione nella quale da un certo momento storico in poi l’individuo è venuto a trovarsi, controllato e disciplinato attraverso una microfisica dei poteri che passa attraverso l’addomesticato delle anime e dei corpi, sia come la disciplina che ha posto questa condizione come oggetto della propria ricerca. In questo senso, l’educazione riveste un ruolo biopolitico assolutamente fondamentale. Come non ammettere, infatti, che una certa forma di potere può non solo fruire del sostegno di una prassi educativa, ma addirittura essere da quest’ultima direttamente prodotta? Il rapporto Foucault-pedagogia non è assente, bensì ambiguo: sono numerosissimi i rimandi all’interno dell’opera di Foucault ai sistemi pedagogici e alle tecniche educative. Non è mia intenzione ripercorrere l’opera di Foucault e inventariarne la terminologia pedagogica, un’operazione peraltro di pochissimo interesse teoretico. Non è nemmeno questione di utilizzare la proposta filosofico-politica di Foucault in termini pedagogici[1]. Piuttosto, in queste poche pagine, si può abbozzare un tentativo di risposta (excusatio non petita…) a tre questioni. In primo luogo, l’opera di Foucault mostra perché abbia senso occuparsi dei rapporti fra sistemi disciplinari e educazione: tenterò di analizzare i luoghi in cui Foucault affronta questo problema. In secondo luogo, l’opera di Foucault, proprio in virtù delle problematiche rilevate dall’analisi del rapporto sistemi disciplinari-educazione, tenta una via di fuga dal recinto pedagogico: si accennerà a questa via di fuga, rappresentata dall’interesse dell’ultimo Foucault per il tema antico della cura di sé (epimeleisthai heautou). In terzo luogo, traccerò un bilancio complessivo delle riflessioni di Foucault sulla pedagogia, evidenziandone i punti critici, ma anche gli spunti che ritengo essere più proficui per un dibattito contemporaneo sulle forme dell’educazione.

manichini

Il corpo educato

Il giudizio di Foucault sull’idea di “sistema educativo” è quantomeno lapidario. Nel discorso d’insediamento presso la cattedra di Storia dei Sistemi di Pensiero del Collège de France tenuto il 12 aprile 1970, Foucault definisce i sistemi educativi «un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri  ch’essi comportano»[2]. L’educazione non è una irenica pratica di insegnamento basata sul sogno di un passaggio di informazioni dal docente al discente, come aveva teorizzato, ad esempio, Comenio nella sua Didattica Magna: l’educazione è piuttosto una pratica politica votata alla produzione di soggettività catturate in un gioco di rimandi continui fra sapere e potere, fra forme del sapere e coercizioni del potere: l’educazione, insomma, produce attivamente individui assoggettati. Da discutere e analizzare sono le modalità attraverso le quali gli apparati e di dispositivi educativi producano queste forme del soggetto.

La riflessione di Foucault sull’educazione ha un’ora topica: il testo del 1975 Surveiller et punir. Naissance de la prison e, in particolare, la terza parte dedicata alla “disciplina”. Prima di analizzare la posizione foucaultiana è bene sgombrare il campo da un equivoco. Foucault utilizza con una certa predisposizione alla generalizzazione i termini pedagogia, educazione, sistema educativo, sistema scolastico. Essi, senza dubbio, appartengono allo stesso orizzonte semantico. È opportuno tuttavia distinguere con chiarezza, in una maniera certo criticabile ma che appare funzionale (excusatio non petita…), pedagogia e sistemi educativi. Intendiamo con pedagogia «la trasmissione di una verità che ha la funzione di dotare un soggetto qualunque di attitudini, di capacità, di saperi, e così via, che in precedenza non possedeva, e che al termine di tale rapporto pedagogico dovrà invece possedere»[3]. Il problema della pedagogia stricto sensu occuperà l’ultima fase del pensiero di Foucault, dedicata alla analisi delle forme di soggettivazione e al tema antico della cura di sé. Il primo Foucault dedica piuttosto una serie di riflessioni ai sistemi educativi, tant’è che potremmo avanzare l’ipotesi che le fasi del pensiero foucaultiano si articolino, anche ma certamente non solo, intorno allo slittamento dai sistemi educativi alle pratiche pedagogiche. Intendiamo con sistema educativo una qualunque istituzione (caserma, fabbrica e soprattutto scuola) i cui metodi di funzionamento permettano «il controllo minuzioso delle operazioni del corpo»[4]: i sistemi educativi sono, in questo senso, procedimenti disciplinari e la disciplina altro non è che una fabbrica di «corpi sottomessi ed esercitati, corpi docili»[5], dove per corpo docile Foucault intende «un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato»[6]. È proprio nei collegi e nelle scuole elementari che Foucault individua il primo terreno di coltura di questa nuova tecnica politica che nel momento stesso in cui massimizza in termini utilitaristici le potenzialità del corpo, ne diminuisce le potenzialità resistenti rendendoli obbedienti. In questa nuova tecnologia del corpo, che sostituisce storicamente il supplizio (il corpo mostrato) e la punizione (il corpo torturato), è in atto quella che Foucault definirà felicemente una “microfisica del potere”[7], una sorta di ossessiva razionalità nell’uso dei corpi modellata sul dettaglio: «Una minuziosa osservazione del dettaglio e, nello stesso tempo, un’assunzione politica delle piccole cose, per il controllo e l’utilizzazione degli uomini, percorrono l’età classica, portando con sé tutto un insieme di tecniche, tutto un corpus di procedimenti e di sapere, di descrizioni, di ricette e di dati»[8]. Tale controllo del dettaglio comporta una diversa concezione dello spazio, articolato in modo da permettere una presa del potere sul singolo corpo. Tale nuova formulazione dello spazio in un senso analitico, che funziona mediante una serie di regole (clausura-quadrillage-ubicazioni funzionali-unità di rango), è evidente nello spazio disciplinare che costituisce i collegi e le scuole nella Francia del XVIII secolo: la classe rappresenta lo spazio disciplinare per eccellenza. Attraverso la costruzione di uno spazio seriale, che poneva il maestro nelle condizioni di controllare contemporaneamente ogni allievo, il corpo dell’allievo viene catturato in una fitta rete di dispositivi “microfisici” che lo modellano, gestendone in maniera perfettamente razionale i movimenti:

Il rango, nel secolo XVIII, comincia a definire la grande forma di ripartizione degli individui nell’ordine scolare: file di allievi nella classe, nei corridoi, nei corsi; rango attribuito a ciascuno a proposito di ogni compito e di ogni prova; rango che ciascuno ottiene di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno; allineamento delle classi d’età, le une di seguito alle altre; successione delle materie insegnate, dei problemi trattati secondo un ordine di difficoltà crescente. E in questo insieme di allineamento obbligatorio, ogni allievo, secondo l’età, le prestazioni la condotta, occupa ora un rango, ora un altro; egli si sposta senza posa su una serie di caselle – le une, ideali, segnano una gerarchia del sapere o delle capacità, le altre aventi lo scopo di tradurre materialmente nello spazio della classe o del collegio la ripartizione dei valori o dei meriti[9].

La scuola dunque si definisce come un dispositivo di distribuzione spaziale dei corpi, che ricevono il loro statuto dalla loro collocazione, in modo da essere facilmente controllabili, premiabili, punibili, dal maestro. Insomma, lo spazio scolare non è soltanto «una macchina per apprendere», bensì anche e soprattutto «per sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare»[10]. Tale ripartizione micrologica dei corpi nello spazio permette quell’operazione di massimizzazione dell’utile che è l’obbiettivo ultimo delle procedure disciplinari e, soprattutto, una educazione del corpo dello studente necessaria alla massimizzazione delle sue potenzialità e contemporaneamente alla sua obbedienza. Il corpo viene plasmato attraverso tutta una serie di pratiche minuziose: una horologia per cui il corpo è penetrato dal tempo, una analisi della gestualità per cui la più insignificante movenza, come ad esempio la piega del polso nell’atto della scrittura, viene decodificata, per essere in un secondo momento riarticolata in funzione della massimizzazione dell’atto. La temporalità comincia a divenire elemento fondamentale della pratica pedagogica: lo spazio analitico e il tempo analitico producono una pedagogia analitica, ovvero una pedagogia che minuziosamente controlla lo studente sino a giungere al più infimo dettaglio del suo percorso formativo. Tutto ciò necessita di un corpo disciplinato: lo studente migliore, lo studente con la grafia più elegante, lo studente che esegue l’esercizio nel minor tempo possibile, sarà colui il cui corpo è stato disciplinato dal potere al punto da permettere tale massimizzazione del gesto. Il corpo dello studente diviene, in questo modo, il sostegno naturale di una pratica di assoggettamento e anche il terreno di sperimentazione di una serie di saperi: come funziona un arto, come si annulla lo sforzo di un polso durante la scrittura, come si ruota il busto in maniera da non rilasciare il peso sugli arti inferiori etc. Il potere esige un sapere e allo stesso tempo produce il sapere di cui necessita, e il corpo docile rappresenta la zona di incontro e l’incubatore di queste due istanze: conoscere il corpo, governare il corpo.

[1] È stato fatto, e mi limito a rimandare alle prestazioni specifiche: J. Audureau, “Assujettissement et subjectivation: réflexions sur l’usage de Foucault en éducation”, in Revue française de pédagogie (143), 2003, pp. 17-29; B. M. Baker – K. E. Heyning (eds), Dangerous Coagulations?: The Uses of Foucault in the Study of Education, Peter Lang, New York-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-Oxford-Wien 2004; G. McNicol Jardine, Foucault & Education, Peter Lang, New York-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-Oxford-Wien 2005; T. Besley – M. A. Peters, Subjectivity & Truth: Foucault, Education and the Culture of Self, Peter Lang, New York-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-Oxford-Wien 2007.

[2] M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, trad. it. A. Fontana, M. Bertani e V. Zini, Einaudi. Torino 2004, p. 23.

[3] Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 365.

[4] Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 149.

[5] Ivi, p. 150.

[6] Ivi, p. 148.

[7] Cfr. M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi poltici, a c. di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977.

[8] Id., Sorvegliare e punire. cit., p. 153.

[9] Ivi, p 160.

[10] Ibidem.

 

Ernesto Sferrazza Papa, classe 1988, è un borsista postdoc presso il Collège d’études mondiales (Fondation Maison des sciences de l’homme, Paris). Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia nel marzo 2016 all’Università di Torino, discutendo una tesi sul rapporto tra spazio e potere nella modernità e nella postmodernità. Presso la medesima università è attualmente cultore della materia in filosofia teoretica. Nel 2014 è stato visiting scholar presso il Center for Religious Studies and Research della Vilnius University. È membro del LabOnt, il laboratorio di ontologia diretto da Maurizio Ferraris. Fa parte dei comitati editoriali della “Rivista di Estetica” e di “Filosofia”. Si è occupato soprattutto del tema dell’articolazione politica dello spazio, con un interesse particolare rivolto agli autori classici della filosofia (Platone, Aristotele, Hobbes, Kant, Hegel) e a pensatori contemporanei (Schmitt, Foucault, Agamben, Esposito). Ha pubblicato numerosi saggi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Attualmente è impegnato nella stesura di una monografia dedicata alla storia filosofica e politica dei muri.

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