We are inference machines, not objective observers
Michael Abrash, Speech at F8 developer conference, 2015.

 

 

Quasi a conferma di certe analisi sulla fisionomia reticolare del rizoma[1], o rendendo concreto sul piano sociologico lo sguardo a tratti profetico di un autore come Vilém Flusser[2], il disegno ancora parzialmente incompleto del nuovo spazio pubblico, già profondamente trasformato dall’espansione delle modalità comunicative “social” introdotte negli ultimi anni, ha fatto parlare ad alcuni dell’avvento di una network society[3].

Ora, si può sicuramente condividere con Castells la tesi per cui dal punto di vista sociologico (con ricadute di grande interesse anche per il filosofo del diritto e della politica), «networks constitute the new social morphology of our societies and the diffusion of networking logic substantially modifies the operation and outcomes in the processes of production, experience, power and culture. While the networking form of social organization has existed in other times and spaces, the new information technology paradigm provides the basis for its pervasive expansion throughout the entire social structure»[4]. È altresì evidente che la traiettoria[5] iniziata con il cinema, passata attraverso la televisione e poi gli strumenti informatici[6], che sono divenuti, attraverso la interconnessione globale garantita da internet, delle vere e proprie stazioni di trasmissione delle comunicazioni e dei linguaggi, doveva condurre, come se fosse stato quello il suo proprio Destino-Destinazione alla elaborazione di sistemi di (tentato) avvicinamento di uomo e mondo (o mondi) tali da ingenerare veramente una nuova concezione non solo della stessa modalità comunicativa – affidata ora preferibilmente alle tecniche informatiche dematerializzate: in questo senso la tendenza alla dematerializzazione della documentazione e dei procedimenti delle pubbliche amministrazioni è un vero e proprio baluardo del Destino che avanza, sotto forma di Infocrazia[7] – ma anche dei rapporti umani[8] e quindi dello spazio che quei rapporti producono: lo spazio pubblico, e del concetto di temporalità e spazialità all’interno del quale gli stessi sono necessariamente incastonati.

I social networks hanno sicuramente trasformato i rapporti umani, e lo spazio che ne è derivato corrisponde ad una “esteriorizzazione del pensiero”[9] in grado di realizzare l’esteriorizzazione dapprima prodotta dalla comparsa dei mass media: la cd. network society accentua la frammentazione e la frammentarietà delle comunicazioni e dei rapporti (e quindi dello spazio pubblico, nel senso della de-medializzazione[10]). Lo spazio che ne deriva, come si vorrebbe mostrare nel seguito delle presenti riflessioni, è neutro: tutto ha lo stesso valore perché nulla ha valore, se non ciò che si vede attraverso quello sguardo che definiremo periscopico. Tutto è riproducibile e nulla è contestabile, tutto è concepibile e nulla è accertabile. Quel che si vorrebbe sostenere in questa serie di brevi contributi, è cioè che la modalità rappresentativa del politico, la modalità attraverso la quale ogni soggetto vede e inquadra i fatti della vita al fine di situarli all’interno di quella che si potrebbe definire come sfera pubblica, nell’era della realtà virtuale, è fortemente messa in crisi.

Posto il venir meno della distinzione di pubblico e privato (nelle forme di sfera pubblica e sfera privata) come mostrato dalla Arendt[11] e Habermas[12], e posta quindi la sopravvenienza di un’unica istanza che è quella dello spazio sociale che ingloba e con-fonde privato e pubblico[13], l’uomo contemporaneo crede di dover e poter fare a meno del concetto di mediazione preferendogli l’immediatezza e la trasparenza della rappresentazione personale dei fatti al fine di una trasfigurazione individuale degli stessi, che divengono nell’immaginario di ogni uomo di fondamentale importanza per la comprensione del proprio tempo, poiché «ciascuno vuole essere direttamente presente e presentare la propria opinione senza alcun intermediario. La rappresentazione cede il posto alla presenza o alla co-presentazione»[14] e rimane solamente la meccanica riproduzione, o meglio il tentativo di una meccanica puntuale e trasparente riproduzione della realtà oggettuale, la quale non può che essere illustrata per com’è – prescindendo da qualsiasi capacità/incapacità di mediazione; si tratta in questo senso di una ripresentazione, e non di una rappresentazione[15].

In questo senso la rappresentazione nell’epoca contemporanea non solo è in crisi, ma pare proprio impossibile. Già Walter Benjamin aveva rintracciato e sottolineato il rapporto tra crisi e rappresentazione[16]: si può dichiarare invero che nella interpretazione benjaminiana «la lotta per la rappresentazione si rinnova ad ogni crisi»[17]. Nei periodi di crisi, la rappresentazione è impossibile: «o la dimensione dell’idea come di un “Vorgebenes” minaccia di rimanere preda di una teologia negativa (non si dà rappresentazione possibile dell’idea), o – ma i due aspetti possono strettamente intrecciarsi – si presume di poterla rappresentare per nomi-definizioni-immagini»[18]. Ma il nome è apparenza, il nome è doxa avrebbe detto Platone sulla scorta dell’antinominalismo eracliteo; il nome, nella tradizione biblica relativa alla condizione prelapsaria è un attributo umano, di quel soggetto cioè che può solo cercare di percepire l’organizzazione del mondo, pur senza poterne sperimentare l’essenza[19]; è Dio che crea, senza attribuire nomi: «il nome riflette le doxai, le opinioni dei mortali, l’ordine ingannevole, l’apparente disposizione del mondo», infatti «all’onoma è impossibile far corrispondere alcun essere certo e stabile; esso non è che la rappresentazione dell’oscillare dell’ente nella doxa dei mortali. Propriamente, esso non rappresenta che l’ingannevole ordine di questa stessa doxa, nel suo perenne cambiar luogo e colore»[20]. Tornando alla rappresentazione, c’è da dire che il rappresentare per nomi-definizioni-immagini, forma sì la conoscenza, ma una conoscenza «oscura e instabile dell’ente oscillante»[21], non una conoscenza vera, fondata. Nomi-definizioni-immagini non possono costituire veramente una formula conoscitiva, nemmeno per ciò che riguarda la cosa e la sua rappresentazione. Anche la cosa, per essere rappresentata necessita di un’anamnesi filosofica della sua essenza, non basta l’illustrazione pedissequa delle sue estrinseche qualità come se veramente fosse ineliminabile la relazione estetizzante tra dicibile e visibile[22], come se attraverso l’ontologismo fosse possibile sfuggire dalle paludi del pensiero sofistico[23]. In questo senso si tornerebbe diritti ai problemi posti dal Cratilo platonico intorno all’esito aporetico della rappresentazione come immagine identica alla cosa, rappresentazione come doppione[24]: «il problema consiste nel darsi rappresentativo dell’idea, non della forma in cui una “civiltà della visione” se la rappresenta»[25].

Sigmar Polke Solutions I-IV 1967 enamel on four individual canvases
Sigmar Polke Solutions I-IV 1967 enamel on four individual canvases

 

La civiltà della visione alla quale apparteniamo, attraverso l’invenzione di una realtà virtuale, vorrebbe risolvere il problema dell’accesso alla verità dell’idea, vorrebbe risolvere il problema della filosofia e del senso del pensare filosofico sostituendogli un più mansueto modello di ragionamento in grado di avvicinarsi meccanicamente al vero: «today google plays the role that was traditionally fulfilled by philosophy and religion. Google is the first known philisophical machine that regulates our dialogue with the world by substituting “vague” metaphisical and ideological presuppositions with strictly formalized and universally applicable rules of access»[26]. L’idea è cioè quella di una tecnica di accesso al reale che deve prendere il posto del pensiero filosofico. Le “strictly formalized and universally applicable rules of access” di cui parla Boris Groys presuppongono una formulazione linguistica di quell’accesso stesso, che deve essere inquadrata nell’ambito più ristretto delle regole linguistiche in base alle quali, solo, è possibile rivolgersi a quella “philisophical machine”. Da questa prima, semplicissima e basilare regola di accesso deriva la costruzione del “dialogo con il mondo”: «according to these rules, every question has to be formulated as one word or combination of words. The answer is given as a set of contexts in which this word or combination of words may be discovered by search engine»[27]. È chiaro quindi che il funzionamento della “philosophical machine” prevede e presuppone non solo la sostituzione del metodo filosofico in quanto modo di accesso al reale, ma anche la successiva ri-presentazione del reale stesso nelle forme e formule organizzative stabilite attraverso un algoritmo dal motore di ricerca. In questo punto, precisamente, come rileva Groys, Google gioca il ruolo della religione e si sostituisce alla religione, dal momento che l’algoritmo ricalcola l’organizzazione dei dati provenienti dalla realtà in modo da renderli asseritamente più fruibili e ordinati – con ciò stesso intendendo ricalcolare la stessa costruzione e combinazione del reale.

Perciò la “philosophical machine” deve sostituirsi al reale rigenerandolo, in modo tale da renderlo più malleabile, prevedibile, stabile, e infine nominabile a piacere[28]. Questo si può fare solamente producendo dei doppioni del reale che non soffrano delle stesse contraddizioni del reale.

L’eliminazione della contraddizione nel mondo avviene attraverso la sua sostituzione. In un certo senso si può così affermare che il virtuale è «l’ultimo predatore e depredatore della realtà – da questa stessa occultato come una sorta di agente virale e autodistruttore. La realtà è divenuta preda della realtà virtuale»[29] sino all’estrema conseguenza della realtà integrale. Il virtuale sostituisce integralmente il mondo, sino alla duplicazione dell’identico.

Tutto ciò ha delle evidenti ripercussioni di tipo politico-giuridico: occorrerà nel corso dei successivi contributi, trasferire questi concetti allo spazio pubblico, per come è stato trasformato dalla realtà virtuale.

[1] G. Deleuze-F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), trad. it., Roma 2014, pp. 51ss..

[2] Ad es. V. Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo (1985), trad. it., Roma 2009, p. 223

[3] J. van Dijk, The Network Society: Social Aspects of New Media, 2ª edizione, Sage, 1999; M. Castells-G. Cardoso (a cura di), The Network Society: From Knowledge to Policy, Washington DC 2006.

[4] M. Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture, I: The Rise of the Network Society, Cambridge MA. Oxford UK 1996, p. 469.

[5] M. Castells, The Network Society: from Knowledge to Policy, in M. Castells-G. Cardoso (a cura di), The Network Society: From Knowledge to Policy, cit., p. 3.

[6] Per uno sguardo d’insieme G. Ziccardi, Informatica giuridica. Controcultura, informatica giuridica, libertà del software e della conoscenza, I, Milano 2011, pp. 47 ss..

[7] A. Zuurmond, De Infocratie. Een theoretische en empirische heroriëntatie op Weber’s ideaaltype in het informatietijdperk, Delft 1994.

[8] In questo senso sembrano cogliere alcuni aspetti salienti della questione V. Amenta-A. Lazzaroni-L. Abba, L’identità digitale: dalle nuove frontiere del Sistema Pubblico di Identificazione (SPID) alle problematiche legate al web, in “Ciberspazio e diritto”, 1/2015, pp. 12 ss..

[9] D. De Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato. Come le tecnologie delle comunicazione trasformano la mente umana, Bologna 1993

[10] B.-C. Han, Nello Sciame. Visioni del digitale, Roma 2015, p. 30.

[11] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it., Milano 2008, p. 50.

[12] J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), trad. it., Roma-Bari 2011, p. 164.

[13] Aspetto riproposto negli stessi termini dai social networks in cui non esiste nulla di individuale e nulla di collettivo: G. Sartor, Social networks e responabilità del provider, in AIDA 2012, p. 42. In questo stesso senso B.-C. Han, Nello sciame, cit., p. 65.

[14] B.-C. Han, Nello sciame, cit., p. 31.

[15] Sulla scorta di Giorgio Colli e della sua Filosofia dell’espressione, Massimo Cacciari afferma che il rappresentare è sempre un rievocare qualcosa che già c’era prima di essere rappresentato, ragion per cui la rappresentazione sarebbe sempre e comunque un’operazione di mediazione (anche tra vari piani temporali). Ciò che sta prima della mediazione, e in cui consiste in definitiva l’operazione conoscitiva, è un im-mediato: in questo senso «la rappresentazione non può perciò definire l’immediato che presuppone come proprio ‘fondamento’, ma soltanto esprimerlo» (M. Cacciari, Della cosa ultima, Milano 2004, p. 449). In qualche modo la rappresentazione è sempre un’astrazione, un’operazione astrattiva ed estrattiva, che estrae cioè dall’immediato darsi delle cose un logos indiretto, che non può che essere rievocativo; nondimeno, «il logos erra quando afferma che il suo discorso riproduce l’immediatezza del contatto – quando afferma, per così dire, che la sua espressione è vero toccare, che la sua ‘ricostruzione’ dell’immediato non è illusione» (M. Cacciari, Della cosa ultima, cit., p. 453).

[16] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), trad. it., Torino 1971, p. 7.

[17] M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano 20087, p. 78.

[18] M. Cacciari, L’angelo necessario, cit., pp. 78-9.

[19] Ne parla con profitto e da una visuale originale D. Coccopalmerio, Laudatio di Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico, in “Iustitia”, 4/2008, pp. 506 ss..

[20] M. Cacciari, L’angelo necessario, cit., p. 75. Qui Cacciari si riferisce a Platone, Lettera VII, 343b ed evidentemente ha in mente il Cratilo, 384d-c.

[21] Ibidem.

[22] Nel senso di W. J. Mitchell, Picture Theory: essays on verbal and visual representation, Chicago1994.

[23] In qualche modo, al di là del rimando, resosi assolutamente necessario, a M. Heidegger, Il «Sofista» di Platone (1925), trad. it., Milano 2013, si deve almeno suggerire, di passaggio, che la posta in gioco, nell’ambito dei rapporti interni alla coppia concettuale doxa-épisteme, è proprio la dialettica tra bíos politikos e bíos theoretikos.

[24] M. Cacciari, L’angelo necessario, cit., p. 79.

[25] Ibidem.

[26] B. Groys, Google: Words beyond grammar=Google: Worte jenseits der Grammatik. Exhibition catalogue, Stuttgard 2011, p. 5

[27] Ibidem.

[28] Incorrendo però nei rischi apocalittici di cui parla S. Cotta, La sfida tecnologica, Bologna 1968, p. 101 ss..

[29] J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, Firenze 2005, p. 4.

 

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