In queste ultime battute presentiamo alcune note conclusive che rappresentano un primo tentativo di generalizzazione sistematica e formale delle pratiche memoriali. Soffermandoci sulle performance che sono state osservate, descritte e analizzate, sembra possibile tracciare un continuum performativo dell’identità collettiva su cui collocare le diverse pratiche memoriali in base al senso di appartenenza e coesione sociale da esse sprigionato e alla loro capacità di far leva su quei valori condivisi che cementificano la coscienza collettiva. I due esempi trattati si collocano ai poli opposti di questo continuum. La parata militare durante il giorno della Festa Nazionale si trova al gradino più basso. La sua funzione è di rievocare l’atto fondatore della Nazione per celebrarne l’intera storia. L’istanza identitaria della performance si assottiglia accontentandosi di fare accenno a un evento atavico che perde il proprio peso storico per assurgere al ruolo di mito della Nazione. Si tratta, infatti, di un passato troppo remoto perché susciti il bisogno di ricostruire un suo significato presente e ciò argina la forza d’identificazione collettiva e limita il coinvolgimento emotivo.

Tra l’evento e la performance che designa l’evento si stabilisce quindi un rapporto puramente nominale, a-narrativo: la sfilata non serve a ridefinire una versione politicamente orientata e moralmente accettabile dell’evento storico ma si limita semplicemente a denominarlo. La mitizzazione del passato remoto produce una narrazione universalmente condivisa, profondamente consolidata e da tempo sedimentata nella coscienza collettiva. La cerimonia ha solo uno scopo monumentale e contemplativo rispetto a un passato che si riversa nel presente come per riflesso. I principi nazionali cui la performance si richiama sono dati per scontati, sono stati ampiamente interiorizzati e non pongono più alcun dubbio morale; perciò non richiedono una precisa ridefinizione politica. Se ci rifacessimo alla dicotomia proposta da Schechner tra quelle performance in senso stretto (“is” performance) e le performance in senso lato (“as” performance),[1] potremmo dire che la Festa Nazionale è una performance in senso stretto, meramente percepita come spettacolo che si adegua più ai canoni estetici della contemplazione che a quelli etici della partecipazione. Come ogni spettacolo che non sia tecnicamente riproducibile, essa comunica un senso di urgenza: spinta inevitabilmente verso la dissoluzione di sé, la cerimonia della Festa Nazionale si risolve nella fugacità di un evento che esiste solo per essere fruito. La parata, che deriva dal verbo parare, è infatti per sua definizione ciò che viene esibito, la cui essenza si esaurisce nell’atto medesimo del mostrarsi.

Al contrario, le cerimonie di commemorazione degli attentati di Parigi sono un formidabile esempio di come i rituali di commemorazione delle tragedie umane, così straordinariamente violente da sfuggire all’attuale ordine del pensabile, siano funzionali alla costruzione di una narrazione storica dell’evento basata sui valori condivisi posti a fondamento dell’identità collettiva. Come già stato accennato, lo scopo insito e inconsapevole, di cui il dispositivo rituale della commemorazione si fa carico, è di sollevare il proprio gruppo di appartenenza dalle responsabilità e da ogni possibile implicazione con l’avvenimento, percepito come il prodotto di un ordine a-morale totalmente altro. Le cerimonie di commemorazione sono quindi delle performance in senso lato, delle “as performance” direbbe Schechner,[2] dove l’ordine politico che definisce la narrazione su cui l’intero rituale si fonda si cela dietro un aspetto di apparente oggettività. La finzione retorica intrinseca in ogni performance narrativa risulta ancor più latente proprio nelle “as” performance, laddove cioè il contenuto performativo del rituale non viene riconosciuto dal gruppo che ne stabilisce e ne legittima la presenza: i partecipanti all’avvenimento non si percepiscono come spettatori o fruitori di uno spettacolo ma come partecipanti fortemente coinvolti e soggettivamente responsabili dell’andamento rituale.

Tale dinamica narrativa che scorre sul fondo del rituale commemorativo si palesa, a nostro parere, proprio in occasione delle cerimonie di commemorazione che hanno reso omaggio alle vittime degli attentati di Parigi. Infatti, il loro ricordo doloroso bruciava ancora così vivido e palpabile da non dover necessariamente richiedere un atto di memorializzazione collettiva per essere rievocato, soprattutto a seguito della seconda ondata di attacchi terroristici che hanno riaperto vecchie ferite e inciso cicatrici ancora più indelebili. Sembra quindi che un altro criterio sia stato cruciale nel definire l’urgenza della commemorazione. In altre parole, la prossimità con l’evento e l’intensità emotiva provocata dall’ultima tragedia rendono impossibile sostenere che si sia trattato di commemorare gli attentati in quanto evento strettamente storico. Per essere oggetto di commemorazione l’evento ha dovuto subire un processo di storicizzazione o, potremmo anche dire, di narrativizzazione storica: malgrado l’innegabile prossimità fattuale, psicologica e sociale, la sua narrazione ufficiale è stata immediatamente proiettata in una dimensione di oggettività storica e fattuale.

Ricapitolando, mentre le celebrazioni durante la Festa Nazionale si rapportano all’evento storico rievocato nella modalità della designazione nominale, le commemorazioni dei recenti attentati di Parigi richiedono un processo narrativo di ricostruzione e reinterpretazione dell’evento. Nel primo caso la mitizzazione di un passato storico che diventa fondatore dell’identità nazionale, produce una definitiva cristallizzazione dell’interpretazione ufficiale senza che nessun altro processo politico e performativo debba intervenire per definirne la narrazione. In questo caso non esistono altre versioni che concorrono con quella ufficiale, l’avvenimento non è ricordato nei sui tratti emozionali ma per il suo carattere prettamente monumentale, la rievocazione dell’avvenimento non minaccia il senso di appartenenza e la performance rituale che ne scaturisce avrà una funzione puramente estetico-celebrativa; in ultimo, i valori dell’identità collettiva che legittimano lo stato di potere non dovranno essere ricostruiti ma solo riconosciuti e ribaditi.

Invece, nel secondo caso la storicizzazione della recente tragedia dimostra la necessità di costruire un’interpretazione narrativa, operata in seno alla performance commemorativa, che faccia leva sulla compartecipazione al dolore e sul ricordo del lutto collettivo. Come abbiamo visto, tale performance narrativa ha una funzione politica ben precisa ma latente: rinsaldare i valori condivisi che sostengono il senso d’identità collettiva in cui si devono riconoscere i membri della Nazione. Non a caso, al dolore della perdita di propri concittadini, alla vicinanza con i familiari delle vittime, all’identificazione psicologica con coloro che più direttamente sono stati coinvolti nella tragedia subendo le conseguenze fisiche e psicologiche di un vero e proprio massacro, si è accompagnato un sentimento di rabbia nei confronti degli attentatori per aver messo in discussione proprio quei principi fondamentali all’origine del concetto di Nazione[3].

L’’evento commemorato è rappresentato in modo tale da rinsaldare il giudizio positivo sul proprio sé condiviso. In quanto atto celebrativo, non esiste una commemorazione in onore degli sconfitti così come non può esistere una commemorazione che celebri le imprese, seppur tecnicamente complicate, dei carnefici: solo la commemorazione di vittime o i vincitori è resa possibile e pensabile. Ciò significa che uno stesso avvenimento può cambiare di segno secondo il ruolo assunto in quell’occasione dal gruppo di appartenenza.  È proprio in questo che consiste il valore politico dell’avvenimento rappresentato. La performance commemorativa assume una valenza politica, permettendo di costruire e di affermare un’immagine moralmente apprezzabile del gruppo e riconfermando così lo stato di potere che l’ha definita. L’obiettivo politico rimosso dal rituale è di evitare che delle versioni alternative dell’evento possano aprire uno spiraglio a uno spirito potenzialmente contestatore o in contrasto con lo status quo.

In questo caso si è trattato di soffocare sul nascere qualsiasi presa di coscienza e razionalizzazione rispetto alle problematicità e contraddizioni insite nella società francese. Gli attentatori sono stati subito catalogati secondo i tratti di origine, provenienza e appartenenza religiosa, rimuovendo quegli attributi di cittadinanza e appartenenza sociale che potessero rivelare i loro rapporti di filiazione nazionale nei confronti della Francia. Inoltre il terrorismo, definito islamico e spogliato della sua valenza politica, è servito e serve tuttora a ripudiare una mostruosità assegnata all’altro e a designare un male che si pensa provenire da un ordine esterno percepito come alieno. Non a caso, l’islamofobia è occorsa fin da subito a definire una linea di demarcazione netta tra identità nazionale (laica, razionale, civile) e alterità religiosa (fondamentalista, irrazionale, incivile), al fine di deresponsabilizzare la Nazione e ri-legittimare la sua autorità morale rispetto alla tragedia.

Appare ormai chiaro che le pratiche memoriali rappresentino un terreno di analisi privilegiato per esaminare la natura performativa dell’identità collettiva. Al massimo grado di performatività identitaria troviamo le cerimonie di commemorazione; le spettacolari celebrazioni militari durante la Festa Nazionale, invece, si collocano all’ultimo livello di quella scala ideale delle pratiche memoriali rispetto alla costruzione dell’identità collettiva. La costruzione di una narrazione storica dell’evento occorre nel primo caso, laddove nel secondo si assiste piuttosto alla mitizzazione di un evento remoto percepito come fondatore. La commemorazione chiama quindi in causa il potere politico che definisce l’ordine morale su cui fondare l’identità collettiva.

Note.

[1] Richard Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002, p. 102.

[2] Ibidem.

[3] Non a caso la prima risposta all’attacco terroristico contro la sede di Charlie Hebdo era stata la grande marcia dell’11 gennaio 2015 in favore della libertà di stampa e di espressione, salutata con rispetto da cittadini e autorità politiche di tutto il mondo, cui parteciparono più di un milione e mezzo di persone.

Bibliografia

  1. L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge USA, 1962.
  1. De Certeau (1987), Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

É. Durkheim, De la division du travail social, PUF, Paris, 1893.

  1. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969.
  1. Foucault, Histoire de la sexualité, vol.1 : La volonté de savoir, Gallimard, Paris, 1976.
  1. W. F. Hegel (1820), Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it, Laterza, Roma-Bari, 1979.
  1. Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002.

V.Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986.

 

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