Mark Manders, Dry Head on a Wooden Floor (dettaglio), 2015
Mark Manders, Dry Head on a Wooden Floor (dettaglio), 2015

Vorrei partire da un libro, anzi da un romanzo, nel senso più pieno che questa parola esprime: opera letteraria, racconto ma anche frammento narrativo che illumina una realtà sociale più ampia. Nel 2001, poco prima che il crollo delle Torri Gemelle cambiasse radicalmente gli orizzonti di pensiero, le interpretazioni della storia e i valori di un mondo sempre più americanizzato, esce negli Stati Uniti uno dei capolavori indiscussi della letteratura contemporanea, Le Correzioni di Jonathan Franzen.[1] Questo intervento, lungi dal proporre una recensione dell’opera letteraria, intende soffermarsi sui singoli personaggi descrivendoli come degli idealtipi storico-sociologici delle forme di desoggettivazione contemporanea.

Le correzioni è la storia della famiglia Lambert che ruota intorno alla demenza senile del dispotico pater. Si tratta di una tipica famiglia mononucleare nata nel solco dell’America anni Cinquanta, vissuta tra gli agi dell’alta borghesia e i più ferrei valori repubblicani. La madre, casalinga, è depositaria di un sentimentalismo domestico che finisce per permeare la vita dei figli obbligandoli a un’incessante finzione emotiva; a sua volta il padre, ingegnere ferroviario, è il responsabile del mantenimento materiale ed economico e, totalmente estraneo alla dimensione affettiva e relazionale, sceglie di prender parte come semplice comparsa, cinica e boriosa, alla messa in scena di questa patetica epopea familiare.

Enid e Alfred, entrambi avulsi dalla realtà esteriore e interiore del mondo che li circonda, designano due modalità opposte di un’equivalente alienazione, che nega conflitti ed angosce annientando ogni possibilità di riparazione. Lei, chiusa in un pietismo compulsivo e in un feticismo cerimoniale, erge il Natale a evento sacro atto a celebrare una finzione di pace domestica e di armonia familiare. Lui, inasprito da una vita votata alla carriera, disprezza ogni forma di sentimentalismo e non mostra affetto né il benché minimo apprezzamento per i propri cari. La demenza lo coglie senza quasi che se ne accorga, come atto finale e diretta conseguenza del suo cinico e consueto isolamento. E così non fa altro che passare le sue giornate sprofondando in poltrona, di fronte all’odio malcelato della moglie e chiuso nella prigione di un eterno presente di demenza, quasi a voler sfruttare beffardamente la situazione per tenere in scacco l’intera famiglia.

Franzen colloca l’origine della famiglia in un famigerato paesino del Midwest, St Jude, nome di fantasia che incrementa il valore rappresentativo del racconto. Qui l’autore affronta la questione, tipicamente postmoderna, della precarizzazione delle esistenze individuali in seguito alla crisi dei criteri di definizione delle soggettività del passato. Siamo alle prese con personaggi letterari che agiscono sullo sfondo di un orizzonte condiviso. Il mondo dei Lambert diventa uno scenario narrativo, nato dall’unione tra fiction e realtà, entro cui i personaggi si muovono come figure astratte di una configurazione formale. La storia dei Lambert diventa così la storia di ogni comune esistenza che si sviluppi in quelle particolari circostanze, in quei luoghi e tempi solo genericamente delineati e privati dei riferimenti concreti che ne avrebbero limitato l’effetto di esemplarità. Dal punto di vista stilistico, tale espediente congela i personaggi in un determinismo storico-biografico che pesa sulle loro teste come un macigno, minando ogni istanza d’individuazione soggettiva.

Mark Manders, Unfired Clay Torso, 2014-2015
Mark Manders, Unfired Clay Torso, 2014-2015

Ogni capitolo è dedicato a un solo personaggio, di cui vengono delineati i tratti biografici salienti all’incrocio con le vite degli altri protagonisti della storia. Questa cesura strutturale serve a definire i personaggi come sistemi chiusi e tra loro incomunicabili. Il romanzo si apre con la storia di Cheap, un accademico grossolanamente foucaultiano, un nichilista patinato, scanzonato e fuorilegge, un edonista maniacale che celebra la morte del soggetto come Nietzsche aveva sancito la morte di Dio. Figura d’eccellenza del libertinismo intellettuale, Cheap viene radiato dalla professione universitaria per aver allacciato una relazione compromettente con una studentessa. Si trasferisce a Vilnius, terra promessa del vizio e della speculazione finanziaria, dove sopravvive da dandy rivoluzionario e stravagante, prima di tornare a St Jude a passare il Natale per l’ultima e definitiva riunione familiare. Ma nonostante questa sua ribellione scanzonata e imperitura, in aperto contrasto con il rigido bigottismo della sua famiglia, Cheap esercita su tutti un fascino magnetico e irresistibile. Nessuno sembra resistergli, nemmeno il padre che, nel delirio della demenza senile, non fa che pronunciare il suo nome come un mantra e, insieme, come condanna oracolare.

Persino Gary, che pur vive in eterna rivalità con il fratello minore, non riesce a emanciparsi dal confronto con Cheap. Figlio maggiore, il più rispettabile e devoto, ha seguito le orme del padre e obbedito alle norme della madre, diventando così un uomo d’affari di successo, un marito e un padre irreprensibile ma eternamente insoddisfatto, vincolato ad una vita infelice e assillato da un senso del dovere ch’egli somatizza in una depressione cronica e priva di scampo. È la sorella Denise a intercedere nella relazione tra i fratelli. Perfetta eroina contemporanea dell’autoaffermazione e della conquista del sé, persegue i propri valori individuali al di là degli schemi di classe e delle imposizioni sociali. Infatti, dopo una breve parentesi erotica con un collega attempato e disgustoso, lascia il posto d’impiegata nell’azienda del padre e diventa una cuoca professionista di grande fama. È in uno dei ristoranti di lusso in cui lavora che incontrerà la coppia di coniugi con ciascuno dei quali intratterrà due relazioni adulterine. Grazie alla sua imperterrita e instancabile ricerca di se stessa, Denise ci svela il carattere convenzionale delle definizioni di classe che presiedono ai destini e ai desideri professionali, ma anche il determinismo implicito che solitamente condiziona le preferenze sessuali e le relazioni affettive.

La storia dei Lambert narra il passaggio irrisolto da quelle forme di soggettivazione, che ancora risultano fondate sui valori piccolo borghesi trasmessi dalla famiglia tradizionale, ai nuovi modelli d’individuazione del soggetto, che fanno leva sulle istanze di libertà e autoaffermazione promosse dal clima culturale emergente. Di entrambi questi modelli, tuttavia, si svela il carattere illusorio e ancora una volta prescrittivo. Gli standard di felicità fissati in passato sembrano ormai talmente idealistici da essere irraggiungibili, generando sofferenza, insoddisfazione e senso di inadeguatezza. In questa impasse si trova Gary, che non riesce a trovare un equilibrio tra ciò che vuole per se stesso e ciò che ha imparato a considerare il meglio per lui. Ma è Enid a incarnare e difendere questo modello ormai anacronistico e stantio, diventando una specie di antieroe in cui il lettore contemporaneo non riesce a riconoscersi almeno fintanto che, giunto alle ultime righe dell’ultima pagina, la donna, senza sentire il peso degli anni ma anzi liberata dal fardello del marito, dichiara finalmente di voler cambiare. Non sapremo mai dove questa volontà di cambiamento la porterà, né cosa Enid voglia davvero diventare. E tuttavia basta quel solo flebile anelito verso il futuro a farcela apparire sotto una luce diversa, una luce che finalmente apre le porte, per così dire, allo spirito postmoderno.

All’opposto, Cheap e Denise, rappresentano le figure narrative esemplari dell’attuale precarizzazione delle esistenze, incarnando a pieno titolo il ruolo di pionieri della cultura postmoderna. Denise sembra non curarsi della brillante carriera che le propone il padre per poi scegliere autonomamente una professione meno prestigiosa che la porterà invece a sperimentare la fama e il successo. Se perde tutto non è per un’insoddisfazione lavorativa ma perché si rivela incapace di frenare le ingerenze della sfera privata e sentimentale in quella pubblica e professionale. Quanto a Cheap, egli rifiuta del tutto di piegarsi alle norme della società fino a spingersi oltre i limiti della legalità e finendo nel giro della criminalità, dello sfruttamento della prostituzione, della droga e della speculazione finanziaria di livello internazionale. Entrambi i fratelli, che maturano un sodalizio elettivo del tutto particolare, non si riconoscono nei valori che avevano scandito la loro infanzia e che avevano soffocato le rispettive spinte vitali. Convinti sostenitori di un’etica centrata sull’autodeterminazione soggettiva e ostili all’addomesticamento operato dalla società, sperimentano diversi ruoli e identità, resistendo all’eterodefinizione normativa dei soggetti, imposta dalla società e dai valori del passato.

Le correzioni è un romanzo liminale, un libro cerniera che raccoglie gli esiti del postmodernismo anni Novanta per aprire a una postmodernità successiva e ulteriore. Un libro che prende atto della crisi del modello capitalista, fondato sulla produzione industriale e sul nesso ideologico tra attività professionale, classe sociale e pratiche di consumo. E’ un libro che fa i conti con la morte di un mito, quello dell’antropocentrismo individualistico, che l’epoca delle lotte per i diritti civili e politici degli anni Settanta aveva abbracciato come possibile via d’accesso alla liberalizzazione dell’individuo e che la self-made-man economy degli anni Ottanta aveva invece declinato in chiave neoliberista, stabilendo la falsa credenza di una connessione reale tra consumismo e libera scelta.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Decolonizzazione, si consolida il modello economico neoliberista, rivisitato in chiave neocapitalista di segno marcatamente statunitense. Almeno in quello che viene chiamato il Primo Mondo, ridotto a blocco unico che ancora oggi abbiamo tendenza a identificare con l’Occidente, si diffonde una cultura di riferimento omogenea che, grazie alla democratizzazione del potere di acquisto e alla speculare limitazione di quello politico e civile, sembra far prevalere le istanze individuali su quelle politiche e sociali nell’ambito delle priorità che definiscono il senso dell’esistenza. Da questo momento la contemporaneità si caratterizza per una chiara e netta tendenza all’individualizzazione, che s’impone al mondo come modello culturale dominante durante l’epoca della Guerra Fredda e, soprattutto, in seguito al crollo del muro di Berlino e al fallimento del programma socialista sovietico. Ma erano stati gli anni Ottanta ad aver definitivamente imposto l’ideologia individualista, incarnata in figure quali lo yuppie newyorkese o il self-made man di Manhattan, che trovano nei valori del profitto, della carriera e della moda come massificazione del gusto, gli ingredienti indispensabili del consenso e del prestigio sociale, raggiunto attraverso l’illusione di un’autoaffermazione creativa e idiosincratica. In altre parole, già a partire dagli anni Ottanta assistiamo al trionfo del neocapitalismo culturale che esalta quei processi di soggettivazione basati sui miti del successo, dell’efficacia produttiva e della concorrenza interpersonale come unica via per l’autorealizzazione.

Tuttavia, come diceva Dumont riprendendo Tocqueville,[2] l’individualismo non è l’ideologia che difende il potere dell’individuo, ma un’istituzione fondata sull’illusione che l’individuo abbia potere. E infatti, già a partire dagli anni Novanta, i nodi dell’inganno neoliberista cominciano a venire al pettine. Gli anni Novanta, pur sposando il modello culturale precedente e continuando a esaltare l’individualismo, pongono le basi della sua irrimediabile ridefinizione, aprendo le porte alle incertezze del postmodernismo. E’ proprio negli anni Novanta, infatti, che comincia a imporsi il processo di precarizzazione dell’esistenza in aperta antitesi con il mito della sua incondizionata autonomia e autodeterminazione. I valori del neoliberismo vengono intaccati dalla nuova configurazione sociale in cui il soggetto si dissolve proprio mentre tenta di affermarsi. Si tratta di una configurazione socioeconomica in cui gli attori interagiscono in una rete d’interconnessioni sempre più diffusa e complessa in cui le poste in gioco cominciano a sfuggire al sapere/potere del singolo, impegnato a vivere in un contesto di relazioni quotidiane circoscritto.[3]

Di fronte a questi nuovi orizzonti non solo vengono demistificati i principi di autodeterminazione individuale e libertà incondizionata, ma ad essere intaccati sono gli stessi criteri di definizione del soggetto: l’ideale del il self-made man comincia a sgretolarsi di fronte alle sfide poste da un sistema economico e sociale sempre più complesso, in cui la distribuzione delle risorse economiche e politiche non si gioca più sul piano delle scelte più o meno egualitarie di ogni singolo stato, ma deriva dalla gestione dei rapporti di potere da parte di organismi istituzionali sempre più delocalizzati.[4] Una politica che non esercita più alcun controllo sull’economia, a sua volta sempre più volatile e immateriale,[5] è alla base della profonda spirale di precarizzazione dei contratti e di deprivazione dei diritti sul lavoro a cui assistiamo dall’inizio degli anni Duemila. Ciò rende del tutto velleitari gli sforzi di ottenere successo in ambito lavorativo, in una società che assegna ancora il valore dell’individuo in base al grado di riuscita professionale.

Note

[1] FRANZEN, Jonathan, Le correzioni, Einaudi, Torino, 2005 (ed. originale: The Corrections, FSG, New York, 2001).

[2] DUMONT, Louis, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Adelphi, Milano, 1993 ( ed. originale: Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne, Seuil, Paris, 1991).

[3] La relazione tra sapere e potere è ben nota ai lettori di Foucault ma qui si suggerisce di pensare piuttosto alla dicotomia tra tattica e strategia in De Certeau che del resto, proprio a questo proposito, riprende il concetto benthamiano-foucaultiano del panopticon. Per un approfondimento del tema si veda: DE CERTEAU, Michel, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001( ed. originale: L’invention du quotidien, UGE, Paris, 1980).

[4] Come afferma Bauman, l’internazionalizzazione dell’economia industriale e finanziaria ha prodotto la denazionalizzazione del potere politico su scala mondiale: oggi la vera partita del potere si gioca sul terreno dell’economia che tuttavia, essendo sempre più globale, risulta totalmente scollata dal tessuto socioeconomico e relazionale relativo a ogni specifico contesto locale. In questo modo gli organismi internazionali e le imprese multinazionali che hanno libertà di movimento e capacità di manovra globali diventano i principali attori della vita politica mondiale, influenzando anche il contesto locale senza tuttavia rimanerne implicati. Si delinea per questi soggetti di potere un’autonomia e un’autorità che Bauman definisce glocale. D’ altra parte, l’ingerenza della dimensione globale nella vita delle persone che si muovono nel solo contesto locale delle loro relazioni quotidiane, finisce per modificare gli assetti politici dei singoli Stati. Assistiamo cioè a una crisi interna al modello democratico e in particolare al principio per cui il potere dello Stato, attraverso il dispositivo elettorale, resta sottoposto a un meccanismo di controllo fondato sulla richiesta di consenso da parte dei cittadini, piuttosto passivo ma pur sempre passibile di essere revocato. Si veda in proposito: BAUMAN, Zygmunt, Dentro la globalizzazione, le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma – Bari, 1999 (ed. originale: Globalisation: The Human Consequences, Columbia University Press, New York, 1998). Per quanto concerne invece l’impatto dei “flussi culturali globali” tipici di una società di massa sempre più mediatizzata e deteritorializzata sulle realtà locali ed indigene, si veda: APPADURAI, Arjun, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001 (ed. originale: Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996).

[5] APPADURAI, Arjun, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001, p. 68

 

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