(seconda parte)

 

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III. Oltre al tema scoperto del nuovo equilibrio ambientale tra viventi umani ed artefatti tecnologici, Paprika imbastisce una complessa riflessione sulla labilità dei confini fra sogno, sognatore e sognato, strettamente interrelata sia con i citati temi della biotecnosfera, sia con la disponibilità di un immaginario traboccante di storie, immagini dipinte, fotografate, cinematiche, sculture, pupazzi, toys – e pertanto immerso nelle maglie della cross-medialità matura, a cavallo tra old media, arti tradizionali e media digitali. Con tutta evidenza Paprika affronta i temi centrali della relazione tra memoria e oblio, indagati da Viktor Mayer-Schönberger in Delete[1]. Lo studioso austriaco avanza l’ipotesi che nelle società contemporanee i media digitali hanno reso problematica la relazione tra memoria e oblio, rendendo sempre più difficile la cancellazione delle tracce del nostro passaggio online e, soprattutto, invadendo le nostre menti di una enorme quantità di flussi informativi, ai quali non riusciamo in alcun modo a mettere un freno. Questi temi sono sublimati in Paprika attraverso un’acuta riflessione tra le sostanze dell’immaginario ipertrofico globale e le ridotte capacità di difesa dei protagonisti del film, la cui lotta è in qualche modo associabile al disperato tentativo dello spettatore postcinematografico di gestire la propria esperienza archiviale. La tessitura audiovisiva di Paprika apre il varco ad alcune suggestioni, a nostro parere centrali per il dibattito sui processi culturali associati alle audience dei media pervasivi della modernità. Le domande centrali da cui parte il regista di Perfect Blue paiono essenziali: dove finisce il confine tra immagine sognata e immagine filmica/audiovisiva in movimento? Come e in che modo la nostra attività onirica è strutturata secondo le convenzioni, gli stilemi e i topoi dello sterminato archivio filmico? Esemplare è la parabola del detective Konichawa che detesta la Settima Arte, ma è sognatore di immagini organizzate secondo precisi riferimenti ai generi dell’avventuroso, del thrilling e del drama. Se l’attività onirica umana appare consistentemente stimolata dall’impero delle immagini in movimento (filmiche e cinematiche), pare suggerire Paprika, un primo pericolo scaturisce dall’eventuale intrusione nel sistema sognante di un regista occulto che, nel disporre a piacimento dei depositi di immagini del nostro cervello, può “sceneggiarle” secondo un copione di cui solo lui detiene le chiavi. Ma la violazione dell’inconscio individuale è solo uno dei rischi connessi alle mutazioni della biotecnosfera, intendendo con questo termine il complesso ecosistema delle megalopoli contemporanee in cui le tecnologie ad alta innovazione hanno coinvolto, in un’evoluzione dalle sorti ancora incerte, i viventi umani, le specie animali e vegetali, i paesaggi, le montagne, le colline e i mari. Possiamo parlare di una nuova era geologica, l’Antropocene (concetto proposto dal Nobel per la Chimica Paul Crutzen), in cui “in cui l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita, è fortemente condizionato a scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana”[2]. Vivere nell’Antropocene, come ha scritto Richard Grusin[3], “significa vivere con la sensazione, più o meno costante, di una catastrofe imminente”, la cui natura globale e interconnessa è “inseparabile dalla nostra esperienza della realtà della mediazione nelle relazioni umane e non umane che determinano la nostra vita nell’Antropocene”. In questa prospettiva, il mediologo statunitense elabora la nozione di “mediazione radicale”, tanto utile a comprendere il senso dell’ineluttabile tragedia culturale di Paprika: “Nella mediazione radicale tutte le connessioni implicano modulazione, traduzione o trasformazione, non solo collegamento. Poiché la mediazione non è separata da altre relazioni esperite, essa non si colloca tra un soggetto e un oggetto pre-esistenti, né impedisce esperienze o relazioni immediate, piuttosto trasduce o genera esperienze immediate e relazioni che non preesistono alla loro mediazione […] Ciò che fa del cambiamento climatico antropogenico stesso un’istanza della mediazione radicale è il fatto che non può essere compreso se separato dalla rimediazione dell’esperienza di catastrofe imminente che coinvolge allo stesso modo gli umani e i non umani”[4]. La catastrofe incombente, rappresentata nel cartoon di Satoshi Kon, è allora sintomo di una mutazione antropologica radicale, dettata da uno sviluppo tecnologico così invadente da distruggere ogni precedente equilibrio ecosistemico tra biologia, cultura e tecnica.

Un secondo rischio, che lo sguardo pessimista di Kon stempera solo nel finale, coinvolge non l’inconscio individuale, smarrito e indifeso dalle violazioni della propria intimità, ma lo stesso inconscio collettivo. Nella parata che più volte, via via più minacciosa e sinistra, ritorna nel film – in ossequio alla credenze animiste, molto radicate nel Sol Levante, in base alle quali ogni cosa possiede un’anima in grado di instillare il movimento e la vita – ballano disegni animati di frigoriferi, telefonini, teste/televisori, forni a microonde, la Vergina Maria, il Buddha, rane che suonano la tromba, pupazzi di varie fogge e dimensioni, una Statua della Libertà, effigi di samurai e tantissime altre icone delle civiltà occidentale e orientale. Una convincente interpretazione del fatto che, a un certo punto, questa mole impressionante di icone (dei media, della religione e dell’architettura e di tanti altri domini conoscitivi) diventi ingestibile ha a che vedere con il crescente desiderio di tecno-oblio: in termini sintetici, la degenerazione dei giacimenti immaginari della società globalizzata è una precisa metafora dell’impossibilità del singolo spettatore mediale di far fronte ad una sovrabbondante stimolazione sensoriale, proveniente da più circuiti, canali, dispositivi e media. L’unico modo di sottrarsi a un tale bombardamento di immagini, testi, suoni, è congegnare strategie per il tecno-oblio: è questa una delle possibili chiavi di lettura di Paprika ed è anche la chiave di lettura più credibile del citato lavoro di Mayer-Schönberger.

immagine2IV. Oltre a rappresentare territori interessanti per la sociologia delle culture, Kon con quest’opera – l’ultima prima che un cancro al pancreas se lo portasse via a soli 46 anni, nel pieno della maturità artistica – sfida anche alcuni limiti della speculazione filosofica sulle immagini. Il grande viaggio compiuto dagli scienziati nel cartoon ha come presupposto che con i nostri occhi percepiamo (almeno) tre statuti differenti di immagini, che differiscono eticamente ed esteticamente: la realtà quotidiana che ci circonda; le immagini sfumate del sogno e della fantasia; le immagini organizzate da un medium (tradizionale o digitale). Sebbene la mente sia in grado di discernere tali statuti, è pacifico che questi tre ambiti esperienziali e cognitivi si nutrano a vicenda[5] e, in alcuni casi, producano sconfinamenti, dando luogo ad agglomerati o configurazioni di senso, mutevoli, sfuggenti e spesso ammirabili solo da un occhio esperto[6]. Si tratta di un nodo – quello dell’osmosi tra realtà, media e sogno – che i più lungimiranti tra gli autori di cinema hanno da sempre saputo cogliere e problematizzare, ma che Kon in Paprika rilancia nella sua piena dimensione co-evolutiva con un certo stadio di affermazione onnipresente del digitale e delle sue tecniche. Kon ha la piena consapevolezza del rischio che l’umanità sta correndo e di come questa trappola della totale virtualizzazione dell’esperienza sociale sia funzionale alle mire di un certo tecno-capitalismo: ne è un esempio una sequenza in particolare. “Quando Konichawa (…) sembra sorpreso di scorgere Paprika nel sito radioclub.jp, Paprika gli chiede: ‘Non pensi che Internet e i sogni siano molto simili?’ Il suo ragionamento suona vero. Su Internet, come nei sogni esperiamo l’anonimato e abbiamo un’opportunità di creare la nostra stessa realtà. Come nei sogni siamo liberi dai vincoli di tempo, spazio, e dei nostri corpi fisici. Per metterla giù come fa Paprika, ‘Internet e i sogni sono i mezzi di espressione delle inibizione della specie umana’” (tr. nostra)[7]. Per Kon, l’esistenza di Internet come una disponibilità di mondi alternativi in cui accumulare esperienza risponde alle esigenze del tecno-capitalismo, in quanto tende a organizzare in forme strettamente private processi socio-culturali la cui strutturazione spazio-temporale era anteriormente deputata ad altre agenzie sociali e a luoghi fisici di intrattenimento, educazione, istruzione, elaborazione memoriale, autoformazione individuale e collettiva. Naturalmente, data la natura estremamente flessibile del mezzo, il Web si presta anche facilmente ad ospitare forze antagoniste o comunità utopiche e libertarie. Tornando al nostro discorso, è chiaro che, anche sotto il profilo identitario, il regista nipponico formuli in termini piuttosto allarmanti la questione della perdita di controllo sui propri sé immaginari, tanto più quando questi sono gettati nelle reti globali, nelle quali i processi di costruzione identitaria e di realizzazione del sé potrebbero passare sotto il giogo di simulazioni così attraenti da causare una perdita di contatto con quanto si trova fuori dal Web. Dunque, ancora, Kon ragiona narrativamente su questioni cruciali per un’analisi della spettatorialità postcinematografica: la relazione tra l’uomo e i mezzi per veicolare immagini, la strutturazione del Web sociale come luccicante playground identitario[8], la capacità del filmico di distribuirsi nel dominio del mediale in forme fantasmatiche ed inquietanti e, ancora, l’elaborazione culturale degli shock mediali a livello sia di singoli (l’overload che schiaccia i nostri sensi imperfetti), sia sociale (come selezionare i contenuti socialmente condivisibili e fondanti?), sia di forma culturale cinematografica (che peso avranno le immagini filmiche in un mondo di immagini e icone fluttuanti?).

V. Il messaggio finale lasciato dal fraterno amico di Konachawa, filmmaker morto in gioventù, è invece intriso di una sensibilità necessaria, etica, profonda rispetto al rapporto tra immagini e reale: “Hai soltanto vissuto il nostro film nella realtà, ecco perché sei diventato un poliziotto: è una verità nata dalla tua fantasia, non dimenticarlo mai”. Le nostre fantasie, le nostre creazioni immaginifiche, insomma, possono incidere sulle nostre vite e ne sono il nutrimento (non a caso Konachawa si riconcilia con il cinema e il film finisce con il detective che acquista un biglietto per una proiezione in sala), e tuttavia bisogna sempre aver il controllo sulle nostre produzioni di artefatti e dimensioni alternative: “In Giappone non solo i bambini ma anche i ventenni e i trentenni sceglieranno in anime e manga significati per fuggire dalle loro vite reali (…) Ma penso ci sia anche un pericolo. Se tu accedi a quel mondo, esso appare vivido, colorato e seducente, ma dentro ci sono anche enormi trappole, in particolare se, come risultato, lasci deteriorare il tuo mondo reale” (Satoshi Kon nell’intervista a David Denby, trad. nostra)[9]. Il portato sociologico e filosofico del film di Kon si può agevolmente ricollegare alle ricerche di Marc Augé che, nel suo La guerra dei sogni[10], riflette sulle potenzialità delle immagini di plasmare l’inconscio collettivo. L’antropologo francese osserva i vasti processi di finzionalizzazione associati alla “surmodernità” e al tardocapitalismo; per Augé, la finzione si adatta molto bene alla tecnologia e questo connubio crea un ambiente neutro, dove ogni opzione ideologica è possibile: “L’io finzionale, colmo di una fascinazione che spunta in ogni relazione esclusiva con l’immagine, è un io senza relazioni e allo stesso tempo senza supporto identitario, suscettibile di assorbimento da parte del mondo delle immagini in cui crede di potersi ritrovare e riconoscere”[11]. In queste parole riecheggia il monito di Kon sulla degenerazione della capacità di controllo dei flussi mediali, che implica il rischio concreto di una concomitante incompetenza a distinguere tra diversi statuti e dimensioni dell’esperienza (reale vs. mediata) e una potenziale deriva identitaria.

[*]  I due autori hanno discusso e concepito insieme l’intero saggio, che è stato suddiviso in due parti: i par. I e II, già pubblicati, sono stati scritti da Marco Teti, i paragrafi III, IV e V, sono stati redatti da Mario Tirino.

[1] Viktor Mayer-Schönberger, Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age, Princeton, Princeton University Press, 2009.

[2] Definizione attinta dal “Lessico del XXI secolo”.

[3] Richard Grusin, “Vivere nell’Antropocene”, Il lavoro culturale, 03/06/2016.

[4] Ibidem.

[5] Sul tema si rinvia, tra i tanti contributi, a Robert Pepperell e ‎Michael Punt (eds.), Screen Consciousness. Cinema, Mind and World, Amsterdam and New York, Rodopi, 2006 e Mary A. Peterson, Barbara Gillam  e H. A. Sedgwick (eds.), In the Mind’s Eye: Julian Hochberg on the Perception of  Pictures, Films, and the World, New York, Oxford University Press, 2007.

[6] Per un’analisi a-sistematica della permanenza e della sparizione di forme d’immagine nella cultura occidentale un’illuminante lettura è George Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.

[7] Reginald Pierce, “Dreams and Reality in Paprika”, FA: Visual Arts: Anime,  Nov. 7th, 2010.

[8] Sul tema si rinvia a Antonella Napoli, Generazioni online. Processi di ri-mediazione identitaria e relazionale nelle pratiche comunicative web-based, Milano, Franco Angeli, 2015 e a Paolo Sordi, I Am: Remix Your Web Identity, Newcastle, Cambridge Scholars, 2015.

[9] David Denby, “Not Kids’ Stuff”, The New Yorker, May 28th, 2007.

[10] Marc Augé, La guerra dei sogni: esercizi di etno-fiction, Milano, Eleuthèra, 1998.

[11] Ivi, p. 120.

 

Marco Teti è dottore di ricerca in Cinema. Insegna presso l’Università di Ferrara e presso l’Università degli Studi e-Campus. Ha pubblicato le monografie Lo specchio dell’anime. L’animazione giapponese di serie e il suo spettatore (Bologna, Clueb, 2009), Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta (Milano-Udine, Mimesis, 2011) e curato il volume Alchimie digitali. Linguaggi, estetiche e pratiche video-artistiche al tempo dell’immagine numerica (Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2012). Suoi articoli e saggi sono apparsi in volumi collettanei e in riviste tra le quali “Cinergie – Il cinema e le altre arti”, “G|A|M|E – The Italian Journal of Game Studies”, “Imago – Studi di cinema e media”, “Ocula - Occhio semiotico sui media” e “Segnocinema”. Mario Tirino è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione all‘Università di Salerno e docente a contratto di Linguaggi dei Media presso la Scuola di Giornalismo dell’Ateneo salernitano e di Storia dell‘Illustrazione e della Pubblicità presso l’Accademia della Moda di Napoli. I suoi campi di ricerca riguardano la sociologia del cinema, dei media digitali e delle culture popolari e la mediologia della letteratura e del fumetto. Tra le sue ultime pubblicazioni, la curatela, con Alfonso Amendola, del volume "Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva" (ombrecorte, 2016).

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