(Traduzione italiana di Maria Pina Fersini)

È PERICOLOSO SPORGERSI sull’interno, specialmente quando quest’interno è in procinto di germinare, quando è sufficiente avvicinarsi alla corteccia di un albero o al manto di aghi di pino che tappezza il bosco per vedere che gli insetti, le crisalidi e i corpi in decomposizione non cessano di generare una seconda vita. «A sud della frontiera canadese e ad ovest del confine dello Stato di Washington», come annota nel suo registratore il tenente dell’FBI, Dale Cooper, per l’invisibile Diane, il profumo degli abeti Douglas, il cielo coperto di febbraio e il vapore con cui il boschetto di Twin Peaks respira e protegge i gufi e le donnole, si aprono come un intermondo in cui lo spazio interiore minaccia, ad ogni istante, di traboccare in uno esteriore tranquillo e sereno.

Se l’inizio di Blue Velvet (Velluto blu, 1986), con l’orecchio tagliato e abbandonato nell’erba al lavoro dei coleotteri, mostra il dispositivo più comune nell’arte plastica di David Lynch, il quale  consiste nell’approssimarsi al dettaglio che tradisce l’apparente placidità, la discordanza tra il piano generale ed il frammento, con Twin Peaks lo spettatore è chiamato ad abitare la geografia quotidiana della mancata corrispondenza tra l’ordine di ciò che è lontano e il caos turbolento di ciò che è vicino. Attraverso la distanza delle cime innevate e la vicinanza oscena dell’occhio di Laura Palmer, che inonda lo schermo nella ripresa domestica di un picnic con i suoi amici Donna e James, Lynch redige un trattato sull’emozione che costituisce il seme di buona parte della finzione televisiva contemporanea.

L’uso di colpi di scena, piste false e non sequiturs, l’uso narrativo della musica e le canzoni, la costruzione allusiva del male, i personaggi allegorici, la creazione di un racconto che si svolge in due dimensioni parallele grazie alla coesistenza della topografia della città ed il suo lato oscuro, e una concezione pittorica che in ogni capitolo prende come punto di partenza un concetto o tonalità emotiva — i doppi fondi e i cassetti segreti nel terzo episodio della prima stagione, la danza nel secondo episodio — sono alla base di meccanismi complessi, a suo tempo condivisi con la serie Northern Exposure   (Un medico in Alaska, 1990-1995, 6 stagioni), e successivamente ereditati da diverse serie, come per esempio The Sopranos (I Soprano, 1999-2007, 6 stagioni) Mad Men (2007-2015, 7 stagioni), True Detective (2014 – in corso, 2 stagioni), The Wire (2002-2008, 5 stagioni), Lost (2004-2010, 6 stagioni), Fringe (2008-2013, 5 stagioni), o The Leftovers (The Leftovers – Svaniti nel nulla, 2014 – in corso, 2 stagioni)

Il grande motore mitopoetico della serie, la colpa senza motivo, che si infiltra nei gesti e nei desideri di ciascuno dei personaggi, soprattutto nella prima stagione, sostiene un tessuto che si intreccia intorno al volto livido di Laura Palmer. Il motivo centrale dell’intera opera di Lynch, il cadavere della donna, muove anche il racconto di Twin Peaks, scritto assieme a Mark Frost. A forma di discesa circolare, l’attraversamento dall’altra parte di Cooper, il suo viaggio nell’aldilà, non solo lo rivela come un autentico Guardiano della Soglia, la creatura della mitologia aborigena menzionata nell’undicesimo episodio della seconda stagione, ma anche come colui che si appodera dell’emozione dello spettatore per identificare la propria condizione con quella di un essere sospeso sul fragile tessuto che separa Questo Mondo dall’Altro, un’enclave eterno circondato da tende e sipari  color cremisi dalle quali Laura Palmer chiude Twin Peaks avvertendo così gli spettatori: «Ci rivedremo tra venticinque anni».

IL LUOGO DELL’EMOZIONE

Nello stesso istante in cui Nadine, ossessionata con la ricerca di bastoni silenziosi per le sue tende, sbatte la porta in faccia al marito Ed, il proprietario del distributore di benzina, ed il giovane James prende congedo da lui e avvia il motore della sua moto, arriva a Twin Peaks l’agente Cooper, al ritmo dei beat di un brano di musica jazz. Protetto dalla sicurezza offerta dall’auto e dal controcampo  sempre differito di Diana, la destinataria di tutte le sue trovate, Cooper compare quando l’episodio pilota è già diventato un panopticon sulla trasmissione del pianto. Non appena il Dr. Hayward, padre di Donna, fa apparire il volto contuso di Laura dall’interno degli strati della crisalide di plastica che la avvolgono, Andy, l’aiutante dello sceriffo, inizia a piangere, contrito ed incapace di fotografare il cadavere.

Che l’emozione non faccia mai appello ad un io, bensì a un tu e che trasponga qualcosa nell’atto affermativo di lasciar apparire il dolore, di esporre la sua apparente impotenza, è il fondamento dell’esplorazione del dramma che intraprende Lynch. Come suggerisce la visione frontale del pianto dei genitori di Laura nell’istante in cui vengono a conoscenza della sua morte, sottolineata dal campo-controcampo che accompagna la loro conversazione telefonica troncata, forse nessun personaggio è riuscito a piangere inconsolabilmente di profilo nel corso della storia del melodramma e, ancor meno, nella soap-opera e telenovela, dove piangere è sempre porsi dinanzi allo spettatore, catturare il suo sguardo e il suo corpo, fare del gesto una parola tragica. Donna, James e persino Audrey mostrano il loro dolore in un’onda d’urto in cui la sequenza si rivela, nelle mani di Lynch, come uno scenario paragonabile a quello dei suoi dipinti neri, in cui la passione è capace di restituire ogni gesto alla condizione di una sofferenza originaria.

Singhiozzanti, contriti, sfigurati dagli umori del piagnucolio, gli abitanti di Twin Peaks appaiono, come i dipinti di una mostra di Francis Bacon, nella forma di volti impotenti che trasferiscono allo spettatore la possibilità di essere posseduto dall’emozione, il privilegio del dolore come condizione essenziale dell’umano. La parodia della soap-opera che Twin Peaks risolve nella serie Invitation to Love, che seguono molti dei personaggi, non ha altro proposito che quello di recludere nel territorio del grottesco l’identificazione tra passione e passività. In quanto affetta sempre l’essenza, l’esposizione della sofferenza e della sua duplice condizione di carenza — come privazione e come esperienza rivissuta di questa penuria — costituisce l’apertura più estrema dell’azione. Da Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella, 1977) sino a pezzi come l’inquietante videoclip Came Back Haunted (2013) ed il cortometraggio Lady Blue Shanghai (2011), l’opera di Lynch è una liberazione della dissociazione tra affetto e rappresentazione.

«Just you, and I, together, forever in love», cantano James, Madeleine, la cugina di Laura, e Donna, nel secondo capitolo della seconda stagione, in un montaggio di volti vicini la cui intensità affettiva si fa quasi insopportabile, al punto che Donna interrompe il crescendo. «Cosa succede, Donna?», si precipita James a consolarla. «Nulla», risponde lei, mentre lo bacia con ansia, in una manovra analoga a quella che, nel successivo capitolo settimo, si orchestra intorno all’attuazione di Julee Cruise nel Bang Bang bar cantando The World Spins. «Sta succedendo di nuovo», dice il gigante che era apparso a Cooper nella sua stanza nel capitolo iniziale della seconda stagione, mentre il tempo resta sospeso tra particelle di polvere, luce e musica, e Leland, posseduto da Killer Bob, uccide Madeleine.

«Love, don’t go away, come back this way, come back and stay forever and ever. Please stay», continua cantando Julee Cruise, dopo che Killer Bob ha ridotto Madeleine in una coreografia rallentata e abietta, con la bocca sanguinante e la pelle bruciata dalla luce delle lampade. È questo il momento in cui, al culmine dell’emozione dell’interpretazione, senza aver assistito all’omicidio, Donna, James e Bobby piangono inconsolabilmente, mentre il gesto sacerdotale di Cooper, guardando in alto, attesta la nuova perdita, il secondo omicidio di colei che era stata disegnata come avatar di Laura, come omaggio alla perdita di una perdita, la morte di Madeleine in Vertigo (Vertigine, 1958), di Hitchcock. La smanceria lacerata di Donna fa riferimento ad una impotenza totale in cui la doppia morte di Laura e Madeleine costituisce, anche, una lezione sulla sopravvivenza del desiderio e dell’amore, in se stessi indistruttibili e destinati a sopravvivere persino all’assenza del loro oggetto.

Come la musica, come il fuoco nel cinema di Lynch, l’evidenza fenomenologica dell’emozione, del pianto e del grido silenzioso è, nello stesso tempo, un’offerta e una rivolta obliqua contro le categorie, contro l’ordinamento della realtà mediante la ragione. Il reincontro con le potenze emotive del pianto, dello strazio e della violenza, è anche un reincontro con il figurativo, con la ricomposizione del viso, dopo che l’emozione lo ha sfigurato sulla soglia, sullo stimmung della sua angoscia . Se già nell’episodio pilota, una lampadina elettrica ronza e lampeggia sul cadavere di Laura Palmer nella camera mortuaria, la presenza dell’elettricità come parte di una poetica dell’emozione spostata verso lo spettatore accompagna Twin Peaks: i fulmini che congelano l’immagine prima della morte e assoluzione di Leland Palmer tra le braccia di Cooper nel nono episodio della seconda stagione o l’epilogo sono esempi di una logica che attraversa tutta l’opera di Lynch.

Nei battiti dell’elettricità si manifesta la volontà di Lynch di partecipare più ad una costruzione della messa in scena di pulsazioni di energia a sostegno dell’immagine, che ad una trama costruita secondo le catene causali del genere nero.

Come nell’opera di Philippe Grandrieux, i ritorni di Killer Bob a Twin Peaks e le apparizioni di Laura nella Sala Rossa gettano sullo spettatore un’ondata di violenza che comporta sempre l’apparizione di un’immagine. E se la vera minaccia, il vero orrore, non fosse l’oscurità e la scomparsa in quegli angoli bui che si estendono da Eraserhead a Inland Empire (2006), bensì l’apparizione  di un’immagine, il braccio di Bob che spunta attraverso la soglia nel mezzo del bosco nel capitolo finale? La luce artificiale sostenuta dalla corrente elettrica contiene, in tutto il lavoro di Lynch, il terrore stesso dell’esperienza di vedere, di che un’immagine si cristallizzi lì dove, forse, non c’è mai stato né dovette esserci nulla.

Le apparizioni del cow-boy in Mulholland Drive (2001), la esecuzione con sedia elettrica  di Fred Madison, suggerita dai piani finali mentre guida la sua auto in Lost Highway (Strade perdute, 1997) o l’ambizioso progetto Ronnie Rocket, sulla vita di un nano che funziona con corrente alternata durante gli anni cinquanta, sono esempi di un modo di dar corso figurato ad un’energia emozionale che, in ogni caso, trova la sua incarnazione principale nel fuoco. Il fuoco che divora le teste della prima opera di Lynch, l’installazione Six Men Getting Sick (1967), segna l’inizio di una scia incandescente che percorre tutta la sua opera: le scintille consumano l’Uomo del Pianeta alla fine di Eraserhead; il ripetuto inserimento di una candela in Blue Velvet si converte in un mare di fiamme quando Jeff e Dorothy fanno l’amore; la fuga di Sailor e Lula in Wild at Heart (Cuore selvaggio, 1990) avviene su una coltre di fuoco; in Lost Highway, i piani dettagliati della sigaretta di Fred che aprono la storia operano come preludio delle fiamme che devastano la casa dell’Uomo Misterioso.

Forse il fumo inquietante che sorge dal letto di Diane in Mulholland Drive, un’eco della serie fotografica Nudes and Smoke (1994), realizzata dall’artista, e la sigaretta che apre un buco nei vestiti di Laura Dern in Inland Empire (2006) sono una testimonianza ancora più potente dell’intimità  tra il fuoco e l’intrusione dell’Altro Lato. Come mostrano le formule della rappresentazione di Killer Bob, la Loggia Nera — Black Lodge — i messaggi di origine extraterrestre che riceve il Maggiore Briggs, o la galleria di personaggi mediatori che si estende da El Manco — che, come la domanda «Chi ha ucciso Laura Palmer?», è un omaggio alla serie televisiva The Fugitive (1963-1967, 4 stagioni) — sino a Windom Earle, di nulla ha più paura l’essere umano che di essere toccato dall’ignoto. “Fuoco, cammina con me”, lo slogan che attraversa la serie e sfocia nella forntana di fiamme che esce dalla testa di Earle nell’episodio finale è anche l’imperativo di un richiamo verso ciò che normalmente l’immagine bandisce, la sua traccia, il terrore di un’agitazione che costituisce la manifestazione prossima di qualcosa che è lontano, che si identifica con una sostanza vitale primordiale tanto quanto con la sua controparte, la morte.

 

Ivan Pintor Iranzo è dottore di ricerca in Comunicación Audiovisual e membro del gruppo di ricerca CINEMA presso l’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona. È docente di cinema, serialità televisiva e fumetto. Con i suoi scritti ha preso parte a più di quaranta volumi, tra cui Intervalo entre geografias e cinema (2015), Werner Herzog (2015), Mad Men (2015), Endo-Apocalisse. The Walking Dead, l’immaginario digitale, il postumano (2015), On the Edge of the Panel. Essays on Comics Criticism (2015) e La Strada di Fellini (2013). Ha organizzato conferenze per CaixaForum e congressi internazionali, come Mutaciones del gesto (2012, UPF). Ha diretto il documentario Harold Bloom, Reading the Labyrinth (2010) e sceneggiato il lungometraggio La substància (2016), diretto da Lluís Galter.

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