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Gloria Frisone

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Dopo la laurea in antropologia all‘Università di Siena, Gloria Frisone si trasferisce a Parigi per conseguire un master di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove tuttora svolge una tesi di dottorato sulle pratiche sociali della memoria e i processi di costruzione dell‘identità individuale e collettiva. Titolare di un corso introduttivo all’antropologia e alla sociologia all‘Università Paris 13, è infine consulente di antropologia medica all’hôpital Avicenne di Bobigny.

Nel ricordo del trauma collettivo: le cerimonie di commemorazione degli attentati di Parigi, tra etica memoriale e frontiere antropologiche/2

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al punto di vista dei soggetti implicati nella commemorazione, la violenza estrema è inserita nella categoria esplicativa dell’attentato terrorista di matrice islamica. Già all’indomani degli attentati di gennaio, l’opinione pubblica francese ed europea aveva adottato un’ermeneutica rigidamente manichea opponendo l’identità democratica, laica e liberale alla barbarie jihadista.[1] In questo modo, la prima cerimonia di commemorazione ha immediatamente inserito un elemento di discriminazione antropologica, ridefinendo il confine tra l’umanità delle vittime (e di coloro che ne onorano il ricordo) e la mostruosità dei carnefici.

Non a caso le prime due risposte politiche al dramma degli attentati sono state la chiusura delle frontiere – misura che indica esplicitamente la volontà di proteggersi da una potenziale minaccia che viene dall’esterno – e la “Déchéanche de la Nationalité”, che indica la possibilità di far decadere il diritto di cittadinanza ai binazionali, rei sospettati di terrorismo. Tali misure sembrano esplicitare il tentativo giuridicamente fondato di negare ogni possibile legame, diretto o indiretto, con gli attentatori. Del resto, come suggerisce lucidamente Étienne Balibar, alla rivendicazione delle libertà democratiche si associa una negazione del loro effettivo esercizio a tutti coloro che non possono godere del diritto di cittadinanza.[2] L’umanitarismo universale della retorica libertaria trova qui il suo scacco finale e la sua principale contraddizione interna: il principio di libertà è prerogativa dell’essere umano, ma al contempo l’umanità stessa viene a coincidere con il pieno conferimento del diritto di cittadinanza.

Ma se l’attentato del 7 gennaio ha messo in crisi le rivendicazioni libertarie che si condensano nell’ideale di democrazia e cittadinanza prodotto dalla società moderna, quello del 13 novembre ha sollevato dubbi ancor più radicali che hanno messo più direttamente in questione il concetto stesso di umanità. È dunque intorno a questo dramma che la discriminazione antropologica ha trovato la sua piena risoluzione. Ripensare a quell’evento, riviverlo nella forma della commemorazione, significa trovare una cornice di senso che funge da modello esplicativo per tutti gli attentati ad esso assimilabili. Nella commemorazione si tratta di creare un orizzonte di pensabilità entro cui collocare questi ed altri simili episodi, di ricondurre la violenza efferata in un ordine di comprensibilità, di rinnovare la fiducia verso un ideale di giustizia universale e, infine, di ribadire un verdetto positivo sulla propria identità collettiva.

Per questo termini come “terrorismo islamico” o “islamismo radicale” servono a soddisfare sul piano sociale un’esigenza esplicativa, a riassorbire il senso di scandalo così come il senso di colpa, e a ridisegnare confini di umanità che coincidano con i limiti delle nostre appartenenze identitarie. Questi eventi, facilmente riconducibili alla dinamica di un massacro di massa, così come i genocidi, chiamano in causa il gruppo, mettono in dubbio lo statuto di umanità dei suoi membri, esigono la segregazione della barbarie in una dimensione di eccezionalità inumana. Allo stesso modo, la ferocia inammissibile dei massacri di massa scatena il timore di essere confusi con i carnefici, di condividere con loro una qualche parentela, di avere caratteristiche comuni che contrastano con i criteri morali di definizione della persona umana. In altri termini, lo spettro di un senso di responsabilità rimosso fonda l’inalienabilità morale della commemorazione e obbliga la società a inventare rappresentazioni e pratiche che gettino una distanza invalicabile tra l’identità del gruppo e quella degli attentatori. In questo modo l’ordine del mondo e l’immagine positiva di sé non vengono intaccati: l’evento è considerato opera di un’umanità degradata, non più degna di questo nome, da cui la collettività deve necessariamente prendere le distanze.

Il 13 novembre si è intriso di un significato mistico e sacrale, reso possibile dalla istituzione normativa della commemorazione. E così, attraverso il vincolo della memoria, il dramma del passato ha potuto legarsi all’ordinarietà del presente. Ad ogni anniversario, il ricordo del massacro riapre una ferita non del tutto rimarginata, lo shock ci assale nuovamente, fa irruzione nel presente e lo congela. È in questi termini che i partecipanti alla commemorazione del 13 novembre descrivono il proprio vissuto e i propri sentimenti nei confronti di quell’evento, riproponendo sul piano collettivo e sociale una sintomatologia psicopatologica che sul piano individuale si riferisce al disturbo post-traumatico da stress. In questo modo, il dramma del terrorismo viene riletto e rivissuto alla luce di una potente metafora onnicomprensiva, quella del trauma collettivo che interpreta la crisi sociale nei termini di una crisi d’identità. Come per il trauma psicologico – nozione che a sua volta deriva da una metafora che paragona lo shock emotivo a quello fisico – anche nel trauma collettivo, il ricordo dell’evento traumatico riaffiora potente, dopo un periodo più o meno lungo di rimozione e conservazione latente.

È interessante notare con Didier Fassin e Richard Rechtman che l’imposizione della metafora psicologica del trauma è storicamente coincisa con l’emergenza nella sfera pubblica della condizione di vittima.[3] Secondo gli autori, dal sospetto intorno alla sincerità della vittima di un trauma fino al pieno riconoscimento del suo valore qualcosa è cambiato nella storia del pensiero morale degli ultimi cinquant’anni: il trauma è diventato una chiave d’interpretazione dello shock della violenza, sia essa subita o perpetrata. Il trauma è diventato un referente trasparente e intelligibile a partire dalle rivendicazioni dei reduci dal Vietnam che avevano accusato una crisi psicologica e identitaria sviluppando tutta una serie di sintomi – come l’intrusione del ricordo della guerra, l’insonnia, la dipendenza dall’alcol e dagli stupefacenti, l’irritabilità – che solo in un secondo momento sono stati raggruppati e inseriti in un’unica categoria diagnostica. In seguito, i movimenti femministi in difesa delle donne vittime di violenze sessuali hanno avuto un ulteriore impatto politico sulla questione, contribuendo a consolidare la validità del quadro diagnostico e la sua accettabilità sociale. In seguito, dopo l’11 settembre, il significato di trauma si è arricchito di una connotazione ancora più ampia che ha aperto un varco alla concettualizzazione del trauma collettivo. Da questo momento l’attentato alle Torri Gemelli ha gettato nuova luce sui drammi del passato, primo fra tutti l’Olocausto, che solo allora è diventato l’evento commemorativo per eccellenza, fissando la pratica della memoria come norma e istituto morale.

Secondo questa lettura psicologizzante, oggi pienamente inserita nel quadro delle rappresentazioni condivise, il funzionamento sociologico del gruppo rimanderebbe al funzionamento psicologico dell’individuo. Tra individuo e società s’instaura un nesso di denotazione dove l’individuo rappresenta il segno e la società il referente. In questa prospettiva, i criteri di assegnazione dello statuto di umanità sono gli stessi per l’individuo e per la società e, in entrambi i casi, passano per la nozione di trauma. Il trauma è diventato così, sul piano individuale e collettivo, un dispositivo semiotico attraverso cui la società esprime il proprio verdetto di umanità. Vivere una violenza senza rimanerne turbati, è questa ai nostri occhi la mostruosità radicale. Il trauma, condizione patologica definita come normale reazione ad una situazione anormale, conserva quindi una doppia e ambigua valenza: serve a stabilire sia le condizioni di normalità per l’uomo sia il grado di violenza che l’essere umano è tenuto a sopportare senza subire danni psicologici. Tale impostazione logica produce un orizzonte etico particolarmente pervasivo, che investe la dimensione sociale e collettiva, suggerendo precisi parametri di assegnazione alla condizione umana. Se non si è stati vittime di violenza, per sentirsi pienamente umani occorre almeno identificarsi il più possibile con le vittime e allontanare dall’immagine di sé le figure degli attentatori. In questo senso ricordare le vittime significa stare dalla loro parte, condannare i carnefici e ribadire una presa di distanza netta contro la mostruosità della violenza.

È per questa ragione che ad ogni tragedia la memoria viene rievocata come ordine supremo e inalienabile. E tuttavia esiste una scala delle priorità: il 13 novembre è diventato l’evento ultrarappresentativo di tutti gli attentati europei riconducibili a una matrice jihādista. Se da una parte non è pensabile dimenticare questa tragedia, d’altra parte il ricordo deve essere disciplinato socialmente. Stringersi intorno alla memoria della strage rinnova un senso di comune appartenenza ed esercita sul gruppo una funzione che è insieme politica e terapeutica. S’innesca così un dispositivo sociale che permette di consolidare l’immagine positiva del gruppo e l’ordine di senso e di valori da cui quest’immagine scaturisce. Infine, la cerimonia di commemorazione consente di arginare il dolore del ricordo, incanalandone la memoria in una versione definitiva, consentita e condivisibile. In questa cornice, così come il trauma individuale serve a ribadire lo statuto di umanità di chi lo porta, allo stesso modo solo una società che resta traumatizzata dalla violenza può sentirsi pienamente e legittimamente umana.

 

[1] Non è un caso che l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo abbia avuto una risonanza pubblica e mediatica ben più radicale e duratura rispetto al successivo attentato all’Hyper Casher. Ciò ha permesso di rivendicare il principio democratico della libertà di stampa per consolidare la propria legittimità morale e politica opponendola all’oscurantismo religioso del terrorismo islamico, come dimostrato dall’intensa partecipazione pubblica della manifestazione dell’11 gennaio e della risonanza mediatica di livello internazionale del famoso slogan “Je suis Charlie”. Per approfondire la questione in modo semplice e gratuito si consiglia di leggere  Scritti dopo gli attentati di Parigi, raccolta di saggi disponibile on line sul sito di Nazione Indiana e Alfabeta2:

https://www.nazioneindiana.com/2015/05/08/scritti-dopo-gli-attentati-di-parigi-un-e-book-di-nazione-indiana/ [consultato il 15/01/2017, alle ore 15:16].

https://www.alfabeta2.it/2015/05/10/scritti-dopo-gli-attentati-di-parigi/

[consultato il 15/01/2017, alle ore 15:17].

Si segnalano in particolare i seguenti contributi :

BADIOU, Alain, Il Rosso e il Tricolore, in: Nazione Indiana, Alfabeta2, “Scritti dopo gli attentati di Parigi”, Quaderni, 2015;

GALLO LASSERE, Davide, Oltre Charlie, in: Nazione Indiana, Alfabeta2, “Scritti dopo gli attentati di Parigi”, Quaderni, 2015;

INGLESE, Andrea, Note su “Io sono Charlie” e il suo contraltare, in: Nazione Indiana, Alfabeta2, “Scritti dopo gli attentati di Parigi”, Quaderni, 2015.

[2] BALIBAR, Étienne, Cittadinanza, Bollati Borghieri, Torino, 2012.

[3] FASSIN, Didier, RECHTMAN, Richard, L’empire du traumatisme, Enquête sur la condition de victime, Flammarion, Parigi, 2007.

 

Nel ricordo del trauma collettivo: le cerimonie di commemorazione degli attentati di Parigi, tra etica memoriale e frontiere antropologiche/1

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arigi, 13 novembre. Una data che trascende il tempo e lo definisce. Una data rimasta intrappolata nel 2015. Impossibile emanciparsi dal dovere del ricordo senza rischiare d’incorrere in una condanna morale, impossibile neutralizzare il peso simbolico di un passato tragico che si riversa nel presente condizionandone ogni possibile esperienza e interpretazione. L’ordine cronologico che siamo soliti percepire in modo lineare cede il passo al tempo circolare, scandito dalla ricorrenza, vincolato al valore della ripetizione e del ritorno. Il 13 novembre resta così congelato nel dolore della strage, un dolore reiterato dall’etica memoriale.

A un anno dagli attacchi che hanno sconvolto la città e lasciato a occhi sbarrati una nazione intera, Parigi rivive la sua tragedia con una cerimonia di commemorazione itinerante che ripercorre le tappe della strage. La cerimonia ufficiale ha perlopiù coinvolto i membri delle associazioni, gli abitanti dei quartieri più colpiti, le famiglie delle vittime e le forze dell’ordine, di sicurezza e di soccorso. Tuttavia, una parte consistente della popolazione si è recata durante il pomeriggio nei luoghi degli attentati, dando vita a un cerimoniale spontaneo, fatto di piccoli gesti intimi e di un raccoglimento privato, espresso nella forma di una manifestazione pubblica. Corone, mazzi di fiori, candele, cerini, poesie, disegni, preghiere laiche e altre offerte, divenute veri e propri doni rituali, hanno impreziosito le zone antistanti i luoghi della strage. Tramite una pratica, ampiamente condivisa, la comunità dei vivi ha potuto materialmente e simbolicamente riabitare la città, riappropriandosi dei suoi spazi, ancora così intrisi di un senso di morte cruenta, per riuscire in qualche modo a rivificarli, a risanarli, a riportarli in vita. Allo stesso modo, durante la commemorazione ufficiale, a cui hanno partecipato le autorità politiche, tutti i luoghi colpiti sono stati sacralizzati dal rituale seguendo l’ordine cronologico degli attacchi. Questa procedura ha dato vita a una specie di processione che, ancora una volta, è servita a riconquistare gli spazi cittadini. Inoltre, attenendosi all’ordine cronologico degli attentati nello svolgimento delle cerimonie si è potuto corroborare la versione ufficiale della tragedia. L’imperativo categorico della commemorazione si è fuso all’ideale di una memoria storica che si presume neutra e oggettiva. La commemorazione diventa performance rituale in cui il ricordo dell’evento serve a ricostruirne un’immagine collettiva come esatta fotografia della realtà fattuale.

Il percorso commemorativo comincia alle nove del mattino dalla città di Saint-Denis. Siamo davanti all’accesso D dello Stade de France, teatro del primo atto terroristico di quella notte, dove perse la vita Manuel Dias, l’autista dell’autobus che aveva condotto i tifosi francesi ad assistere all’amichevole contro la Germania. Una folla poco numerosa partecipa all’evento. Il Presidente della Repubblica François Hollande scopre la targa commemorativa marchiata dal nome della prima vittima. Segue un minuto di silenzio, rotto solo da qualche sospiro, da un colpo di tosse, da un tacco che sfrega l’asfalto. Il formulario posturale è quello tipico delle cerimonie di commemorazione e ricorda da vicino la gestualità del lutto, incorporata dagli astanti e inscritta nel codice del rituale funebre. Le mani giunte, gli sguardi a toccare il suolo, qualche volto è solcato da rughe più profonde del solito, molti occhi si riempiono di lacrime.

Lasciata Saint-Denis, la cerimonia riprende nel cuore della città ferita, nei locali colpiti dagli attentatori e disseminati tra il decimo e l’undicesimo arrondissement. Sulle terrasses di Le Petit Cambodge, Le Carillon, La Bonne Bière, Le Comptoir Voltaire, La Belle Equipe persero la vita quaranta persone e in questa giornata altrettante targhe commemorative vengono scoperte dal presidente Hollande, accompagnato dal la sindaca di Parigi Anne Hidalgo. Qui una folla più numerosa assiste alla cerimonia. I partecipanti sono soprattutto parenti e amici delle vittime, abitanti del quartiere, forze dell’ordine e membri del personale di sicurezza e di soccorso.

 

Com’è facile aspettarsi, però, il momento nevralgico dell’intera commemorazione si svolge davanti al Bataclan, la grande sala da concerti che si affaccia sulla piazza da cui prende il nome, all’incrocio tra Boulevard Voltaire e Boulevard Richard Lenoir. Proprio qui infatti si è consumato il più macabro e mortuario attacco della serata. Sono ormai le undici del mattino quando il Presidente della Repubblica arriva sul posto, accompagnato da diverse figure politiche e istituzionali tra cui il primo ministro Manuel Valls e il ministro degli interni Bernard Cazeneuve[1]. Gli atti cerimoniali si ripetono come da copione. La targa viene scoperta e vengono letti i nomi delle novanta vittime. A seguire il consueto minuto di silenzio corredato da un’atmosfera di raccolta che si fa ancora più sentita e tesa a ricalcare i toni e le movenze di una preghiera di cordoglio. Infine, per distendere la tensione emotiva, la musica si libera dagli altoparlanti, permettendo ai partecipanti di abbandonare la dimensione sacrale e di ricomporre una corporeità estranea ai codici del lutto e della preghiera.

L’apice di solennità viene raggiunto alla lettura dei nomi delle vittime. Da questo punto di vista la cerimonia di commemorazione può essere considerata alla stregua di un battesimo rovesciato che, nel recitare il nome del defunto ne riabilita e ribadisce l’identità sociale. Stando alla descrizione che ci riporta Marc Augé a proposito delle popolazioni yuruba dell’Africa Occidentale, le cerimonie di assegnazione del nome sanciscono definitivamente la nascita sociale dell’individuo[2]. Nella commemorazione, invece, l’esistenza spirituale della vittima viene rievocata al di là della morte. La targa commemorativa diventa così il fulcro del cerimoniale, come un altare votivo o feticcio rituale, a cui si rivolgono gli sguardi e i gesti di commiato. È nella lettura del nome della vittima come atto performativo che si compie quella trasmutazione rituale che trasforma il nome-simbolo della vittima in una sua incontestabile presenza sotto forma di ricordo, almeno entro i limiti dell’istante commemorativo.

Al termine della mattinata, davanti alla mairie dell’undicesimo arrondissement, si celebra infine la cerimonia conclusiva. È qui che Caroline Langlade, sopravvissuta al Bataclan e fondatrice dell’associazione “Life for Paris”, prende la parola per omaggiare le vittime con un discorso pubblico rivolto a tutta la comunità e ai sopravvissuti alla strage. Le sue parole sanciscono la definitiva consacrazione dei defunti, figure assurte a veri e propri eroi mitici e protagonisti simbolici di una laica parabola del martirio. In questo discorso, che si conforma a una retorica comunemente accettata e largamente diffusa, tutti coloro che trovarono la morte per mano degli attentatori, seppur a loro malgrado, avrebbero anteposto i principi nazionali alla propria sopravvivenza. La sacralizzazione delle vittime risponde così all’esigenza di allargare il divario simbolico che li separa dagli attentatori: vittime e carnefici sono presi a prototipo di due umanità inconciliabili, sovrumana, quella delle vittime, e subumana, quella degli attentatori.

Non è un caso infatti che la commemorazione ufficiale si sia conclusa liberando in aria dei variopinti palloncini a rappresentare i defunti che sono così definitivamente spiritualizzati. Ma la spiritualizzazione delle vittime rivela un ulteriore bisogno sociale, speculare rispetto al primo: demonizzare i carnefici, allo scopo di collocare se stessi nello spazio morale fra la dimensione della trascendenza e quella dell’orrore. Infine il volo dei palloncini, grazie ai caratteri di leggiadria e spensieratezza da esso rievocati, permette di riprendere i ritmi consuetudinari della vita quotidiana. Si tratta di quella discesa nell’ordinario, “the descent into the order”, che per Veena Das consiste in un ritorno alla banalità del quotidiano.[3] Per l’antropologa indiana, l’unico modo per superare un evento traumatico di portata collettiva è di normalizzarlo e reintegrarlo in un ordine pensabile di possibilità fattuali. A ribadire quest’esigenza, Caroline Langlade conclude il suo discorso esortando la piazza a riprendere il corso della propria vita. Il tempo della sospensione nel ricordo e nel dolore può dirsi finito, il cordoglio può lasciare spazio all’ordinarietà del vivere quotidiano.

en diverso invece il clima commemorativo nelle giornate del 7 e 9 gennaio dopo due anni dagli attentati. In questo caso, il sobrio omaggio che si è reso alle diciassette vittime degli attacchi alla vecchia sede di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Casher è passato quasi inosservato. Non solo la popolazione ha partecipato in maniera molto più contenuta e certamente meno accorata rispetto alla precedente commemorazione del 13 novembre, ma persino la stampa e i telegiornali francesi hanno riservato uno spazio decisamente più ridotto sia alle cerimonie che al ricordo della strage. Inoltre, cosa ancora più importante, la tragedia è stata ricordata solo attraverso i canali ufficiali, con un breve intervento della sindaca Anne Hidalgo e del nuovo Ministro degli interni Bruno Le Roux. Del resto già l’anno precedente le cerimonie di commemorazione di questi due primi attentati terroristici erano stati fortemente impregnate dalla rievocazione dell’allora recentissimo massacro al Bataclan. È stato solo dopo il 13 novembre che questi primi due attacchi, dove persero la vita diciassette persone, sono stati riletti come l’atto d’inizio di una stagione del terrore che ha coinvolto l’intera Europa e che ha posto Parigi e la Francia al centro del mirino dei jihādisti. Solo dopo il 13 novembre i due eventi sono stati implicitamente integrati in uno stesso orizzonte ermeneutico.

Questo spiega perché la commemorazione del 13 novembre conservi una priorità morale e una risonanza collettiva così nettamente superiore rispetto a tutti gli attacchi precedenti e successivi che hanno colpito l’Europa. Il 13 novembre 2015 è ormai una data-soglia paragonabile all’11 settembre 2001. In particolare, l’assassino di novanta spettatori al concerto del Bataclan ha sconvolto per diverse ragioni. Innanzitutto ad aver colpito è stata l’estrema intensità della violenza. Le vittime sono state uccise una per volta a colpi di Kalashnikov, come in un’esecuzione bellica, ma il risultato prodotto da questa lucida pratica di amministrazione della morte ci fa pensare a un vero proprio massacro di massa. A colpire è stato anche il luogo dell’attentato, così apparentemente irragionevole e casuale, così diverso dai potenziali obiettivi di Al-Qaïda. Se l’11 settembre è diventato l’evento più rappresentativo di quella passata stagione del terrore che aveva opposto Occidente e Mondo Arabo come due entità antitetiche formatesi per schismogenesi[4] e definitesi reciprocamente secondo un’immagine negativa e stereotipata, oggi è il 13 novembre ad avere inaugurato una parentesi storica tutta contemporanea i cui esiti ancora sfuggono a qualsiasi tentativo di spiegazione e, soprattutto, di previsione. È proprio per questa ragione che a Parigi l’urgenza commemorativa del 13 novembre è diventata così cruciale e prioritaria rispetto a quella del 7 e 9 gennaio 2015.

 

[1] Come sappiamo, il 6 dicembre 2016 Cazeneuve ha preso il posto di Manuel Valls in seguito alla candidatura quest’ultimo alle primarie del Centro Sinistra e alle sue conseguenti dimissioni da Primo Ministro. Contemporaneamente, a capo del Ministero degli interni, è salito Bruno Le Roux.

[2] AUGÉ, Marc, Il dio oggetto, Meltemi, Roma, 2002,

[3] DAS, Veena, Life and Words: Violence and the Descent into the Ordinary, Paperback, New York, 2006.

[4] Si tratta del processo attraverso cui il senso d’identità viene prodotto mettendosi in rapporto di contrapposizione reciproca con un’altra identità di riferimento. Questo concetto è stato usato in antropologia da Gregory Bateson per descrivere il consolidamento delle identità di genere tra gli iatmul della Nuova Guinea. Per l’autore la schismogenesi non solo resiste ma viene riprodotta proprio all’interno di quei rituali carnevaleschi che, come il naven, servirebbero a ribaltare i termini di questa rigida dicotomia identitaria. BATESON, Gregory, Naven, un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino, 1988.

 

Figure e forme della desoggettivazione contemporanea: Dalla crisi del soggetto postmoderno alla non-soggettività della demenza. 3/Il dramma della demenza e la paura di perdere se stessi

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William Utermohlen, Autoritratto, 2000.
William Utermohlen, Autoritratto, 1999.
William Utermohlen, Autoritratto, 1999.

Pensare il sé in termini d’identità significa trovare le ragioni profonde della sua sussistenza. Locke è stato il primo filosofo a interrogarsi sulla natura dell’identità individuale e sulla ragione della sua permanenza malgrado i mutamenti che coinvolgono il soggetto nel corso dell’esistenza.[1] Ma posta in questo modo, la domanda sull’identità del soggetto rivela già l’assunto d’essenzialità su cui si fonda: rintracciare le condizioni necessarie dell’identità significa ipostatizzare il sé concependolo in quanto ente autonomo e sussistente. Seguendo il ragionamento di Locke, tra identità e memoria vi sarebbe un legame di convergenza fattuale, da cui egli ricava l’identificazione tra essenza del sé e ricordi autobiografici: ciò che garantisce la permanenza del soggetto e il suo senso d’identità sarebbe proprio la memoria autobiografica. In una tale prospettiva, perdere i ricordi significa scomparire del tutto, smettere di esistere, non a seguito del sopraggiungere della morte fisica, quanto più per effetto della desoggettivazione che annienta il soggetto e la sua coscienza di essere al mondo. Tale costrutto filosofico permea di senso anche le nostre semantiche della soggettività e condiziona intimamente i modi di vivere e di raccontare l’invecchiamento. L’esperienza della demenza senile risente infatti del particolare tono drammatico con cui coloriamo tutte le sue infinite narrazioni.

A differenza di Locke, Paul Ricoeur, con la sua celebre teoria dell’identità narrativa, pur inserendosi nella tradizione del pensiero occidentale che stabilisce una relazione di coincidenza ontologica e psicologica tra identità e memoria, propone una definizione costruttivista dell’io. Per il filosofo francese l’identità, lungi dall’essere un ente stabile e definito, è invece il risultato di un processo che dura tutta la vita e che trova nel racconto autobiografico la sua ragione più profonda.[2] La narrazione autobiografica, che spinge l’individuo a riflettere sul proprio passato alla luce del presente mentre già si prepara a progettare il futuro, permette di individuare una coerenza logico-cronologica tra i ricordi delle proprie azioni e l’immagine di sé. Tra identità e memoria non c’è più una coincidenza perfetta, istantanea e stabilità una volta per tutte. La memoria autobiografica infatti non si può ridurre a una mera collezione di ricordi giustapposti e il racconto di sé diventa una vera e propria performance, una perpetua messa in scena della propria identità narrativa nel momento stesso in cui essa, narrandosi, si rivive e si costruisce. Tuttavia, anche Ricoeur, che concepisce l’identità in quanto vera e propria fiction narrativa, nonostante si sbarazzi della sostanzializzazione dell’identità, continua ad assegnare alla memoria un ruolo centrale nel processo soggettivazione.

Ancora una volta, quindi, chi non ricorda il proprio passato, o ricorda in modo impreciso e lacunoso, si espone al rischio della perdita del sé e del proprio statuto di soggetto. Incapace di percepirsi come soggetto della propria azione nel passato, l’individuo che perde la memoria è potenzialmente esposto all’implosione della linearità del proprio tempo autobiografico. Per noi infatti il soggetto è sempre soggetto d’azione, cioè un individuo che riconosce se stesso come soggetto della specifica azione del passato sulla quale è in grado di riflettere nel presente. Tale struttura lineare del tempo risente anche del nostro modo di concepire la causalità fattuale: tra due eventi di cui l’uno segue temporalmente l’atro, il primo evento, quello che consideriamo passato, diventa per noi causa dell’altro evento. Questo spiega perché l’individuo che non ricorda il proprio passato, sente di perdere anche il proprio futuro : perduta l’immagine lineare del tempo, si perde il nesso di causalità tra presente, passato e futuro e si dissolve la capacità di cogliersi in quanto causa soggettiva di tutte le proprie azioni. Se esiste una somiglianza reale ed epistemologica tra il tempo della vita e il tempo del racconto,[3] perdere la nozione di temporalità significa perdere non solo la capacità di raccontarsi, ma anche la possibilità di vivere davvero, cioè di vivere come soggetto cosciente di sé e della propria esistenza. La vita perde la propria temporalità trasformandosi in un presente eterno e immobile che presagisce e preconizza la morte. A dissolversi nel nulla è l’idea stessa di un soggetto che entra in relazione con altri soggetti sulla base di una storia comune, fatta di narrazioni condivise e condivisibili. La demenza senile ci forza a fare i conti con la paura del vuoto e del nulla; non la morte, dunque, ma la perdita del soggetto, la sua esistenza desoggettivata che si tramuta nel paradosso di un essere inesistente. Nemmeno la crisi della presenza ci aiuta a chiarire il significato di questo nulla assoluto perché non si può destoricizzare qualcosa che sfugge del tutto alla logica del tempo.[4]

Per capire come la nostra società ha prodotto una concezione tanto tragica quanto inintelligibile della demenza senile occorre analizzare il rapporto ch’essa ha intrattenuto nel corso della storia con la figura dell’anziano e con quella del morente. Secondo Norbert Elias, la diffusione delle pratiche d’igienizzazione del comportamento e di sanitarizzazione degli spazi abitativi nella vita quotidiana ha prodotto l’isolamento dei malati e dei morenti in luoghi specificamente preposti alla cura e al trattamento.[5] In questo modo, l’uomo ha allontanato da sé la morte, espugnandola dalla dimensione dell’ordinario e rendendola invisibile allo sguardo. Invece, negli ultimi cinquant’anni, in seguito al sempre più generale miglioramento delle condizioni sociosanitarie della popolazione e alla crescente estensione della speranza di vita nelle società del benessere, i paesi ricchi stanno vivendo quella transazione demografica che è alla base di una massiccio invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno ha reso la morte ancora più opaca alla nostra coscienza collettiva.

Negli ultimi decenni, i dibattiti politici e i discorsi mediatici che affrontano la questione dell’invecchiamento demografico individuano in particolare due fenomeni che la sanità pubblica è costretta a gestire: da una parte, la diffusione delle malattie croniche legate all’invecchiamento e l’esigenza di un profondo mutamento delle politiche sanitarie che prevedano cure a lungo termine e supporto alle famiglie degli anziani e, dall’altra parte, il dramma della demenza senile sempre più alla ribalta in seguito alla diffusione di proporzioni “epidemiche” di disturbi cognitivi e malattie neurodegenerative. Il primo problema riguarda la cura del corpo a garanzia della sopravvivenza e della salute, il secondo invece rimanda più propriamente alla questione bioetica della qualità della vita rispetto al valore assoluto o relativo da assegnare alla vita umana: la vita umana ha valore in sé? Oppure il suo valore è sottoposto a determinate condizioni ? E’ meglio vivere il più a lungo possibile o è meglio conservare benessere e lucidità fino alla morte? E infine, quale vita è per noi degna di essere vissuta? Sono queste e molte altre le domande a cui siamo chiamati a rispondere oggi. L’invecchiamento demografico se ha distolto l’attenzione dalla morte, ha portato sotto il nostro sguardo uno scandalo ancora peggiore: l’insorgere della demenza ci fa temere per l’annientamento del soggetto ancor prima che la morte stessa possa sorprenderlo.

Siamo di fronte alla più spinosa aporia gnoseologica, etica e spirituale del nostro tempo che mette in crisi credenze e valori intorno a cui abbiamo forgiato le diverse definizioni della vita umana. Emerge il bisogno di una nuova etica della cura che non consideri solamente l’assetto biologico dell’invecchiamento, della malattia e della demenza, ma che faccia i conti con la dimensione metafisica e spirituale dell’esistenza. Di conseguenza, l’invecchiamento della popolazione non è solo un dato demografico né una mera problematica socio-sanitaria che richiede interventi politici e investimenti economici. E’ piuttosto un problema di carattere culturale che entra in rapporto con la dimensione della spiritualità e della trascendenza.

William Utermohlen, Autoritratto, 2000.
William Utermohlen, Autoritratto, 2000.

Le posta in gioco è alta se si pensa che l’esperienza della malattia, dell’invecchiamento e della demenza è fortemente condizionata dal modo in cui tali esperienze vengono interpretate. A loro volta, queste interpretazioni sono impregnate di rappresentazioni ed ermeneutiche condivise, di racconti sulla vita e sulla morte, di saperi e di pratiche che fino a oggi sono state elaborate, conservate e trasmesse. Ma l’invecchiamento della popolazione ci ha messo di fronte a un’espressione della condizione umana per noi nuova e sconosciuta, per cui non disponiamo ancora di simboli, codici e criteri d’interpretazione che possano in qualche modo rendercela pensabile, comprensibile e accettabile. Ciononostante, gli anziani malati e clinicamente dementi sono sempre più visibili. Essi fanno ormai parte del tessuto di relazioni quotidiane, di scenari di eventualità sempre più probabili, di trame narrative che ci riguardano da vicino. La loro esistenza non può essere negata, né la loro presenza confinata ad uno spazio extra-ordinario così come in passato abbiamo potuto fare con i moribondi. Il nostro sguardo non può più esimersi dal vedere quest’alterità prossima, che ci richiama ai nostri doveri di cura e sfida le nostre più consolidate certezze sul significato dell’esistenza e sulla definizione della condizione umana. La demenza è oggi una realtà con cui dobbiamo sempre più probabilmente fare i conti. Essa ci coinvolge come soggetti o come oggetti di cura e nessuno dei due versanti di questo rapporto sembra metterci al riparo dal senso di precarietà di fronte al quale l’individuo contemporaneo si ritrova denudato di se stesso.

Nel romanzo da cui siamo partiti, Le Correzioni di Jonathan Franzen, Alfred, malgrado la qualità infima dei rapporti familiari, è compatito, compianto, fatto oggetto di attenzione e cura da parte di tutta la famiglia Lambert. La qualità dell’amore filiale e la sincerità dell’affetto coniugale non sono condizioni necessarie ad innescare il processo di cura. Alfred non gode di alcuna buona considerazione da parte della moglie e dei figli, eppure questo non li risparmia dal sentire un profondo senso di responsabilità. Nessun valore intrinseco alla persona, positivo o negativo che sia, sembra giocare un ruolo importante nell’insorgere del rapporto di cura. La cura verso l’anziano alienato nel solipsismo della propria demenza non è legata a quell’inestinguibile “debito di vita” che vincola i figli a essere eternamente riconoscenti verso i propri genitori.[6] Esso non dipende nemmeno dall’amore coniugale. Qui il rapporto di cura si carica di una valenza sacrale superando la reciprocità mondana che definisce ogni relazione. Eppure Enid e i figli sperimentano un senso di dovere che oltrepassa il livore e la rabbia provati per quell’uomo.

Questo dovere di cura si tramuta in dono gratuito. Le colpe del passato si rimuovono in nome di un presente dominato dall’eternità della demenza. Per questo la cura di Alfred supera i confini dello scambio, va al di là dei meriti e delle ricompense, ben oltre la logica classica del dono maussiano:[7] l’hau, lo spirito della cosa donata, sembra scomparire, ma invece si smaterializza soltanto, si spoglia dell’oggetto, si svincola dal valore che possiamo attribuirgli, fa meno della cosa donata e torna a essere puro spirito. Eppure non si tratta nemmeno di semplice altruismo incondizionato, giacché il dono gratuito racchiuso nella cura verso l’anziano è pur sempre stretto al vincolo della sua stessa gratuità. L’anziano affetto da demenza senile pur non essendo definibile come oggetto, è già in partenza un non-soggetto : la demenza lo ha già desoggettivato.

Producendo un non-soggetto che è a un tempo anche un non-oggetto, la demenza confina l’individuo nella sfera della pura negazione. Ed è in virtù di tale negazione che non risulta nemmeno possibile pensare alla demenza come portatrice di valore. Infatti, secondo la logica della grammatica narrativa di Greimas, se il soggetto ha valore in sé, l’oggetto ha sempre un valore estrinseco che serve a definirlo come oggetto di valore.[8] Ma al demente alcun valore può essere attribuito: essendo un non-soggetto non può avere valore in sé e, nel frattempo, in quanto non-oggetto non può essere nemmeno un oggetto di valore. Nella nostra cultura antropocentrica e razionalista, che fonda le basi della costruzione dell’identità e del processo di soggettivazione sui dati autobiografici conservati nella memoria, nessun valore, sia esso positivo o negativo, è assegnato a chi, affetto dalla demenza senile, ha perso coscienza della propria esistenza temporale e della linearità logica e cronologica della propria identità narrativa. La figura dell’anziano vittima della demenza rappresenta l’ultima e più radicale forma di desoggettivazione contemporanea, l’ultimo e più terribile scandalo: la perdita del sé, la dissolvenza di un soggetto che sopravvive alla sua stessa morte.

[1] LOCKE, John, Un Essay Conserning Human Understanding, Londra, The Baffet, 1989.

[2] RICŒUR, Paul, Temps et récit, tome II, La configuration dans le récit de fiction, Le Seuil, Paris, 1985.

[3] RICŒUR, Paul, Temps et récit, tome III, Le temps raconté, Le Seuil, Paris 1985.

[4] DE MARTINO, Ernesto, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano, 1961.

[5] ELIAS, Norbert, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985.

[6] MEILLASSOUX, Claude, « A chi dobbiamo la vita », in: Solinas P. G. (a cura di), La vita in prestito. Debito, lavoro e dipendenza. Argo, Bari, p. 31-44.

[7] MAUSS, Marcel, Essai sur le don, La République des Lettres, Paris, 1923.

[8] GREIMAS, Algirdas Julien, La semiotica strutturale : ricerca di metodo, Meltemi, Roma,1974 (ed. originale: La sémantique structurale : recherche de méthode, Larousse, Paris, 1966).

 

Figure e forme della desoggettivazione contemporanea: dalla crisi del soggetto postmoderno alla non-soggettività della demenza. 2/Per dovere di libertà

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Robert Louis Frank, The Americans, 1958.
Robert Louis Frank, The Americans, 1958.

La definizione dell’individuo che si fonda sul principio di autoaffermazione e di riuscita professionale fa riferimento a una particolare etica del lavoro che risponde al valore dell’efficientismo produttivistico, funzionale al mantenimento di una società neoliberista.[1] Per l’antropologo Victor Turner la società contemporanea si distingue da quella tradizionale proprio per aver prodotto una cesura tra lavoro e svago che ha finito per sacralizzare il lavoro e demonizzare la dimensione ludica, rituale e potenzialmente sovversiva della vita.[2] Tradotto in chiave neoliberista, la sacralizzazione del lavoro si unisce al monito di efficacia del sé e trova sbocco nell’ossessione carrieristica, nella professionalizzazione continua, nella spinta all’iperqualificazione e in una formazione che abbracci tutto il ciclo di vita.

Nell’era della crisi occupazionale e della precarizzazione delle condizioni lavorative, il mito teologico della dedizione al proprio lavoro si trasforma in una vera e propria esaltazione acritica della flessibilità e dell’innovazione come qualità fondamentali per rispondere alle attuali richieste aziendali in un mercato del lavoro sempre più volatile, incerto ed instabile. Ma se da un lato il crollo delle certezze che caratterizzavano i percorsi educativo-professionali e garantivano una relativa stabilità lavorativa determina una generale fragilizzazione delle condizioni socioeconomiche, dall’altro sembra reggersi su un nuovo ordine di valori che considera la stabilità e la sicurezza professionali come indizi di un’indole debole, pigra e conservatrice, che teme di mettersi alla prova rifiutando ogni possibilità di cambiamento. Allo stesso tempo, secondo la più classica logica antropocentrica, l’individuo continua a essere considerato l’artefice del proprio destino, ignorando il ruolo delle circostanze biografiche e delle condizioni socioeconomiche di partenza. Egli risulta così indebitamente responsabilizzato rispetto alle proprie chance di successo nell’opera di autodefinizione e autoaffermazione in cui è esortato a impegnarsi.

La crisi delle definizioni tipica della nostra società “liquida”,[3] sebbene possa conservare i tratti della liminalità, non è affatto una fase transitoria che apre a nuovi scorci e a diversi criteri di soggettivazione. Questa crisi diventa strutturale e insita al sistema culturale postmoderno: essa testimonia dell’aleatorietà e della convenzionalità delle definizioni, in virtù di un principio di libertà incondizionata che assegna all’individuo il pieno potere di autodefinirsi e autorealizzarsi. Ma secondo la definizione di Turner, ch’egli riprende da Van Gennep,[4] la liminalità è una condizione provvisoria, nata dalla rottura di un equilibrio precedente e avente in sé l’anelito al cambiamento e alla costruzione di un equilibrio ulteriore. Di conseguenza, se la liminalità si dilata in un tempo infinito e indefinito perde il suo potere liminale, creativo, ludico e liberatorio, diventando una nuova prigione, una condizione di sospensione congelata in cui l’individuo perde le basi per costruire un’immagine di sé nella quale possa riconoscersi ed essere riconosciuto.

Così, se da un lato il sé resiste alle eterodefinizioni che la società del passato imponeva all’individuo, dall’altro l’idea che la

Robert Louis Frank, The Americans, 1958.
Robert Louis Frank, The Americans, 1958.

definizione del sé, per quanto autonomamente costruita, sia rigida e sostanzializzata permea ancora le nostre concezioni di fondo e i processi di soggettivazione socialmente riconosciuti come possibili e legittimi. E’ come se ci trovassimo in una fase di transazione tra due concezioni del sé che, metaforicamente, potremmo definire l’una parmenidea e l’altra eraclitea. Nel mondo di Parmenide l’essere è immobile e immutabile perché ogni passaggio di stato scopre lo spettro del nichilismo: se l’essere è e non può non essere, allo stesso modo il sé é sempre e solo sé e non può essere altro da sé. E’ questa definizione rigida del sé che troviamo implicita nel concetto di identità: il sé é sempre identico a se stesso, senza scorrimenti né trasformazioni. I confini dell’identità sono rigidi; il sé concepito come identità diventa un ente sostanziale. Nel mondo di Eraclito, invece, l’essere non si dà che all’infinito, privo com’é di confini strutturati e rigide definizioni. Nessun ente può mantenersi identico a se stesso. Se volessimo definire il sé secondo tale prospettiva ci troveremmo quindi in un vero e proprio vicolo cieco: sé e identità non potrebbero conciliarsi e la stessa consistenza del sé come un ente fra gli enti, come soggetto tra gli oggetti, sarebbe del tutto impensabile. Anzi, in un mondo dove niente resta costante e stabile, la nozione stessa di identità perderebbe consistenza ontologica e validità logica.

Ma l’era della postmodernità non si è affatto sbarazzata della nozione d’identità. Da questo punto di vista, l’influsso cartesiano pregno di una certa qual fede razionalista e logocentrica, sembra ancora perdurare. L’enfasi sul cogito in quanto sostanza immateriale ha prodotto un’identificazione del tutto particolare tra anima ed identità nella quale infondo crediamo ancora oggi. Da qui, l’identità diventa l’essenza stessa della soggettività. Così come Parmenide pensava che il mutamento dell’essere implicasse l’insorgere del nulla, l’individuo che cerca se stesso, sulla scorta delle molteplici possibilità d’identificazione, teme di perdersi, sentendosi invaso dal terrore della morte. Per tale ragione, l’individuo contemporaneo convive con l’angoscia radicale della perdita del sé. La sua paura più grande è l’annientamento del proprio statuto di soggetto.

Le infinite possibilità di autodefinizione, che si perpetuano potenzialmente dalla nascita fino alla morte, se da un lato ribadiscono l’espansione esponenziale delle nostre libertà, dall’altro ci vincolano alla loro normatività intrinseca. Essere liberi, per effetto di un strano assurdo doppio-legame, diventa un dovere, per non dire un’oppressione. In altre parole, quello che a prima vista può sembrare un diritto di emancipazione del soggetto, si tramuta in ingiunzione. Questa ingiunzione paradossale è stata ben chiarita da Erembergh in La fatigue d’etre soi, un testo che, pur nella sua non proprio recente pubblicazione, si rivela ancora oggi illuminante. La prima edizione francese risale infatti al 1998, ma da allora numerose altre versioni e traduzioni sono state riproposte e il saggio è diventato famoso per aver spiegato la natura storico-sociale della depressione e le ragioni della sua elevata diffusione.[5] Per Erembergh, la società occidentale produce un gap di autostima perché da un lato, riposando su un’organizzazione socio-economica fondata sull’efficientismo e la performatività del sé, propone modelli di successo troppo alti e difficilmente raggiungibili, mentre dall’altro esorta l’individuo ad affermare se stesso esaltando i miti del successo e inducendolo a reiterare quei valori di autoefficacia, produttivismo e potenziale consumistico che sono alla base della società neoliberista e dell’economia di mercato.

Robert Louis Frank, The Americans, 1958.
Robert Louis Frank, The Americans, 1958.

Così l’istituzione individualista, proprio mentre celebra la libertà dell’uomo di autodefinirsi come soggetto autonomo e irriducibile, esorta l’individuo ad adeguarsi a tale libertà secondo la norma dell’individualizzazione. In altre parole, l’individualismo disegna i contorni di una particolare struttura sociale, venendo a configurarsi come una delle tante modalità di socializzazione e disciplinamento dell’individuo. Si produce quindi, tanto per il soggetto quanto in seno all’intera collettività, un paradosso implicito : l’individuo deve essere libero. E qual è la libertà primaria dell’individuo che fonda e legittima tutte le altre? Ebbene si tratta della libertà di essere se stessi che si riduce nella spinta ad emanciparci da qualsivoglia condizionamento sociale. Ma per essere se stessi occorre innanzi tutto – sulla scia dell’antico motto socratico-agostiniano – conoscersi. Nella società contemporanea l’individuo non è considerato tale se non possiede la consapevolezza piena di chi è e di chi vuole essere, delle proprie capacità e dei propri limiti, sempre suscettibili di essere superati grazie a un impegno e a un’applicazione che sconfina in una definizione aperta e mai rigida di un sé che tuttavia continua a venir definito in termini d’identità.

In questa ansia teleologica verso un sé irraggiungibile, proiettata verso un futuro sempre più incerto e inconsistente, si opera una vera e propria trascendizzazione del concetto d’identità:  l’identità è come divinizzata, posta al di fuori dello spazio e del tempo umani, utopia ultramondana o profezia sacrale. Secondo una terminologia che risale alla psicologia sociale e trae origine dal pragmatismo americano di William James, il sé reale tende ad adeguarsi al sé ideale per regalarci un livello sempre più elevato e gratificante di autorealizzazione.[6] Il senso di autostima, stando a questa spiegazione, sarebbe inversamente proporzionale alla discrepanza tra queste due immagini del sé: ciò che si pensa di essere e ciò che si vuole essere. Ora, i filosofi e gli psicologi del sé sociale, erano d’impronta interazionista, convinti assertori dell’interazione tra individuo e società nella costruzione dell’identità;[7] non erano certo razionalisti cartesiani e implacabili reificatori dell’io. Ciononostante, questi concetti sono stati elaborati e messi in circolazione in una società abituata a pensare al sé in termini di entità cosale autosufficiente e incausata. Ciò ha inconsapevolmente prodotto l’idea che l’identità debba essere il risultato finale di un processo performativo che culmina con il conseguimento dell’io reale volto ad adeguarsi al sé ideale, o in altri termini, con il mito dell’autenticità dell’io.

E’ stato Foucault[8] a sottoporre in modo perentorio e definitivo la nozione di soggettività al vaglio della critica. Infatti, grazie

Robert Louis Frank, The Americans, 1958.
Robert Louis Frank, The Americans, 1958.

alla sua consueta furia analitica, riesce a decostruire il pensiero comune, docile compagno vessato della dominazione: rintracciando le ragioni genealogiche[9] di quelle rappresentazioni così radicate da risultare ovvie, egli ne dimostra l’inconsistenza ontologica, demistificando la fede dogmatica nella loro esistenza. In questo modo egli ha saputo mettere in luce che la nozione di soggetto in quanto ente autonomo, contrapposto all’oggetto e finalmente libero dall’assoggettamento al potere, non è che il frutto di una configurazione (ideo)logica (di un episteme) pregna di mistificazioni e idealizzazioni storicamente determinatesi. In altre parole, per Foucault l’emergere del soggetto, la sua emancipazione dalle dinamiche del potere, è una pura illusione antropocentrica dagli echi cartesiani e razionalistici. Il soggetto, infatti, non è solo soggetto di azione ma anche e innanzitutto soggetto al potere: soggetto e suddito a un tempo.[10] In atri termini, nel processo di soggettivazione in cui l’individuo s’impegna, non vi è mai una piena e totale emancipazione del soggetto. Ogni processo di soggettivazione è infatti radicato in un ordine di valori e di rapporti di potere che lo giustifica e lo sorregge.

Le figure della desoggettivazione sono estremamente importanti anche per definire i processi di soggettivazione che vengono legittimati in seno a una determinata società e secondo un ordine di valori ad essa coerente. L’individuo per diventare soggetto deve poter riconoscere e identificare i propri fantasmi, le figure nelle quali teme terribilmente di potersi un giorno ridurre. Sono proprio queste figure che abbiamo chiamato idealtipi della desoggettivazione. Ma in una società in cui il processo di soggettivazione socialmente legittimo si fonda sul valore dell’autoaffermazione, il vero dramma che annienta e terrorizza l’individuo contemporaneo è la perdita prematura del sé, vissuta come il presagio di una morte annunciata. E’ Alfred l’anti-soggetto per eccellenza, l’idealtipo che incarna e rappresenta la forma più estrema di desoggettivazione che la nostra società ha prodotto. La demenza senile ci offre il quadro interpretativo più calzante per inquadrare l’angoscia radicale del pensiero postmoderno, il terrore della perdita del sé.

Note.

[1] Del resto, non è un fatto nuovo che etica ed economia siano strettamente legate e s’influenzino reciprocamente. Un’analisi sociologica di questo tipo è ormai classica e risale ai tempi in cui Max Weber, in L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, ha saputo illuminare le dinamiche di rapporti e interconnessioni tra l’orizzonte culturale e assiologico e il piano delle pratiche e delle tecnologie di produzione che s’inscrivono in quel determinato orizzonte di significati e di valori. Del resto l’etica altro non è che il corpus di condotte che vengono prescritte in base a un’articolazione di valori e credenze poste a loro giustificazione e fondamento.

[2] TURNER, Victor, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 79-80 (ed. originale, From Ritual to Theatre: The Human Seriousness of Play, John Hopkins University Press, Baltimora, 1982).

[3] BAUMAN, Zygmunt, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002 (ed. originale: Liquid Modernity, Polity, The University of Chicago Press, Chicago, 2000).

[4] VAN GENNEP, Arnold, Les rites de passage, Picard, Paris, 1909

[5] EHREMBERG, Alain, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 1999 (ed. originale: La fatigue d’etre soi. Dépression et société, Odile Jacob, Paris, 1998).

[6] LEWIN, Kurt, Teoria dinamica della personalità, Giunti, Milano, 2011 (ed. originale: A Dynamic Theory of Personality, MHE, New York, 1935).

[7] HERBERT-MEAD, George, The Individual and the Social Self, University of Chicago Press, Chicago, 1982.

[8] FOUCAULT, Michel, La volonté de savoir, Histoire de la sexualité, tome I, Gallimard, Paris, 1976.

[9] Foucault ha elaborato un metodo di analisi che non è riducibile alla sola disamina storica, proponendosi invece di rintracciare quell’archeologia del sapere che fada matrice e da sfondo alle concezioni consolidate, nate da un determinato ordine di potere, servono a reiterare saperi, pratiche, tecnologie e rapporti di forza che confermano lo status quo. Sulla base di questa ricerca archeologica egli elabora poi una genealogia delle rappresentazioni che, sulla scorta della genealogia della morale ripresa da Nietzsche, individua o snodi e punti di svolta nel processo storico che ha portato al loro attuale consolidamento. Si tratta dei due metodi speculativi che guidano tutta la ricerca foucaultiana. L’archeologia è il metodo che porta alla luce quel sapere implicito alla società (episteme) che fonda tutte le istituzioni, le pratiche, i saperi, i valori e i giudizi prodotti in un determinato orizzonte. La genealogia è intesa come l’analisi delle pratiche e dei saperi che hanno determinato l’evoluzione di un determinato meccanismo di potere. Per l’approfondimento si rimanda a FOUCAULT, Michel, L’ordre du discours, Gallimard, Paris, 1970.

[10] FOUCAULT, Michel, La volonté de savoir, Histoire de la sexualité, tome I, Gallimard, Paris, 1976, p. 58.

 

Figure e forme della desoggettivazione contemporanea: dalla crisi del soggetto postmoderno alla non-soggettività della demenza. 1/Quel che resta dei Lambert

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Mark Manders, Dry Head on a Wooden Floor (dettaglio), 2015
Mark Manders, Dry Head on a Wooden Floor (dettaglio), 2015

Vorrei partire da un libro, anzi da un romanzo, nel senso più pieno che questa parola esprime: opera letteraria, racconto ma anche frammento narrativo che illumina una realtà sociale più ampia. Nel 2001, poco prima che il crollo delle Torri Gemelle cambiasse radicalmente gli orizzonti di pensiero, le interpretazioni della storia e i valori di un mondo sempre più americanizzato, esce negli Stati Uniti uno dei capolavori indiscussi della letteratura contemporanea, Le Correzioni di Jonathan Franzen.[1] Questo intervento, lungi dal proporre una recensione dell’opera letteraria, intende soffermarsi sui singoli personaggi descrivendoli come degli idealtipi storico-sociologici delle forme di desoggettivazione contemporanea.

Le correzioni è la storia della famiglia Lambert che ruota intorno alla demenza senile del dispotico pater. Si tratta di una tipica famiglia mononucleare nata nel solco dell’America anni Cinquanta, vissuta tra gli agi dell’alta borghesia e i più ferrei valori repubblicani. La madre, casalinga, è depositaria di un sentimentalismo domestico che finisce per permeare la vita dei figli obbligandoli a un’incessante finzione emotiva; a sua volta il padre, ingegnere ferroviario, è il responsabile del mantenimento materiale ed economico e, totalmente estraneo alla dimensione affettiva e relazionale, sceglie di prender parte come semplice comparsa, cinica e boriosa, alla messa in scena di questa patetica epopea familiare.

Enid e Alfred, entrambi avulsi dalla realtà esteriore e interiore del mondo che li circonda, designano due modalità opposte di un’equivalente alienazione, che nega conflitti ed angosce annientando ogni possibilità di riparazione. Lei, chiusa in un pietismo compulsivo e in un feticismo cerimoniale, erge il Natale a evento sacro atto a celebrare una finzione di pace domestica e di armonia familiare. Lui, inasprito da una vita votata alla carriera, disprezza ogni forma di sentimentalismo e non mostra affetto né il benché minimo apprezzamento per i propri cari. La demenza lo coglie senza quasi che se ne accorga, come atto finale e diretta conseguenza del suo cinico e consueto isolamento. E così non fa altro che passare le sue giornate sprofondando in poltrona, di fronte all’odio malcelato della moglie e chiuso nella prigione di un eterno presente di demenza, quasi a voler sfruttare beffardamente la situazione per tenere in scacco l’intera famiglia.

Franzen colloca l’origine della famiglia in un famigerato paesino del Midwest, St Jude, nome di fantasia che incrementa il valore rappresentativo del racconto. Qui l’autore affronta la questione, tipicamente postmoderna, della precarizzazione delle esistenze individuali in seguito alla crisi dei criteri di definizione delle soggettività del passato. Siamo alle prese con personaggi letterari che agiscono sullo sfondo di un orizzonte condiviso. Il mondo dei Lambert diventa uno scenario narrativo, nato dall’unione tra fiction e realtà, entro cui i personaggi si muovono come figure astratte di una configurazione formale. La storia dei Lambert diventa così la storia di ogni comune esistenza che si sviluppi in quelle particolari circostanze, in quei luoghi e tempi solo genericamente delineati e privati dei riferimenti concreti che ne avrebbero limitato l’effetto di esemplarità. Dal punto di vista stilistico, tale espediente congela i personaggi in un determinismo storico-biografico che pesa sulle loro teste come un macigno, minando ogni istanza d’individuazione soggettiva.

Mark Manders, Unfired Clay Torso, 2014-2015
Mark Manders, Unfired Clay Torso, 2014-2015

Ogni capitolo è dedicato a un solo personaggio, di cui vengono delineati i tratti biografici salienti all’incrocio con le vite degli altri protagonisti della storia. Questa cesura strutturale serve a definire i personaggi come sistemi chiusi e tra loro incomunicabili. Il romanzo si apre con la storia di Cheap, un accademico grossolanamente foucaultiano, un nichilista patinato, scanzonato e fuorilegge, un edonista maniacale che celebra la morte del soggetto come Nietzsche aveva sancito la morte di Dio. Figura d’eccellenza del libertinismo intellettuale, Cheap viene radiato dalla professione universitaria per aver allacciato una relazione compromettente con una studentessa. Si trasferisce a Vilnius, terra promessa del vizio e della speculazione finanziaria, dove sopravvive da dandy rivoluzionario e stravagante, prima di tornare a St Jude a passare il Natale per l’ultima e definitiva riunione familiare. Ma nonostante questa sua ribellione scanzonata e imperitura, in aperto contrasto con il rigido bigottismo della sua famiglia, Cheap esercita su tutti un fascino magnetico e irresistibile. Nessuno sembra resistergli, nemmeno il padre che, nel delirio della demenza senile, non fa che pronunciare il suo nome come un mantra e, insieme, come condanna oracolare.

Persino Gary, che pur vive in eterna rivalità con il fratello minore, non riesce a emanciparsi dal confronto con Cheap. Figlio maggiore, il più rispettabile e devoto, ha seguito le orme del padre e obbedito alle norme della madre, diventando così un uomo d’affari di successo, un marito e un padre irreprensibile ma eternamente insoddisfatto, vincolato ad una vita infelice e assillato da un senso del dovere ch’egli somatizza in una depressione cronica e priva di scampo. È la sorella Denise a intercedere nella relazione tra i fratelli. Perfetta eroina contemporanea dell’autoaffermazione e della conquista del sé, persegue i propri valori individuali al di là degli schemi di classe e delle imposizioni sociali. Infatti, dopo una breve parentesi erotica con un collega attempato e disgustoso, lascia il posto d’impiegata nell’azienda del padre e diventa una cuoca professionista di grande fama. È in uno dei ristoranti di lusso in cui lavora che incontrerà la coppia di coniugi con ciascuno dei quali intratterrà due relazioni adulterine. Grazie alla sua imperterrita e instancabile ricerca di se stessa, Denise ci svela il carattere convenzionale delle definizioni di classe che presiedono ai destini e ai desideri professionali, ma anche il determinismo implicito che solitamente condiziona le preferenze sessuali e le relazioni affettive.

La storia dei Lambert narra il passaggio irrisolto da quelle forme di soggettivazione, che ancora risultano fondate sui valori piccolo borghesi trasmessi dalla famiglia tradizionale, ai nuovi modelli d’individuazione del soggetto, che fanno leva sulle istanze di libertà e autoaffermazione promosse dal clima culturale emergente. Di entrambi questi modelli, tuttavia, si svela il carattere illusorio e ancora una volta prescrittivo. Gli standard di felicità fissati in passato sembrano ormai talmente idealistici da essere irraggiungibili, generando sofferenza, insoddisfazione e senso di inadeguatezza. In questa impasse si trova Gary, che non riesce a trovare un equilibrio tra ciò che vuole per se stesso e ciò che ha imparato a considerare il meglio per lui. Ma è Enid a incarnare e difendere questo modello ormai anacronistico e stantio, diventando una specie di antieroe in cui il lettore contemporaneo non riesce a riconoscersi almeno fintanto che, giunto alle ultime righe dell’ultima pagina, la donna, senza sentire il peso degli anni ma anzi liberata dal fardello del marito, dichiara finalmente di voler cambiare. Non sapremo mai dove questa volontà di cambiamento la porterà, né cosa Enid voglia davvero diventare. E tuttavia basta quel solo flebile anelito verso il futuro a farcela apparire sotto una luce diversa, una luce che finalmente apre le porte, per così dire, allo spirito postmoderno.

All’opposto, Cheap e Denise, rappresentano le figure narrative esemplari dell’attuale precarizzazione delle esistenze, incarnando a pieno titolo il ruolo di pionieri della cultura postmoderna. Denise sembra non curarsi della brillante carriera che le propone il padre per poi scegliere autonomamente una professione meno prestigiosa che la porterà invece a sperimentare la fama e il successo. Se perde tutto non è per un’insoddisfazione lavorativa ma perché si rivela incapace di frenare le ingerenze della sfera privata e sentimentale in quella pubblica e professionale. Quanto a Cheap, egli rifiuta del tutto di piegarsi alle norme della società fino a spingersi oltre i limiti della legalità e finendo nel giro della criminalità, dello sfruttamento della prostituzione, della droga e della speculazione finanziaria di livello internazionale. Entrambi i fratelli, che maturano un sodalizio elettivo del tutto particolare, non si riconoscono nei valori che avevano scandito la loro infanzia e che avevano soffocato le rispettive spinte vitali. Convinti sostenitori di un’etica centrata sull’autodeterminazione soggettiva e ostili all’addomesticamento operato dalla società, sperimentano diversi ruoli e identità, resistendo all’eterodefinizione normativa dei soggetti, imposta dalla società e dai valori del passato.

Le correzioni è un romanzo liminale, un libro cerniera che raccoglie gli esiti del postmodernismo anni Novanta per aprire a una postmodernità successiva e ulteriore. Un libro che prende atto della crisi del modello capitalista, fondato sulla produzione industriale e sul nesso ideologico tra attività professionale, classe sociale e pratiche di consumo. E’ un libro che fa i conti con la morte di un mito, quello dell’antropocentrismo individualistico, che l’epoca delle lotte per i diritti civili e politici degli anni Settanta aveva abbracciato come possibile via d’accesso alla liberalizzazione dell’individuo e che la self-made-man economy degli anni Ottanta aveva invece declinato in chiave neoliberista, stabilendo la falsa credenza di una connessione reale tra consumismo e libera scelta.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Decolonizzazione, si consolida il modello economico neoliberista, rivisitato in chiave neocapitalista di segno marcatamente statunitense. Almeno in quello che viene chiamato il Primo Mondo, ridotto a blocco unico che ancora oggi abbiamo tendenza a identificare con l’Occidente, si diffonde una cultura di riferimento omogenea che, grazie alla democratizzazione del potere di acquisto e alla speculare limitazione di quello politico e civile, sembra far prevalere le istanze individuali su quelle politiche e sociali nell’ambito delle priorità che definiscono il senso dell’esistenza. Da questo momento la contemporaneità si caratterizza per una chiara e netta tendenza all’individualizzazione, che s’impone al mondo come modello culturale dominante durante l’epoca della Guerra Fredda e, soprattutto, in seguito al crollo del muro di Berlino e al fallimento del programma socialista sovietico. Ma erano stati gli anni Ottanta ad aver definitivamente imposto l’ideologia individualista, incarnata in figure quali lo yuppie newyorkese o il self-made man di Manhattan, che trovano nei valori del profitto, della carriera e della moda come massificazione del gusto, gli ingredienti indispensabili del consenso e del prestigio sociale, raggiunto attraverso l’illusione di un’autoaffermazione creativa e idiosincratica. In altre parole, già a partire dagli anni Ottanta assistiamo al trionfo del neocapitalismo culturale che esalta quei processi di soggettivazione basati sui miti del successo, dell’efficacia produttiva e della concorrenza interpersonale come unica via per l’autorealizzazione.

Tuttavia, come diceva Dumont riprendendo Tocqueville,[2] l’individualismo non è l’ideologia che difende il potere dell’individuo, ma un’istituzione fondata sull’illusione che l’individuo abbia potere. E infatti, già a partire dagli anni Novanta, i nodi dell’inganno neoliberista cominciano a venire al pettine. Gli anni Novanta, pur sposando il modello culturale precedente e continuando a esaltare l’individualismo, pongono le basi della sua irrimediabile ridefinizione, aprendo le porte alle incertezze del postmodernismo. E’ proprio negli anni Novanta, infatti, che comincia a imporsi il processo di precarizzazione dell’esistenza in aperta antitesi con il mito della sua incondizionata autonomia e autodeterminazione. I valori del neoliberismo vengono intaccati dalla nuova configurazione sociale in cui il soggetto si dissolve proprio mentre tenta di affermarsi. Si tratta di una configurazione socioeconomica in cui gli attori interagiscono in una rete d’interconnessioni sempre più diffusa e complessa in cui le poste in gioco cominciano a sfuggire al sapere/potere del singolo, impegnato a vivere in un contesto di relazioni quotidiane circoscritto.[3]

Di fronte a questi nuovi orizzonti non solo vengono demistificati i principi di autodeterminazione individuale e libertà incondizionata, ma ad essere intaccati sono gli stessi criteri di definizione del soggetto: l’ideale del il self-made man comincia a sgretolarsi di fronte alle sfide poste da un sistema economico e sociale sempre più complesso, in cui la distribuzione delle risorse economiche e politiche non si gioca più sul piano delle scelte più o meno egualitarie di ogni singolo stato, ma deriva dalla gestione dei rapporti di potere da parte di organismi istituzionali sempre più delocalizzati.[4] Una politica che non esercita più alcun controllo sull’economia, a sua volta sempre più volatile e immateriale,[5] è alla base della profonda spirale di precarizzazione dei contratti e di deprivazione dei diritti sul lavoro a cui assistiamo dall’inizio degli anni Duemila. Ciò rende del tutto velleitari gli sforzi di ottenere successo in ambito lavorativo, in una società che assegna ancora il valore dell’individuo in base al grado di riuscita professionale.

Note

[1] FRANZEN, Jonathan, Le correzioni, Einaudi, Torino, 2005 (ed. originale: The Corrections, FSG, New York, 2001).

[2] DUMONT, Louis, Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Adelphi, Milano, 1993 ( ed. originale: Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne, Seuil, Paris, 1991).

[3] La relazione tra sapere e potere è ben nota ai lettori di Foucault ma qui si suggerisce di pensare piuttosto alla dicotomia tra tattica e strategia in De Certeau che del resto, proprio a questo proposito, riprende il concetto benthamiano-foucaultiano del panopticon. Per un approfondimento del tema si veda: DE CERTEAU, Michel, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001( ed. originale: L’invention du quotidien, UGE, Paris, 1980).

[4] Come afferma Bauman, l’internazionalizzazione dell’economia industriale e finanziaria ha prodotto la denazionalizzazione del potere politico su scala mondiale: oggi la vera partita del potere si gioca sul terreno dell’economia che tuttavia, essendo sempre più globale, risulta totalmente scollata dal tessuto socioeconomico e relazionale relativo a ogni specifico contesto locale. In questo modo gli organismi internazionali e le imprese multinazionali che hanno libertà di movimento e capacità di manovra globali diventano i principali attori della vita politica mondiale, influenzando anche il contesto locale senza tuttavia rimanerne implicati. Si delinea per questi soggetti di potere un’autonomia e un’autorità che Bauman definisce glocale. D’ altra parte, l’ingerenza della dimensione globale nella vita delle persone che si muovono nel solo contesto locale delle loro relazioni quotidiane, finisce per modificare gli assetti politici dei singoli Stati. Assistiamo cioè a una crisi interna al modello democratico e in particolare al principio per cui il potere dello Stato, attraverso il dispositivo elettorale, resta sottoposto a un meccanismo di controllo fondato sulla richiesta di consenso da parte dei cittadini, piuttosto passivo ma pur sempre passibile di essere revocato. Si veda in proposito: BAUMAN, Zygmunt, Dentro la globalizzazione, le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma – Bari, 1999 (ed. originale: Globalisation: The Human Consequences, Columbia University Press, New York, 1998). Per quanto concerne invece l’impatto dei “flussi culturali globali” tipici di una società di massa sempre più mediatizzata e deteritorializzata sulle realtà locali ed indigene, si veda: APPADURAI, Arjun, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001 (ed. originale: Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996).

[5] APPADURAI, Arjun, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001, p. 68

 

Pratiche memoriali e narrazioni commemorative: la costruzione dell’identità collettiva nelle performance politiche della contemporaneità/3

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In queste ultime battute presentiamo alcune note conclusive che rappresentano un primo tentativo di generalizzazione sistematica e formale delle pratiche memoriali. Soffermandoci sulle performance che sono state osservate, descritte e analizzate, sembra possibile tracciare un continuum performativo dell’identità collettiva su cui collocare le diverse pratiche memoriali in base al senso di appartenenza e coesione sociale da esse sprigionato e alla loro capacità di far leva su quei valori condivisi che cementificano la coscienza collettiva. I due esempi trattati si collocano ai poli opposti di questo continuum. La parata militare durante il giorno della Festa Nazionale si trova al gradino più basso. La sua funzione è di rievocare l’atto fondatore della Nazione per celebrarne l’intera storia. L’istanza identitaria della performance si assottiglia accontentandosi di fare accenno a un evento atavico che perde il proprio peso storico per assurgere al ruolo di mito della Nazione. Si tratta, infatti, di un passato troppo remoto perché susciti il bisogno di ricostruire un suo significato presente e ciò argina la forza d’identificazione collettiva e limita il coinvolgimento emotivo.

Tra l’evento e la performance che designa l’evento si stabilisce quindi un rapporto puramente nominale, a-narrativo: la sfilata non serve a ridefinire una versione politicamente orientata e moralmente accettabile dell’evento storico ma si limita semplicemente a denominarlo. La mitizzazione del passato remoto produce una narrazione universalmente condivisa, profondamente consolidata e da tempo sedimentata nella coscienza collettiva. La cerimonia ha solo uno scopo monumentale e contemplativo rispetto a un passato che si riversa nel presente come per riflesso. I principi nazionali cui la performance si richiama sono dati per scontati, sono stati ampiamente interiorizzati e non pongono più alcun dubbio morale; perciò non richiedono una precisa ridefinizione politica. Se ci rifacessimo alla dicotomia proposta da Schechner tra quelle performance in senso stretto (“is” performance) e le performance in senso lato (“as” performance),[1] potremmo dire che la Festa Nazionale è una performance in senso stretto, meramente percepita come spettacolo che si adegua più ai canoni estetici della contemplazione che a quelli etici della partecipazione. Come ogni spettacolo che non sia tecnicamente riproducibile, essa comunica un senso di urgenza: spinta inevitabilmente verso la dissoluzione di sé, la cerimonia della Festa Nazionale si risolve nella fugacità di un evento che esiste solo per essere fruito. La parata, che deriva dal verbo parare, è infatti per sua definizione ciò che viene esibito, la cui essenza si esaurisce nell’atto medesimo del mostrarsi.

Al contrario, le cerimonie di commemorazione degli attentati di Parigi sono un formidabile esempio di come i rituali di commemorazione delle tragedie umane, così straordinariamente violente da sfuggire all’attuale ordine del pensabile, siano funzionali alla costruzione di una narrazione storica dell’evento basata sui valori condivisi posti a fondamento dell’identità collettiva. Come già stato accennato, lo scopo insito e inconsapevole, di cui il dispositivo rituale della commemorazione si fa carico, è di sollevare il proprio gruppo di appartenenza dalle responsabilità e da ogni possibile implicazione con l’avvenimento, percepito come il prodotto di un ordine a-morale totalmente altro. Le cerimonie di commemorazione sono quindi delle performance in senso lato, delle “as performance” direbbe Schechner,[2] dove l’ordine politico che definisce la narrazione su cui l’intero rituale si fonda si cela dietro un aspetto di apparente oggettività. La finzione retorica intrinseca in ogni performance narrativa risulta ancor più latente proprio nelle “as” performance, laddove cioè il contenuto performativo del rituale non viene riconosciuto dal gruppo che ne stabilisce e ne legittima la presenza: i partecipanti all’avvenimento non si percepiscono come spettatori o fruitori di uno spettacolo ma come partecipanti fortemente coinvolti e soggettivamente responsabili dell’andamento rituale.

Tale dinamica narrativa che scorre sul fondo del rituale commemorativo si palesa, a nostro parere, proprio in occasione delle cerimonie di commemorazione che hanno reso omaggio alle vittime degli attentati di Parigi. Infatti, il loro ricordo doloroso bruciava ancora così vivido e palpabile da non dover necessariamente richiedere un atto di memorializzazione collettiva per essere rievocato, soprattutto a seguito della seconda ondata di attacchi terroristici che hanno riaperto vecchie ferite e inciso cicatrici ancora più indelebili. Sembra quindi che un altro criterio sia stato cruciale nel definire l’urgenza della commemorazione. In altre parole, la prossimità con l’evento e l’intensità emotiva provocata dall’ultima tragedia rendono impossibile sostenere che si sia trattato di commemorare gli attentati in quanto evento strettamente storico. Per essere oggetto di commemorazione l’evento ha dovuto subire un processo di storicizzazione o, potremmo anche dire, di narrativizzazione storica: malgrado l’innegabile prossimità fattuale, psicologica e sociale, la sua narrazione ufficiale è stata immediatamente proiettata in una dimensione di oggettività storica e fattuale.

Ricapitolando, mentre le celebrazioni durante la Festa Nazionale si rapportano all’evento storico rievocato nella modalità della designazione nominale, le commemorazioni dei recenti attentati di Parigi richiedono un processo narrativo di ricostruzione e reinterpretazione dell’evento. Nel primo caso la mitizzazione di un passato storico che diventa fondatore dell’identità nazionale, produce una definitiva cristallizzazione dell’interpretazione ufficiale senza che nessun altro processo politico e performativo debba intervenire per definirne la narrazione. In questo caso non esistono altre versioni che concorrono con quella ufficiale, l’avvenimento non è ricordato nei sui tratti emozionali ma per il suo carattere prettamente monumentale, la rievocazione dell’avvenimento non minaccia il senso di appartenenza e la performance rituale che ne scaturisce avrà una funzione puramente estetico-celebrativa; in ultimo, i valori dell’identità collettiva che legittimano lo stato di potere non dovranno essere ricostruiti ma solo riconosciuti e ribaditi.

Invece, nel secondo caso la storicizzazione della recente tragedia dimostra la necessità di costruire un’interpretazione narrativa, operata in seno alla performance commemorativa, che faccia leva sulla compartecipazione al dolore e sul ricordo del lutto collettivo. Come abbiamo visto, tale performance narrativa ha una funzione politica ben precisa ma latente: rinsaldare i valori condivisi che sostengono il senso d’identità collettiva in cui si devono riconoscere i membri della Nazione. Non a caso, al dolore della perdita di propri concittadini, alla vicinanza con i familiari delle vittime, all’identificazione psicologica con coloro che più direttamente sono stati coinvolti nella tragedia subendo le conseguenze fisiche e psicologiche di un vero e proprio massacro, si è accompagnato un sentimento di rabbia nei confronti degli attentatori per aver messo in discussione proprio quei principi fondamentali all’origine del concetto di Nazione[3].

L’’evento commemorato è rappresentato in modo tale da rinsaldare il giudizio positivo sul proprio sé condiviso. In quanto atto celebrativo, non esiste una commemorazione in onore degli sconfitti così come non può esistere una commemorazione che celebri le imprese, seppur tecnicamente complicate, dei carnefici: solo la commemorazione di vittime o i vincitori è resa possibile e pensabile. Ciò significa che uno stesso avvenimento può cambiare di segno secondo il ruolo assunto in quell’occasione dal gruppo di appartenenza.  È proprio in questo che consiste il valore politico dell’avvenimento rappresentato. La performance commemorativa assume una valenza politica, permettendo di costruire e di affermare un’immagine moralmente apprezzabile del gruppo e riconfermando così lo stato di potere che l’ha definita. L’obiettivo politico rimosso dal rituale è di evitare che delle versioni alternative dell’evento possano aprire uno spiraglio a uno spirito potenzialmente contestatore o in contrasto con lo status quo.

In questo caso si è trattato di soffocare sul nascere qualsiasi presa di coscienza e razionalizzazione rispetto alle problematicità e contraddizioni insite nella società francese. Gli attentatori sono stati subito catalogati secondo i tratti di origine, provenienza e appartenenza religiosa, rimuovendo quegli attributi di cittadinanza e appartenenza sociale che potessero rivelare i loro rapporti di filiazione nazionale nei confronti della Francia. Inoltre il terrorismo, definito islamico e spogliato della sua valenza politica, è servito e serve tuttora a ripudiare una mostruosità assegnata all’altro e a designare un male che si pensa provenire da un ordine esterno percepito come alieno. Non a caso, l’islamofobia è occorsa fin da subito a definire una linea di demarcazione netta tra identità nazionale (laica, razionale, civile) e alterità religiosa (fondamentalista, irrazionale, incivile), al fine di deresponsabilizzare la Nazione e ri-legittimare la sua autorità morale rispetto alla tragedia.

Appare ormai chiaro che le pratiche memoriali rappresentino un terreno di analisi privilegiato per esaminare la natura performativa dell’identità collettiva. Al massimo grado di performatività identitaria troviamo le cerimonie di commemorazione; le spettacolari celebrazioni militari durante la Festa Nazionale, invece, si collocano all’ultimo livello di quella scala ideale delle pratiche memoriali rispetto alla costruzione dell’identità collettiva. La costruzione di una narrazione storica dell’evento occorre nel primo caso, laddove nel secondo si assiste piuttosto alla mitizzazione di un evento remoto percepito come fondatore. La commemorazione chiama quindi in causa il potere politico che definisce l’ordine morale su cui fondare l’identità collettiva.

Note.

[1] Richard Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002, p. 102.

[2] Ibidem.

[3] Non a caso la prima risposta all’attacco terroristico contro la sede di Charlie Hebdo era stata la grande marcia dell’11 gennaio 2015 in favore della libertà di stampa e di espressione, salutata con rispetto da cittadini e autorità politiche di tutto il mondo, cui parteciparono più di un milione e mezzo di persone.

Bibliografia

  1. L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge USA, 1962.
  1. De Certeau (1987), Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

É. Durkheim, De la division du travail social, PUF, Paris, 1893.

  1. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969.
  1. Foucault, Histoire de la sexualité, vol.1 : La volonté de savoir, Gallimard, Paris, 1976.
  1. W. F. Hegel (1820), Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it, Laterza, Roma-Bari, 1979.
  1. Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002.

V.Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986.

 

Pratiche memoriali e narrazioni commemorative: la costruzione dell’identità collettiva nelle performance politiche della contemporaneità /2

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Nella Festa Nazionale i partecipanti non hanno in mente un vero e proprio evento chiaro nei suoi contorni e nelle sue valenze storiche, ma richiamano alla mente un avvenimento fondatore che serve solo a rievocare gli albori della Nazione e l’orizzonte simbolico che vi è alla base. Nelle cerimonie di commemorazione si tratta invece di riformulare e ribadire quei valori fondamentali che sono resi vividi dal ricordo del passato, riattualizzato nella dimensione del presente. Persino gli eventi più recenti possono elevarsi al rango del ricordo commemorativo, sebbene non appartengano a un passato così distante da poter essere definito in termini strettamente storici. Il criterio fondamentale affinché un fatto sia degno di commemorazione non riguarda tanto la distanza storica, quanto più il suo potenziale rievocativo riguardo a quei valori condivisi che fondano l’identità collettiva della Nazione. Anche gli avvenimenti ancora molto vicini a noi possono allora essere sottoposti a un processo di storicizzazione e trasformati in oggetti di celebrazione. Si pensi in particolare alle cerimonie di commemorazione che si sono tenute nella città di Parigi lo scorso gennaio in memoria delle vittime dell’attentato del 7 gennaio 2015 contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo e al successivo attacco terroristico del 9 gennaio 2015 nel supermercato Hyper Cascher.

Siamo-tutti-francesi-400x300L’assenza di una distanza storica dall’evento palesa il livello di fictionarizzazione dell’avvenimento. La storicizzazione di un evento tanto recente dimostra che la commemorazione non serve solo da richiamo oggettivo di un passato che coinvolge i membri del gruppo, ma rappresenta piuttosto l’occasione di mettere in scena una performance politica di costruzione dell’identità che si serve del ricordo per promuovere un’immagine del sé il più possibile coerente con i valori dominanti e capace di rinsaldare i miti iscritti nella memoria collettiva. Il racconto storico è percepito come tale dalla comunità ma inglobato nella sfera delle occorrenze fattuali. È la legge a fondare la salienza dell’evento e la sua stessa esistenza storica agli occhi del gruppo. Già Hegel aveva notato come un genuino resoconto storico debba mostrare non solo una certa forma narrativa ma anche un determinato ordine politico che motiva e sorregge l’intrigo narrativo.[1] Inoltre, il soggetto che presenta testimonianza come fosse il racconto della realtà proferito dalla realtà stessa, è per Hegel lo Stato.[2] L’autorità legale che in Foucault incarna un potere politico autonomo rispetto al soggetto e indipendente dalla sua natura d’individuo.[3]

In una prospettiva costruttivista che vede l’identità come il risultato di un processo più che come un’entità specifica e delimitata da precisi confini spazio-temporali, si può parlare di una vera e propria finzione narrativa prodotta attraverso un processo performativo. Parleremo allora di performance politica dell’identità collettiva come versione ufficiale del passato che si costruisce nel momento stesso della sua rappresentazione pubblica. L’approccio teorico qui adottato dà forma a delle ricerche antropologiche che uniscono la memoria storica e collettiva in uno stesso processo performativo. La performance è definita da Schechner che si rifà alla sociologia drammaturgica di Goffman, come la rappresentazione di un comportamento del passato (restored behaviour) che mira a rappresentarlo sulla scena pubblica, ricostruendolo, portandolo a pieno compimento, per farlo infine rivivere nel presente.[4]

Noterrorismo-445x250L’identità diventa così il frutto di più processi del sé, mimati e agiti di fronte a un pubblico di astanti, siano essi parte attiva o passiva della performance. In altri termini, lo sviluppo poietico del sé (costruzione dell’identità) è posto in essere e realizzato compiutamente nel momento stesso in cui se ne dispiega la mimesi (rappresentazione dell’identità). Per questa ragione nell’ambito dell’identità è impossibile separare il processo di costruzione del sé dal risultato di tale processo: il sé in quanto tale non esiste e non si realizza se non nel medesimo istante della sua rappresentazione. Se la performance del sé è contemporaneamente une mimesis e una poïésis dell’identità, il miglior candidato a rendere conto di questa prospettiva costruttivista è il modello performativo della narrazione che durante le commemorazioni degli ancora più recenti attentati di Parigi, la cui estrema vicinanza provoca ancora oggi un forte sentimento d’identificazione, ha assunto toni particolarmente intensi ed accorati.

Dopo appena un anno dagli avvenimenti, per un’intera settimana dal 4 al 10 gennaio, si sono succedute numerose cerimonie di commemorazione organizzate a fini politici dall’attuale governo di Centrosinistra e quindi riversate nei modi più spettacolari nelle piazze e nelle strade della capitale, così come in altre città francesi. Il Presidente della Repubblica François Hollande ha scoperto le targhe commemorative dislocate in diversi punti della città per rendere omaggio alle vittime del terrorismo islamico. Nella giornata del 10 gennaio, dedicata all’omaggio del popolo francese alle 149 vittime dei djihadisti a Place de la République, ho personalmente assistito alla cerimonia di commemorazione. Si è trattato di un vero e proprio rituale laico che ha assunto i contorni di una funzione religiosa, ricca di riferimenti a quell’ideale di convivenza sociale marchiato dai valori della Repubblica e della Nazione. “Libérté, Egalité, Fraernité” il famoso trinomio repubblicano alla base di quel secolarismo imperante che caratterizza l’identità nazionale francese, fungendo quasi da contraltare laico al principio della trinità cristiana, si è tramutato per l’occasione in un inno religioso capace di rinsaldare e di ribadire l’unione sacrale tra i membri del gruppo.

A differenza della Festa Nazionale che prevede un rigido schema comportamentale plasmato sulla divisione netta tra attori e spettatori, qui il confine si fa fluido e negoziabile e ogni individuo è libero di esprimersi in molteplici idiosincrasie della commozione. Qui non esistono demarcazioni tra le equipe e ognuno, assecondando il proprio sentimento individuale e la propria volontà di partecipazione, può decidere di agire in qualsiasi momento. Anche il semplice raccoglimento prende i caratteri di un’azione in senso proprio perché frutto di una decisione individuale dettata dalle proprie condizioni soggettive. Se i gesti istituzionalizzati delle autorità sono sottoposti a un rigido schema rituale, dal punto di vista degli astanti la performance commemorativa non prevede una codificazione dei gesti e dei comportamenti, limitandosi a stabilire la norma sacrale della compartecipazione emotiva al lutto collettivo.

È in questa cornice simbolica e psicologica che ogni individuo si fa carico della performance in atto, mettendo in gioco la propria soggettività: la sola presenza sullo spazio rituale fa in modo che l’individuo si percepisca come soggetto reale d’azione, pensiero, sentimento ed emozione; e tutto questo in un’intensa atmosfera di compartecipazione emotiva e sacrale che si accompagna a un raccoglimento condiviso capace di unire i soggetti facendoli interagire tra loro. Tuttavia, la malleabilità comportamentale della performance è disciplinata da una gestualità che risponde ai parametri socializzati e comunemente accettati dell’espressività del dolore e che si rifà direttamente a un codice corporeo ed emotivo che è tipico delle cerimonie funebri. Le lacrime, in particolare, diventano il canale privilegiato di espressione dell’emotività che si dipana dai corpi dei commemoranti.

In un’atmosfera di evidente commozione generale e di forte sentimento di partecipazione pubblica, sono state dispiegate numerose risorse materiali e psicologiche, che hanno disegnato un complesso scenario rituale ricco di oggetti pregni di un senso profondo dal punto di vista simbolico e spirituale. Tutto un armamentario votivo di vivificazione della memoria, è stato mobilitato dai partecipanti all’avvenimento e disseminato lungo le strade dell’undicesimo arrondissement, tra Place de la République e le sponde del Canal Saint-Martin:[5] cartelloni, bigliettini, bandiere, fiori, poesie, frasi, amuleti, disegni e fotografie. Tra questi oggetti rituali spicca, per maestosità e valore sacrale, il grande memoriale anch’esso fatto di fiori, disegni, immagini, foto delle vittime, commoventi dediche in diverse lingue e stili, parole di cordoglio, preghiere, slogan di pace. Posto per diversi mesi a ornamento della Marianna, monumento raffigurante l’allegoria della Repubblica Francese al centro di Place de la République, il memoriale, in quanto dispositivo simbolico e rituale di superamento del lutto collettivo, ha potuto riunire le persone intorno al ricordo degli attentati e a un orizzonte condiviso di senso e di valori, sedimentando un profondo sentimento di compartecipazione e appartenenza.

Queste cerimonie di commemorazione, succedute di poco agli attacchi del 13 novembre, sono servite da enorme cassa di risonanza nella diffusione di un’ideologia che strizza l’occhio all’islamofobia e che rifiuta un’analisi critica sulle responsabilità politiche dell’Europa nella definizione dell’attuale scacchiera geopolitica mondiale, soprattutto in area mediorientale. Puntualmente riprese dai media locali e internazionali, sono state poi riprodotte sulla scena pubblica come un’ulteriore presa di distanza “civile” contro la “barbarie del terrorismo”. Risulta pertanto evidente che la costruzione della identità di gruppo si riduce alla maniera ritualizzata di rapportarsi all’evento storico, in relazione ad un particolare orizzonte di senso e di valori condiviso da i suoi membri la cui legittimità logica ed etica viene ribadita in sede rituale. La costruzione dell’identità collettiva attraverso la celebrazione di un evento storico si richiama quindi a una delle tante narrazioni di tale avvenimento, resa implicita e semplicemente rievocata nello spazio/tempo performativo della pratica memoriale.

D’altra parte, la funzione performativa delle pratiche memoriali nelle società contemporanee è proprio quella di soffocare le spinte autonome di interpretazione dell’evento. L’identità collettiva è quindi costruita e rappresentata nello stesso istante performativo, previo rispetto di alcune condizioni di validità[6] che disegnano lo spazio rituale circonfuso di una dimensione sacrale separata dalla sfera ordinaria della vita quotidiana.[7] Sebbene la pratica memoriale promuova l’istanza di oggettivazione dell’avvenimento rievocato, in realtà sarà piuttosto il suo contenuto morale e politico ad essere al centro di un processo performativo dell’identità collettiva. La ridefinizione politica dell’avvenimento si serve del passato per costruire un’immagine positiva di sé nel presente e consolidare la posizione politica dominante come l’unica capace di difendere i valori fondanti dell’identità collettiva e cui tutti devono aderire per sentirsi membri del gruppo. Si tratta esattamente di ciò che De Certeau chiama «fictionarizzazione dei fatti storici».[8]

Tra le varie pratiche memoriali, la commemorazione delle vittime di atti di violenza ha come fine latente di ostacolare ogni analisi o conoscenza dell’evento storico che si proponga di adottare uno sguardo critico e riflessivo. Ricordare, e farlo in un certo modo politicamente direzionato, diventa un dovere che determina il posto assunto dall’individuo in seno al gruppo. L’interpretazione dominante di un evento, che ha particolarmente colpito la società nel suo insieme, non ammette narrazioni alternative cadendo nell’ambito dell’impronunciabile. Proporre una riflessione critica diventa un vero e proprio tabù, quasi l’abnegazione di un precetto morale. Il fine ultimo non è infatti la riflessione, che implicherebbe il gruppo in un’assunzione di responsabilità, ma la comunione emotiva e religiosa (nel senso di Durkheim). Allo scopo di legittimare il senso di appartenenza a un’umanità superiore in contrasto con ciò che sta al di fuori dello spazio del sé e quindi percepito come estraneo, ogni lettura che renda conto della complessità dei fattori in gioco è rimossa dal campo del pensabile. La spinta sociale alla coesione del gruppo è così forte che la mitizzazione dell’avvenimento rappresentato nei termini di una verità storica diventa l’unico canale per una sua legittima interpretazione.

Pertanto il potere persuasivo della narrazione si attualizza in un intrigo che trasforma i fatti in exempla moralia, che sposta i piani di realtà per adattarli all’ordine assiologico posto a fondamento della trama, per disciplinare infine lo spazio sociale agendo sulla recezione pubblica della storia collettiva così com’è tramandata.[9] La narrazione esercita un potere immenso, che tuttavia sfugge al controllo poiché si presenta come rappresentazione veritiera di ciò che accade o è accaduto.[10] Propria per questo, la società contemporanea costruisce e mantiene la coesione sociale e la coscienza condivisa sulle pratiche memoriali che rievocano i fatti passati e remoti, secondo la loro versione ufficiale, percepiti come dei miti fondatori dell’identità collettiva (Peschanski 2013).

Note.

[1]Georg W. F. Hegel (1820), Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it, Laterza, Roma-Bari, 1979, p. 428.

[2] Ivi, p. 430.

[3] Michel Foucault,  Histoire de la sexualité, vol.1 : La volonté de savoir, Gallimard, Paris, 1976, p. 36.

[4] Richard Schechner, Performance Studies, an introduction, Routledge, New York, 2002, p. 35.

[5] Come si può notare dalla dislocazione geografica della cerimonia qui descritta e delle adunate spontanee che l’avevano preceduta nei giorni immediatamente successivi alla tragedia del 13 novembre, la commemorazione delle vittime di Charlie Hebdo e Hyper Cascher si è confusa con la rielaborazione di quest’ultimo drammatico massacro che ha colpito la città di Parigi proprio nell’undicesimo arrondissement.

[6] John L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge USA, 1962, p. 7.

[7] Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 32.

[8] Michel De Certeau (1987), Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 55.

[9] Seguendo la prospettiva di De Certeau, si consideri che i fatti storici sono inquadrati in una cornice narrativa che esprime un preciso ordine di significato non soltanto cronologico ma anche logico e assiologico: il resoconto storiografico contestualizza l’evento inquadrandolo nelle coordinate antecedenti da cui ha origine; inoltre esso viene presentato, come ogni narrazione, nell’obiettivo di far emergere il sistema di valori consolidato. Anche la storia, infatti, si è tacitamente costituita grazie a un concetto di verità tratto dalla metodologia delle scienze della natura: costruendo l’autenticità delle proprie affermazioni attraverso l’eliminazione di tutto ciò che, posto sotto l’etichetta del falso, entra in contraddizione con le sue verità, ha fondato la propria realtà sul confinamento dell’irrealtà, sull’espulsione dell’alterità e della differenza (Ivi, p. 57).

[10]Ivi, p. 60.

 

Pratiche memoriali e narrazioni commemorative: la costruzione dell’identità collettiva nelle performance politiche della contemporaneità /1

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Nelle società antiche e tradizionali, quelle che Durkheim avrebbe chiamato a solidarietà meccanica[1], la coscienza collettiva e l’identità di gruppo erano forgiate quotidianamente attraverso riti di passaggio e cerimonie collettive che scandivano la vita dell’individuo fino a condizionarne l’esistenza ed esaurire tutte le sue esigenze d’identificazione. L’assunzione dei ruoli era rigida e un senso deterministico di predestinazione plasmava le appartenenze e le sottoappartenenze di ciascun membro della comunità. In effetti, i gruppi erano piuttosto ristretti e il potere socializzante della trasmissione orale particolarmente efficace. Nelle società nazionali contemporanee invece, per definire la coscienza collettiva occorre passare per forme d’identificazione sovraordinate e dispositivi rituali più complessi che si risolvono nella maggior parte dei casi nella rievocazione di fatti storici aventi un grande valore simbolico, intorno cui plasmare il senso di appartenenza nazionale.

Si tratta di quelle pratiche memoriali che celebrano il punto di vista dominante, intorno ad avvenimenti ritenuti centrali nel processo storico di consolidamento della coscienza collettiva nazionale e d’ipostatizzazione politica dello Stato-Nazione. Tali avvenimenti sono oggetto di pratiche memoriali di cui le società contemporanee si avvalgono per rafforzare il senso d’identità collettiva e di appartenenza sociale. Tra memoria storica e identità collettiva si stabilisce un nesso stringente che risulta condizionato dalla possibilità di condividere non solo la storia del gruppo ma anche una particolare versione di essa, quella stabilita e legittimata dal potere. Al contempo, qualsiasi altra versione – o qualunque tentativo di apporre una luce critica sulla narrazione ufficiale del proprio passato – è inibita e resa tabù. È in questo senso che propongo di leggere il significato simbolico e socialmente costruito delle pratiche memoriali come performance politiche di costruzione dell’identità collettiva.

Di seguito saranno proposti due esempi tratti dalla realtà francese[2]. In particolare, saranno messi a confronto due pratiche memoriali distinte fra loro e molto diverse per modi, finalità e grado di spettacolarizzazione e di compartecipazione emotiva. Una prima osservazione è stata condotta partecipando alla Festa Nazionale del 14 luglio, in memoria della famosa presa della Bastiglia che diede inizio alla Rivoluzione del 1789. La seconda cerimonia fatta oggetto di analisi etnografica è temporaneamente precedente ma sarà presentata in un secondo momento avendo deciso, per ragioni teoriche ed esigenze argomentative, di impostare la trattazione secondo un ordine logico piuttosto che cronologico. Si tratta della commemorazione degli attentati di Parigi del sette e del nove gennaio 2015, compiuta a pochi mesi dalla seconda devastante ondata di attacchi terroristici che ha ferito la città, sconvolto il paese e toccato da vicino l’intero mondo occidentale. Tali esempi, di cui saranno opportunamente tracciate le similitudini e le differenze secondo le due osservazioni che ne sono state fatte, non sono stati scelti a caso. Li considero infatti i candidati più adatti a rappresentare i due poli opposti di un medesimo continuum performativo a proposito della costruzione dell’identità collettiva nelle società nazionali contemporanee.

La Fête Nationale Française

fetenationalIstituita con una legge del 1880, la Festa Nazionale francese non sta solo a ricordare la presa della Bastiglia, ma serve anche a rendere omaggio al suo primo anniversario, la cosiddetta Fête de la Fédération, cerimonia di commemorazione realizzata l’anno successivo per inneggiare al tramonto dell’assolutismo dell’Ancien Régime. Una sfilata sugli Champs-Elysées è programmata ogni anno dalle dieci del mattino, dopo lo spettacolare passaggio degli elicotteri militari della Patrouille de France. Prima della parata il Presidente della Repubblica in carica visita e saluta in atteggiamento fiero e solenne i diversi corpi militari che compongono l’esercito francese, sotto gli occhi di pochi volenterosi spettatori venuti di buon’ora per non perdersi gli esordi della cerimonia.

Pian piano però il clima si scalda e le stradine che orlano il celebre e maestoso vialone degli Champs Elysées cominciano a gremirsi di persone di ogni genere, età e provenienza. Cittadini francesi, parisiens o provinciaux, ma anche moltissimi turisti stranieri, si accalcano lungo le transenne, per poi inerpicarsi sulle salite delle strade laterali nella speranza di godere, anche da più lontano, di una buona visuale. Spettatori e attori sono rigidamente separati da una soglia rappresentata dalle transenne che è insieme materiale e simbolica. Il percorso per arrivare all’area predisposta ad assistere alla cerimonia è disseminato di guardie e poliziotti che incanalano il flusso di persone secondo la prassi dei controlli di polizia. Questa dinamica contribuisce a irrigidire la separazione tra spazio scenico e spazio contemplativo. In termini goffmaniani possiamo dire che l’equipe di rappresentazione è distinta dal pubblico in modo univoco e definitivo.

Le prime a sfilare sono le unità di fanteria che marciano a piedi, seguite dall’armata di polizia che sfila a cavallo e dall’armata militare che viaggia invece su i mezzi motorizzati. Verso la fine, i carri armati sono sorvolati dagli elicotteri dell’aeronautica militare. La parata si chiude con la marcia dei pompieri che prosegue tra gli applausi della folla in festa. Durante la cerimonia tutti osservano concitatamente, armeggiando con le apparecchiature fotografiche, i telefonini e i più svariati macchinari di videoregistrazione. Qualcuno si lascia sfuggire un commento o un’esclamazione rivolta al parente, al compagno o all’amico. Il risultato finale è un vociare cacofonico e indistinto, che rimane però flebile e quieto, generando quella torre di Babele delle lingue che è ben nota ai frequentatori più assidui degli spazi pubblici parigini. In silenzio o parlando a bassa voce, il rumoreggiare della folla si fa progressivamente più concitato, rimanendo tuttavia entro i limiti della più rigorosa compostezza. Del resto la conversazione, come modalità d’interazione reciproca, non entra mai a far parte del codice di comportamento collettivo che scandisce la situazione sociale.

Alcune azioni sono esibite con disinvoltura facendo parte di un codice gestuale condiviso. I gesti risultano infatti codificati in un canovaccio ritualizzato e incorporato di movenze predefinite: al passaggio degli elicotteri si punta il dito al cielo enfatizzando l’indicalità del gesto con il naso rivolto all’insù. Spesso al gesto si unisce un’intonazione di sorpresa. I bambini sono particolarmente incitati dagli adulti a ripetere e imitare questo linguaggio del corpo. L’istanza didattica si fa visibile soprattutto in una pantomima gestuale teatralmente esibita nell’intento di trasmettere un vero e proprio corpus di tecniche del corpo predisposte a definire e incanalare un’espressività emotiva normalizzata, caratterizzata dalla tonalità timica dell’entusiasmo e della sorpresa. Questo tecnicismo corporeo raggiunge poi l’apice al passaggio degli aerei che disegnano il tricolore francese aprendo uno squarcio nell’intenso cielo di luglio.

D’un lato all’altro della transenna, le azioni e le reazioni sono scandite da un rigido andamento rituale a cui tutti danno il loro tacito assenso. Questa configurazione è tale per cui non si percepiscono grandi differenze tra nativi e forestieri[3]. Tutti si rapportano all’evento come si fa con un monumento il cui valore storico è condiviso e considerato patrimonio universale. Tutti portano una bandierina plastificata con i colori della Francia stampati a bassa risoluzione sopra un supporto plastificato; tale oggetto rituale, distribuito dai volontari dell’armata di terra, funge da marchio simbolico che identifica gli spettatori passivi distinguendoli dagli attori, protagonisti della cerimonia. Che siano francesi o stranieri, parigini o forestieri, turisti o abitanti del luogo, gli spettatori si attengono tutti allo stesso codice comportamentale, calibrando i propri atti e i propri gesti su quegli altrui in un’interazione distale reciprocamente guardinga, in cui nessuno osa mai davvero invadere lo spazio dell’altro o cedere il passo all’invasione del proprio[4]. In questo contesto la postura nei confronti della cerimonia assume una mera funzione estetica e questo è funzionale agli scopi impliciti del rituale.

14-juilletSe la spettacolarizzazione della potenza militare messa in scena dalla parata non riesce nell’intento di spogliare definitivamente gli armamenti e le effigi militari del loro contenuto intrinsecamente bellicoso, vero è che i contenuti aggressivi inevitabilmente rievocati sono momentaneamente rimossi nel limitato spazio del cerimoniale, grazie alla messa in atto di un preciso dispositivo rituale che estetizza la violenza trasformandola in finzione scenica e teatrale. Il patriottismo insito della sfilata militare è così disinnescato dalla spettacolarizzazione della potenza nazionale rappresentata dalla bellezza delle sue armate. Si assiste a un’estetizzazione della guerra che ha lo scopo di nobilitarne l’essenziale violenza, per affermare la necessità di difendere la Nazione e i principi di legalità cui essa si richiama, affermando la legittimità militare e cementificando il senso di coesione nazionale. Non a caso sono i pompieri a essere applauditi più degli altri; i vigili del fuoco, infatti, privi degli attributi di attacco e di violenza tipici delle altre formazioni, incarnano i valori di difesa, coraggio e sacrificio senza compromettersi troppo con i tratti semiotici dell’assalto e della guerra. In definitiva, l’ideologia patriottica è come depotenziata dal dispositivo rituale, ma in esso non sparisce del tutto trasformandosi invece in una specie di edonismo estetico della forza nazionale.

A fronte del pieno e tacito consenso del valore estetico della cerimonia, la compartecipazione emotiva è pressoché assente e ciò limita la possibilità di maturare un profondo senso di condivisione collettiva dell’esperienza rituale. Del resto tale istanza non fa parte degli intenti della cerimonia: la singolarità di ciascuno non è centrale poiché la Festa Nazionale non serve a ridefinire ruoli e a tessere identità, siano esse individuali o collettive, ma solo a spettacolarizzare un’adesione ai principi nazionali che preesistono alla cerimonia stessa. Gli spettatori abdicano momentaneamente alla loro individualità perché la dinamica della performance cerimoniale non richiede loro alcun altro contributo che l’espressione codificata di un concitato edonismo contemplativo. Essi prendono parte alla performance più come personaggi che come persone, figure astratte e puramente formali di una configurazione rituale che assume i tratti della spettacolarizzazione teatrale.

Note

[1] Émile Durkheim, De la division du travail social, PUF, Paris, 1893, p. 145.

[2] Il concetto di Nazione è basato sull’identificazione ideologica tra un gruppo, culturalmente e linguisticamente omogeneo, i cui membri si percepiscono come parte di un unico popolo, e il territorio su cui è stanziato e di cui percepisce un senso di proprietà originaria; questo territorio, inoltre, secondo gli ideali democratici, è delimitato dai confini nazionali entro cui il potere dello Stato esercita la sua autorità che idealmente trae origine e legittimazione dal consenso popolare.

[3] I turisti, in particolare, sono particolarmente attratti dalla festa e non si lasciano scappare l’opportunità di vivere quest’esperienza per collezionare un souvenir del viaggio unico e irripetibile. Per il turista compulsivo, tutto preso dalla pratica ansiogena della foto-ricordo, mettersi in posa vicino ai militari o ai carri armati, o farsi un selfie di fianco alle transenne al passaggio della sfilata, è un’esperienza funzionalmente e simbolicamente identica a quella di farsi scattare una foto accanto alla Tour Eiffel o mentre cammina davanti all’Arc du Triomphe. La partecipazione alla Festa Nazionale e l’energia spesa a immortalare l’evento rientrano quindi a pieno titolo tra le urgenze istituzionalizzate del turismo culturale alla scoperta del patrimonio storico-artistico della capitale francese.

[4] Questa trama comportamentale non prevede modalità di espressione dell’opposizione al valore positivo della Nazione; non è logicamente possibile né praticamente attuabile alcuna istanza dissenziente se non l’eventuale rifiuto di partecipazione che tuttavia, in quanto azione invisibile e negativa o negazione stessa di un’azione, non può dare voce ad alcun malcontento che sia minimamente percepibile.

 

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