La cultura materiale odierna è considerata come un insieme di immagini che non appartengono a nessuno ma sono di tutti, di ogni tempo e luogo. L’elemento condiviso oggi non è l’apparenza ma l’uso che ne determina il valore e la moneta di scambio di questo valore è l’immagine o meglio ancora, i Big Data.
Se la partecipazione attiva dell’utente è un requisito indispensabile per sopravvivere nella società liquida-moderna teorizzata da Bauman, l’identità di ciascuno di noi è messa a repentaglio dal “video” non inteso come sistema tecnologico ma come definizione nel latino da cui trae origine il termine significa “io vedo” cioè l’azione di un soggetto. Cosa vediamo realmente? L’atto del vedere si è drasticamente ibridato con una serie di filtri che mediano il reale e spesso lo distorcono ma le nuove tecnologie hanno apportato un vantaggio nella creazione dei contenuti, sono molteplici infatti i prodotti culturali che si tratti di un film, un libro, un videogame, scritti, diretti e curati da una collettività, un team di figure non soltanto professioniste. Un modo, questo, che permette di esprimere attraverso un linguaggio, la vita e i gesti di migliaia di individui, risulta notevole come ogni frammento apparentemente scontato racconti qualcosa mediante l’audiovisivo o solamente il visivo – si pensi a Instagram e alla logica di una narrazione aperta – servendosi della linfa vitale delle immagini e delle potenzialità che esse posseggono. È impossibile non capacitarsi di come ognuno di noi contribuisce spesso inconsapevolmente alla politica che governa la logica dei media, per tale ragione non si è mai abbastanza anonimi per la rete, perché scriviamo storie anche non nostre vestendo i panni del bricoleur dove è essenziale assemblare, smontare, filmare, condividere, provare a partecipare, creando un dialogo collettivo tanto dislocato quanto geolocalizzato. La propria prospettiva di visione è dunque mutata, si entra “dentro” le immagini sia in lato sensu che in stricto sensu quando ci scattiamo un selfie. La vita di ognuno può diventare il film di ogni ipotetico spettatore e a tal proposito risuonano ancora attuali le parole di Italo Calvino sullo spettatore nel suo scritto Autobiografia di uno spettatore.
“Ci sono stati anni in cui andavo al cinema tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà di mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma”. [1]
Quel mondo per noi oggi non è uno specifico medium bensì, la finzione è l’unico vero e proprio medium al quale ci affidiamo completamente, mostrando il lato migliore delle cose e di sé. Sarebbe auspicabile un certo grado di coscienza critica, una maggiore consapevolezza su quanto la finzione ci faccia stare bene avverabile mediante una maggiore interazione e all’uso delle nuove tecnologie più o meno immersive (tramite computer, smartphones e tablets o tramite dispositivi di ultima generazione per la realtà virtuale, come Oculus Rift, Samsung Gear VR, Google Cardboard o la realtà aumentata). Conoscere le nuove possibilità di approccio all’immagine e allo schermo aprirebbe un dialogo più condiviso e trasparente sulla figura dello spettatore-utente.
Siamo cittadini di una comunità in cui sono tutti importanti ma, più di chiunque altro, lo sono coloro che non temono le distanze, gli spostamenti, il continuo viaggiare virtualmente esplorando confini che prima sembravano impossibili. Lo spazio non conta e la distanza non è un fastidio, in questo modo si è di casa in tanti luoghi e più propriamente in nessun luogo (network e luoghi d’incontro irreali che nessuno abita realmente). Ci si trova immersi, insomma, in una sorta di incessante hic et nunc dove ciò che è rilevante non è la durata bensì la velocità e questo l’utente-spettatore lo sa bene, che si tratti di serie tv o film, lui è abitante di un vero e proprio perpetuum mobile, dalla disperata e compulsiva ricerca di streaming fino all’esperienza per alcuni straniante, di poter prenotare un posto in una sala cinematografica virtuale in modo da stare idealmente tutti assieme.
Il cyber-utente è il protagonista della nostra era, colui che filma o fotografa ciò che vede prima ancora di pensare a come fare, a cosa scriverci sopra con gli hashtag come didascalia. Le emozioni appaiono a prima vista de-realizzate perché diventano in questo modo cartoline digitali, scatti frammentari di memorie personali ma pubbliche che si attraggono come calamite in più parti del mondo, diventando un film sulla vita di chiunque, solo con una consapevolezza in più, quella di poter essere più di un semplice fruitore di immagini, evolvendo il proprio ruolo in quello di un autore-utente-spettatore della propria vita, filmando se lo desidera, attimi di quotidianità senza alcun filtro per far emergere legami prima invisibili. Realizzando delle immagini-cartolina contribuiamo a nutrire “l’imago-sfera” (quel serbatoio di innumerevoli immagini fluttuanti disponibile a tutti) e il volume dei Big Data ovvero dati transazionali immagazzinati nel corso degli anni, dati non strutturati provenienti dai social media, il crescente numero di sensori e dati machine-to-machine che sono stati acquisiti nel tempo, determinando quale ruolo giocano gli Analytics per creare valore da quest’ultimi. La sfida di molte organizzazioni è quella di reagire velocemente all’enorme mole di informazioni in modo da riuscire a governare la velocità dei dati e questo, dipenderà anche da noi.
Note.
[1] Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia, Donzelli Editore, Roma 2009, pag. 89.
Volevo chiedere all’autore se secondo lui per essere antagonisti al sistema di ordinamento del big data che ha natura fondamentalmente commercialE (o di logica della sicurezza) sarebbe utile ricostruire un legame ideologico o simbolico delle immagini sparpagliate oppure controllare e gestire con più autonomia le condizioni materiali di produzione e scambio dei diversi “video”.
Controllare o gestire la produzione dovrebbe essere la risposta più logica ma è solamente un’illusione, si crede di limitare la diffusione dei dati personali in realtà si rallenta solamente quel processo di immagazzinamento dati. E’ necessario relazionarsi con le immagini e i video con un approccio diverso e più consapevole tuttavia il digital divide è ancora troppo presente.