arigi, 13 novembre. Una data che trascende il tempo e lo definisce. Una data rimasta intrappolata nel 2015. Impossibile emanciparsi dal dovere del ricordo senza rischiare d’incorrere in una condanna morale, impossibile neutralizzare il peso simbolico di un passato tragico che si riversa nel presente condizionandone ogni possibile esperienza e interpretazione. L’ordine cronologico che siamo soliti percepire in modo lineare cede il passo al tempo circolare, scandito dalla ricorrenza, vincolato al valore della ripetizione e del ritorno. Il 13 novembre resta così congelato nel dolore della strage, un dolore reiterato dall’etica memoriale.

A un anno dagli attacchi che hanno sconvolto la città e lasciato a occhi sbarrati una nazione intera, Parigi rivive la sua tragedia con una cerimonia di commemorazione itinerante che ripercorre le tappe della strage. La cerimonia ufficiale ha perlopiù coinvolto i membri delle associazioni, gli abitanti dei quartieri più colpiti, le famiglie delle vittime e le forze dell’ordine, di sicurezza e di soccorso. Tuttavia, una parte consistente della popolazione si è recata durante il pomeriggio nei luoghi degli attentati, dando vita a un cerimoniale spontaneo, fatto di piccoli gesti intimi e di un raccoglimento privato, espresso nella forma di una manifestazione pubblica. Corone, mazzi di fiori, candele, cerini, poesie, disegni, preghiere laiche e altre offerte, divenute veri e propri doni rituali, hanno impreziosito le zone antistanti i luoghi della strage. Tramite una pratica, ampiamente condivisa, la comunità dei vivi ha potuto materialmente e simbolicamente riabitare la città, riappropriandosi dei suoi spazi, ancora così intrisi di un senso di morte cruenta, per riuscire in qualche modo a rivificarli, a risanarli, a riportarli in vita. Allo stesso modo, durante la commemorazione ufficiale, a cui hanno partecipato le autorità politiche, tutti i luoghi colpiti sono stati sacralizzati dal rituale seguendo l’ordine cronologico degli attacchi. Questa procedura ha dato vita a una specie di processione che, ancora una volta, è servita a riconquistare gli spazi cittadini. Inoltre, attenendosi all’ordine cronologico degli attentati nello svolgimento delle cerimonie si è potuto corroborare la versione ufficiale della tragedia. L’imperativo categorico della commemorazione si è fuso all’ideale di una memoria storica che si presume neutra e oggettiva. La commemorazione diventa performance rituale in cui il ricordo dell’evento serve a ricostruirne un’immagine collettiva come esatta fotografia della realtà fattuale.

Il percorso commemorativo comincia alle nove del mattino dalla città di Saint-Denis. Siamo davanti all’accesso D dello Stade de France, teatro del primo atto terroristico di quella notte, dove perse la vita Manuel Dias, l’autista dell’autobus che aveva condotto i tifosi francesi ad assistere all’amichevole contro la Germania. Una folla poco numerosa partecipa all’evento. Il Presidente della Repubblica François Hollande scopre la targa commemorativa marchiata dal nome della prima vittima. Segue un minuto di silenzio, rotto solo da qualche sospiro, da un colpo di tosse, da un tacco che sfrega l’asfalto. Il formulario posturale è quello tipico delle cerimonie di commemorazione e ricorda da vicino la gestualità del lutto, incorporata dagli astanti e inscritta nel codice del rituale funebre. Le mani giunte, gli sguardi a toccare il suolo, qualche volto è solcato da rughe più profonde del solito, molti occhi si riempiono di lacrime.

Lasciata Saint-Denis, la cerimonia riprende nel cuore della città ferita, nei locali colpiti dagli attentatori e disseminati tra il decimo e l’undicesimo arrondissement. Sulle terrasses di Le Petit Cambodge, Le Carillon, La Bonne Bière, Le Comptoir Voltaire, La Belle Equipe persero la vita quaranta persone e in questa giornata altrettante targhe commemorative vengono scoperte dal presidente Hollande, accompagnato dal la sindaca di Parigi Anne Hidalgo. Qui una folla più numerosa assiste alla cerimonia. I partecipanti sono soprattutto parenti e amici delle vittime, abitanti del quartiere, forze dell’ordine e membri del personale di sicurezza e di soccorso.

 

Com’è facile aspettarsi, però, il momento nevralgico dell’intera commemorazione si svolge davanti al Bataclan, la grande sala da concerti che si affaccia sulla piazza da cui prende il nome, all’incrocio tra Boulevard Voltaire e Boulevard Richard Lenoir. Proprio qui infatti si è consumato il più macabro e mortuario attacco della serata. Sono ormai le undici del mattino quando il Presidente della Repubblica arriva sul posto, accompagnato da diverse figure politiche e istituzionali tra cui il primo ministro Manuel Valls e il ministro degli interni Bernard Cazeneuve[1]. Gli atti cerimoniali si ripetono come da copione. La targa viene scoperta e vengono letti i nomi delle novanta vittime. A seguire il consueto minuto di silenzio corredato da un’atmosfera di raccolta che si fa ancora più sentita e tesa a ricalcare i toni e le movenze di una preghiera di cordoglio. Infine, per distendere la tensione emotiva, la musica si libera dagli altoparlanti, permettendo ai partecipanti di abbandonare la dimensione sacrale e di ricomporre una corporeità estranea ai codici del lutto e della preghiera.

L’apice di solennità viene raggiunto alla lettura dei nomi delle vittime. Da questo punto di vista la cerimonia di commemorazione può essere considerata alla stregua di un battesimo rovesciato che, nel recitare il nome del defunto ne riabilita e ribadisce l’identità sociale. Stando alla descrizione che ci riporta Marc Augé a proposito delle popolazioni yuruba dell’Africa Occidentale, le cerimonie di assegnazione del nome sanciscono definitivamente la nascita sociale dell’individuo[2]. Nella commemorazione, invece, l’esistenza spirituale della vittima viene rievocata al di là della morte. La targa commemorativa diventa così il fulcro del cerimoniale, come un altare votivo o feticcio rituale, a cui si rivolgono gli sguardi e i gesti di commiato. È nella lettura del nome della vittima come atto performativo che si compie quella trasmutazione rituale che trasforma il nome-simbolo della vittima in una sua incontestabile presenza sotto forma di ricordo, almeno entro i limiti dell’istante commemorativo.

Al termine della mattinata, davanti alla mairie dell’undicesimo arrondissement, si celebra infine la cerimonia conclusiva. È qui che Caroline Langlade, sopravvissuta al Bataclan e fondatrice dell’associazione “Life for Paris”, prende la parola per omaggiare le vittime con un discorso pubblico rivolto a tutta la comunità e ai sopravvissuti alla strage. Le sue parole sanciscono la definitiva consacrazione dei defunti, figure assurte a veri e propri eroi mitici e protagonisti simbolici di una laica parabola del martirio. In questo discorso, che si conforma a una retorica comunemente accettata e largamente diffusa, tutti coloro che trovarono la morte per mano degli attentatori, seppur a loro malgrado, avrebbero anteposto i principi nazionali alla propria sopravvivenza. La sacralizzazione delle vittime risponde così all’esigenza di allargare il divario simbolico che li separa dagli attentatori: vittime e carnefici sono presi a prototipo di due umanità inconciliabili, sovrumana, quella delle vittime, e subumana, quella degli attentatori.

Non è un caso infatti che la commemorazione ufficiale si sia conclusa liberando in aria dei variopinti palloncini a rappresentare i defunti che sono così definitivamente spiritualizzati. Ma la spiritualizzazione delle vittime rivela un ulteriore bisogno sociale, speculare rispetto al primo: demonizzare i carnefici, allo scopo di collocare se stessi nello spazio morale fra la dimensione della trascendenza e quella dell’orrore. Infine il volo dei palloncini, grazie ai caratteri di leggiadria e spensieratezza da esso rievocati, permette di riprendere i ritmi consuetudinari della vita quotidiana. Si tratta di quella discesa nell’ordinario, “the descent into the order”, che per Veena Das consiste in un ritorno alla banalità del quotidiano.[3] Per l’antropologa indiana, l’unico modo per superare un evento traumatico di portata collettiva è di normalizzarlo e reintegrarlo in un ordine pensabile di possibilità fattuali. A ribadire quest’esigenza, Caroline Langlade conclude il suo discorso esortando la piazza a riprendere il corso della propria vita. Il tempo della sospensione nel ricordo e nel dolore può dirsi finito, il cordoglio può lasciare spazio all’ordinarietà del vivere quotidiano.

en diverso invece il clima commemorativo nelle giornate del 7 e 9 gennaio dopo due anni dagli attentati. In questo caso, il sobrio omaggio che si è reso alle diciassette vittime degli attacchi alla vecchia sede di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Casher è passato quasi inosservato. Non solo la popolazione ha partecipato in maniera molto più contenuta e certamente meno accorata rispetto alla precedente commemorazione del 13 novembre, ma persino la stampa e i telegiornali francesi hanno riservato uno spazio decisamente più ridotto sia alle cerimonie che al ricordo della strage. Inoltre, cosa ancora più importante, la tragedia è stata ricordata solo attraverso i canali ufficiali, con un breve intervento della sindaca Anne Hidalgo e del nuovo Ministro degli interni Bruno Le Roux. Del resto già l’anno precedente le cerimonie di commemorazione di questi due primi attentati terroristici erano stati fortemente impregnate dalla rievocazione dell’allora recentissimo massacro al Bataclan. È stato solo dopo il 13 novembre che questi primi due attacchi, dove persero la vita diciassette persone, sono stati riletti come l’atto d’inizio di una stagione del terrore che ha coinvolto l’intera Europa e che ha posto Parigi e la Francia al centro del mirino dei jihādisti. Solo dopo il 13 novembre i due eventi sono stati implicitamente integrati in uno stesso orizzonte ermeneutico.

Questo spiega perché la commemorazione del 13 novembre conservi una priorità morale e una risonanza collettiva così nettamente superiore rispetto a tutti gli attacchi precedenti e successivi che hanno colpito l’Europa. Il 13 novembre 2015 è ormai una data-soglia paragonabile all’11 settembre 2001. In particolare, l’assassino di novanta spettatori al concerto del Bataclan ha sconvolto per diverse ragioni. Innanzitutto ad aver colpito è stata l’estrema intensità della violenza. Le vittime sono state uccise una per volta a colpi di Kalashnikov, come in un’esecuzione bellica, ma il risultato prodotto da questa lucida pratica di amministrazione della morte ci fa pensare a un vero proprio massacro di massa. A colpire è stato anche il luogo dell’attentato, così apparentemente irragionevole e casuale, così diverso dai potenziali obiettivi di Al-Qaïda. Se l’11 settembre è diventato l’evento più rappresentativo di quella passata stagione del terrore che aveva opposto Occidente e Mondo Arabo come due entità antitetiche formatesi per schismogenesi[4] e definitesi reciprocamente secondo un’immagine negativa e stereotipata, oggi è il 13 novembre ad avere inaugurato una parentesi storica tutta contemporanea i cui esiti ancora sfuggono a qualsiasi tentativo di spiegazione e, soprattutto, di previsione. È proprio per questa ragione che a Parigi l’urgenza commemorativa del 13 novembre è diventata così cruciale e prioritaria rispetto a quella del 7 e 9 gennaio 2015.

 

[1] Come sappiamo, il 6 dicembre 2016 Cazeneuve ha preso il posto di Manuel Valls in seguito alla candidatura quest’ultimo alle primarie del Centro Sinistra e alle sue conseguenti dimissioni da Primo Ministro. Contemporaneamente, a capo del Ministero degli interni, è salito Bruno Le Roux.

[2] AUGÉ, Marc, Il dio oggetto, Meltemi, Roma, 2002,

[3] DAS, Veena, Life and Words: Violence and the Descent into the Ordinary, Paperback, New York, 2006.

[4] Si tratta del processo attraverso cui il senso d’identità viene prodotto mettendosi in rapporto di contrapposizione reciproca con un’altra identità di riferimento. Questo concetto è stato usato in antropologia da Gregory Bateson per descrivere il consolidamento delle identità di genere tra gli iatmul della Nuova Guinea. Per l’autore la schismogenesi non solo resiste ma viene riprodotta proprio all’interno di quei rituali carnevaleschi che, come il naven, servirebbero a ribaltare i termini di questa rigida dicotomia identitaria. BATESON, Gregory, Naven, un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino, 1988.

 

Dopo la laurea in antropologia all‘Università di Siena, Gloria Frisone si trasferisce a Parigi per conseguire un master di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove tuttora svolge una tesi di dottorato sulle pratiche sociali della memoria e i processi di costruzione dell‘identità individuale e collettiva. Titolare di un corso introduttivo all’antropologia e alla sociologia all‘Università Paris 13, è infine consulente di antropologia medica all’hôpital Avicenne di Bobigny.

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