“Il più antico e intenso sentimento umano è la paura,
e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto”
Howard Phillips Lovecraft[1]

“La storia di questo romanzo risulta essere
che la storia che vi si sarebbe dovuta narrare non viene narrata”
(Robert Musil)[2]

 

L’apparizione de I segreti di Twin Peaks[1] in televisione – a partire dalla prima sequenza e dalle prime note della sigla – ci preparò a un’epifania: il ritorno a una dimensione che qualcuno di noi, più adulto, aveva sperimentato da ragazzino con la prima serie[2] di Ai confini della realtà[3] e che raramente aveva di nuovo sperimentato: quella del dispiegarsi del perturbante visivo in tutta la sua potenza evocativa e proprio per questo fascinatoria.

Come scrive Diego Del Pozzo, “l’arrivo degli anni ‘90 segna una piccola rivoluzione per quel che riguarda i serial di genere familiare, non necessariamente comici. La decade è infatti aperta da una gemma oscura che porta sotto l’obiettivo l’altra faccia’ della famiglia  stelle e strisce, il suo lato oscuro e terribile”.[4]

Fino ad allora, le strade della tv erano state altre, e quell’ibrido di razionalità scientifica (proveniente dalla science fiction) e di suggestivo mistero (proveniente dal fantastico) non aveva più popolato gli schermi di casa, affollati piuttosto di epopee western, di telefilm polizieschi e delle prime sitcom con risata registrata in sottofondo.

Twin Peaks parte in America nel 1990, quando il mediocre attore Ronald Reagan conclude la sua carriera di falco come presidente degli Stati Uniti, lasciando il testimone a George Bush Sr., e un paese – e un pianeta – in cui le illusioni e le velleità emerse col Sessantotto andavano ormai definitivamente spegnendosi, lasciandosi alle spalle quel clima di disimpegno e voluttà che Jean Baudrillard aveva definito dell’“orgia”. Proprio nel 1990 il grande intellettuale francese scriveva: “Se si dovesse caratterizzare lo stato attuale delle cose, direi che è quello del dopo orgia. L’orgia è tutto il momento esplosivo della modernità, quello della liberazione in tutti i campi […] È stata un’orgia totale, di reale, di razionale, di sessuale, di critica e di anti-critica, di crescita e di crisi di crescita. Abbiamo percorso tutti i sentieri della produzione e della sovrapproduzione virtuale di oggetti, di segni, di messaggi, di ideologie, di piaceri. Oggi tutto è liberato, tutti i giochi sono fatti e ci ritroviamo collettivamente di fronte alla domanda cruciale: CHE FARE DOPO L’ORGIA?[5]

Quegli anni, quel giro di decennio, sono cruciali: a guardare dall’oggi, segnano la svolta definitiva verso la globalizzazione, l’apertura definitiva alla finanziarizzazione dell’economia, l’inizio di una crisi epocale che trascina con sé – insieme agli ultimi baluardi della società di massa, fordista e metropolitana – un intero modo di immaginare e percepire il rapporto individuo/società, il senso dell’identità moderna, il senso del sociale. Gli ancoraggi classici che con la Modernità hanno dato sicurezza e sguardo prospettico al soggetto si frantumano. Sociologi come Ulrich Beck[6] e Anthony Giddens[7] se ne accorgeranno sì, rapidamente, per i ritmi di lavoro della ricerca scientifica, che comunque ha bisogno di tempo per trasformare l’osservazione in teoria, ma Baudrillard arriva prima degli altri. E con lui Fredric Jameson, con i suoi studi sul postmodernismo, parlando della postmodernità come di un’epoca di “colossale euforia”, che ruota attorno al “consumo della pura mercificazione come processo”.[8]

L’ingresso negli anni Novanta del XX secolo, insomma, segna un ritrarsi, un tirarsi indietro, un tornare alle sicurezze della casa, della famiglia, del focolare domestico. Si compie quello che circa un decennio prima era stato definito “riflusso” – dalla socialità della lotta politica, prima di tutto – ma per rinchiudersi in un rassicurante bozzolo, sotto la spinta della ripresa della tendenza ad una individualizzazione sempre più estrema. Il “relativismo” dei moralisti di matrice religiosa, il “pluralismo” dei sociologi.[9]

Perché il mondo sembra di nuovo spaventoso, ignoto, ostile. Governato da forze incontrollabili e maligne. Il sacro, nella sua forma più arcaica e brutale, torna a affacciarsi, pur nella nostra inconsapevolezza di individui demagizzati, disincantati.

Insomma, il mondo di certezze della Modernità, con l’Individuo sovrano al centro, si incrina. E in questa incrinatura si infilano David Lynch e Mark Frost, dandoci il welcome a Twin Peaks e mostrandoci cosa c’è dietro…

Un mondo dell’altrove, fuori del tempo, luogo dannato, maledetto, che fa pensare ai paesini di Stephen King. Come scrive Robert Engels, uno degli amici e collaboratori di Lynch, nel libro che Chris Rodley dedica al grande regista, “Era una serie su una colpa indefinita.[10] Uno sfondo, insomma, inquetante e strano, a cui gli spettatori non sono abituati, che evoca subito il fantastico, l’orrore, tornando alle origini del gotico: l’omicidio di Laura Palmer, di cui presto appare il cadavere avvolto in un telo di plastica, si istituisce subito come “antefatto”, come luogo di un mistero, di qualcosa che è avvenuto “prima”, e che è destinato a rimanere a lungo irrisolto, in una atmosfera che – resa straniante dalla indeterminazione di spazi e tempi che le immagini suggeriscono – si fa progressivamente più rarefatta, più indeterminata. Isabella Rossellini, per un certo periodo compagna del regista, dichiara, a proposito di Velluto blu,[11] il film di Lynch di cui è protagonista (e che ha molto in comune con Twin Peaks): “I film di David hanno molto più a che fare con le sensazioni che con la storia; non sono tanto delle indagini antropologiche o psicologiche dei personaggi, quanto delle impressioni surreali, ricche di situazioni trascendentali”.[12] Ecco, è esattamente questo, il meccanismo profondo che muove il serial[13] costruito da Lynch e Frost: l’evocazione di sensazioni, di richiami a qualcosa che è nascosto subito al fianco del tessuto della realtà, che si muove in parallelo con questa, e in ogni momento può invaderla e infettarla, contaminandone l’ordine spazio-temporale. Gli spazi – specie quelli aperti – hanno un che di inquietante, ostile: le grandi foreste, in parte ancora inesplorate del Nord-Ovest americano, quando il vento soffia fra gli alberi secondo movimenti e suoni che ci appaiono alieni, i crocicchi deserti subito fuori città, con i semafori sospesi che si accendono e si spengono a tempo col vento…[14] Il tempo in cui si svolge la narrazione: abitazioni, abbigliamento e situazioni che pendolano continuamente fra gli anni Cinquanta e i Novanta del Novecento, ma senza che il tempo scorra fra gli uni e gli altri… Lo spettatore è sottoposto ad un continuo straniamento, guidato a seguire le singole situazioni che si alternano, mettendo da parte – sullo sfondo – lentamente, ma progressivamente, la domanda che innescava la sua partecipazione: chi ha ucciso Laura Palmer?

Scrive Lynch: “Mark Frost ed io avevamo quest’idea. Il progetto che avevamo proposto era la storia di un omicidio misterioso, ma alla fine quest’ultimo avrebbe dovuto essere relegato nello sfondo; poi ci sarebbe stato un piano di mezzo, costituito da tutti i personaggi della serie; infine, in primo piano, ci sarebbero stati i protagonisti di ogni singola settimana, quelli che avremmo trattato in dettaglio. Quanto all’omicidio, volevamo lasciarlo a lungo in sospeso […] era il mistero l’ingrediente magico: avrebbe fatto vivere Twin Peaks molto più a lungo”.[15]

Il tempo si è fermato, anzi, sembra quasi che sia “Out of Joint”, come William Shakespeare fa dire ad Amleto – e come, profeticamente, titolerà uno dei suoi più bei romanzi Philip K. Dick[16]. Passato, presente, forse futuro si mescolano, si appiattiscono l’uno sull’altro, come scriveva Fredric Jameson cercando di definire la postmodernità. Proprio a proposito del romanzo di Dick citato, Jameson scrive che si tratta di una originale “esperienza del presente come passato e come futuro”,[17] usandolo come esempio della percezione del tempo nella postmodernità: un’epoca in cui il tempo si appiattisce, si ferma, in qualche modo, per cominciare a oscillare fra la nostalgia di un passato ampiamente immaginato e un futuro che non si verificherà mai…

Così, le scene negli interni domestici rimandano agli anni Cinquanta, la presunta “età dell’oro” dell’America, ma spesso sono il luogo del dolore, della sofferenza per la morte della reginetta del paese, polverizzando il “sogno americano”,[18] il mito fondativo di tutto un immaginario novecentesco e non solo. Al contrario, gli interni dei luoghi pubblici hanno sempre un che di inquietante, come il Double R Diner, o la Roadhouse  – e davvero nascondono segreti inconfessabili, espressioni della “colpa indefinita” che marchia la cittadina, come se, nascosta nel profondo, ci sia una creatura del Male, un Male metafisico che infetta tutta la città, come nel capolavoro di Stephen King It,[19] insomma. Fino alla “stanza rossa”, dove l’agente Cooper incontra il Gigante e il Piccolo Uomo, un esempio de “la parte di nulla che c’è in America”.[20]

E d’altra parte, Rodley, discutendone con Lynch, scrive: “Vi sono alcune analogie fra Twin Peaks e Velluto blu […]Ma qui l’elemento nuovo sembra essere costituito dal fatto che il male non appartiene nemmeno a questo mondo: proviene, letteralmente, dall’aldilà.[21] Come con l’aldilà sono in contatto personaggi addirittura sciamanici, come la Signora del Ceppo e l’Uomo Senza Braccio.

Insomma, consapevolmente l’irrazionale torna a irrompere nella vita quotidiana dei telespettatori occidentali, riprendendo il volto orchesco e incontrollabile del sacro più alieno: una linea che parte dal gotico, dove ancora aveva le fattezze del Male delle religioni monoteiste, per passare dai Grandi Antichi di Howard Phillips Lovecraft (un empirista razionale che colloca il suo Pantheon di demoni in dimensioni parallele alle nostre, ma non soprannaturali: siamo noi umani, che inventiamo il sacro per dargli senso…)[22], affacciarsi attraverso King e manifestarsi nella cittadina di Twin Peaks, riverberando il senso di insicurezza e disancoraggio degli abitanti della tarda modernità, che sentono il disorientamento e i disagio di una fase storica di grandi mutamenti, di cui è difficile immaginare gli esiti.

Alludendo al soprannaturale, e alla sua potenza fascinatoria, ma lasciandolo per così dire presupposto, evocato, ne esalta la natura aliena, irriducibile, estranea. E in questo modo introduce un elemento nuovo: “non ha più importanza l’esito del racconto, ha importanza il mondo in cui si svolge”. Riecheggiano le parole dell’austriaco Robert Musil intervistato su L’uomo senza qualità: “La storia di questo romanzo risulta essere che la storia che vi si sarebbe dovuta narrare non viene narrata”. E ancora: “Mi interessava il momento intellettualmente tipico, direi quasi ‘spettrale’ dell’avvenimento”.[23]

Dilazionando la soluzione dell’enigma (fin quando glielo permette la produzione, naturalmente), Lynch e Frost scelgono di rimanere in superficie, di alludere ed evocare – delegando al prequel che il regista girerà, Fuoco cammina con me,[24] il compito di svelare gli antefatti (e quindi, fra l’altro, di strappare all’Fbi dell’agente Cooper il “merito” della soluzione del mistero) – possibili spiegazioni, dando spazio a una dimensione fantasmatica, tutta affidata agli spettatori, dei possibili snodi narrativi, delle possibili sostanze dell’incubo in cui li hanno trascinati.

Nel complesso, da parte dei due autori, una interpretazione nuova dell’idea di “finish del consumatore”, che fa da supporto già allora (e su questo ci sarebbe da riflettere con maggiore cura) a una prima riorganizzazione del rapporto fra vita privata, modalità di consumo e trasformazioni nell’identità: a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso già si erano diffusi a livello di massa i videoregistratori analogici a Vhs, che già utilizzavano un sistema, lo showview, con cui programmare la registrazione dei programmi tv anche in absentia… I pilastri della narrativa della Modernità ridotti al proprio fantasma,[25] e contemporaneamente i primi accenni di una migrazione del consumo televisivo da appuntamento di massa a fruizione personalizzata e individualizzata, come per il libro, e che con l’esplosione del Web e delle tecnologie satellitari avrebbe raggiunto lo sviluppo attuale.[26]

Ciò che sparisce, che retrocede “sullo sfondo”, è la struttura di base di ogni narrazione, che risale addirittura alla fiaba, e che poi è transitata nel romanzo e nella scrittura per il cinema: la sequenza, quasi una triade hegeliana, composta di equilibrio iniziale/disequilibrio/riequilibrio finale. La Tv, attraverso Lynch e Frost, da “focolare domestico” della società di massa, diventa l’araldo di un messaggio cupo e disperato. Nessuno più può aspettarsi di “vivere felice e contento”.

Twin Peaks inaugura il postmoderno in televisione, e fonda, insieme, la post-serialità.[27] Introduce l’estetica postmoderna perché rompe con le regole precedenti, e quindi con tutte le tassonomie e le classificazioni; inaugura la post-serialità perché rompe con le regole di tv series e serial, fra serie antologiche e serie a episodi, perché fonde i modelli fra loro – e fa anche di più, fa entrare prepotentemente la logica del cinema in televisione, in termini di saperi, di linguaggio, di ricerca, di cultura, per scomporre e riarticolare anche quest’ultimo, realizzando pienamente la fine della separazione fra i due mezzi di comunicazione.

Per ritrovare la stessa forza visionaria, lo stesso potenziale innovativo, dovremo aspettare i nostri anni, quelli della astronave generazionale di Ascension,[28] o della Louisiana di True Detective,[29] o ancora del “parco a tema” di Westworld Dove (non per caso) tutto è concesso,[30] e accedere così alle dialettiche e alle estetiche del postumano[31].

[1]    Lynch D., Frost M., I segreti di Twin Peaks, Canale 5, Italia, 1990-1991, (Twin Peaks, Abc, Usa, 1990).

[2]    Per le differenze fra serie e serial cfr. Del Pozzo, D., Ai confni della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani, Lindau, Torino, 2002, p. 25

[3]    Serling, R., Ai confini della realtà. Stagione 1, Rai, Italia, 1962-1966 (The Twilight Zone, Usa, 1959-1964).

[4]    Del Pozzo, D., Ai confini della realtà, cit., p. 170.

[5]    Baudrillard, Jean, La trasparenza del male, Sugar, Milano, 1991, p. 9.

[6]    Beck, U., Costruire la propria vita, il Mulino, Bologna, 2008 (ed. or. 1997).

[7]    Giddens, A., Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999 (ed. or. 1991).

[8]    Jameson, F., Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007, p. 6.

[9]    Cfr. Berger, P., Luckmann, T., Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna, 2010 (1995).

[10]  Lynch, D., Rodley, C., Io vedo me stesso, il Saggiatore, Milano, 2016, p. 204.

[11]  Lynch, D., Velluto blu, Usa, 1986.

[12]  Lynch, Rodley, Io vedo me stesso, cit., p. 169.

[13]  Cfr. Lovecraft, H.P., L’orrore soprannaturale nella letteratura, cit.

[14]  Ivi, p. 220.

[15]  Ivi, pp. 230-231, tondo mio.

[16]  Time Out of Joint, 1959. Il romanzo uscì in italiano una prima volta nel 1959 nella collana “I romanzi del Corriere” col titolo Il tempo si è spezzato, poi in Urania Mondadori nel 1968 col titolo L’uomo dei giochi a premio, ancora nel 1999 per Sellerio come Tempo fuori luogo, infine per Fanucci, nel 2003 come Tempo fuor di sesto.

[17]  Jameson, Postmodernismo, cit., p. 289

[18]  Del Pozzo, Ai confini della realtà, cit., p.172.

[19]  King, S., It, Sperling & Kupfer, Milano, 1987.

[20]  Lynch, Rodley, Io vedo me stesso, cit., p. 36.

[21]  Ivi, p. 229.

[22]  Fattori, A., Fenomenologo dell’orrore cosmico, “Quaderni d’Altri Tempi”, n. 32, 2011, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero32/bussole/q32_b10.htm

[23]  Cit. in Cases, C., Introduzione, in Musil, R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962, p. XXVII.

[24]  Lynch, D., Fuoco cammina con me, Usa, 1992.

[25]  Cfr. Brancato, S., Fantasmi della modernità, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.

[26]  Cfr. Marrazzo, F., Effetto Netflix. Il nuovo paradigma televisivo, Egea, Milano, 2016.

[27]  Cfr, Brancato, S., Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series, Liguori, Napoli, 2011.

[28]  Levens, P., Ascension, Netflix, Usa, 2016; cfr. Fattori, A., Sociologia delle tribù artificiali, “Quaderni d’Altri Tempi”, n. 61, 2016, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero61/bussole/q61_b03.html.

[29]  Pizzolatto, N., True Detective, Hbo, Usa, 2014; cfr. Fattori, A., Indeterminazioni e risvegli, “Quaderni d’Altri Tempi”, n. 52, 2014, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero52/bussole/q52_b04.html; Ribaldo, C., Case infestate, “Quaderni d’Altri Tempi”, n. 56, 2015, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero56/episodi/13.html.

[30]  Nolan, J., Sarafyan, A., Westworld Dove tutto è concesso, Hbo, Usa, 2016.

[31]  Cfr. Tirino, M., Tecnoimmaginari postumani, “Segnocinema”, n. 202, novembre-dicembre, 2016.

[1]    Lovecraft, H.P., L’orrore soprannaturale nella letteratura, in Id., Opere complete, Sugar, Milano, 1973, p. 17.

[2]    Musil, R., in Robert Musil, L’uomo senza qualità, in Baioni et al., Il romanzo tedesco del Novecento, Einaudi, Torino, 1973, p. 218.

Adolfo Fattori (1955) vive e lavora a Napoli. È Dottore di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Insegna Sociologia della comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. È stato docente a contratto di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Federico II di Napoli. Ha pubblicato, fra l’altro, L’immaginazione tecnologica Teorie della fantascienza (Liguori, Napoli, 1980), Di cose oscure e inquietanti (Ipermedium, Napoli, 1995), Memorie dal futuro. Spazio tempo identità nella fantascienza (Ipermedium, Napoli, 2001), Materia dei sogni Elementi di sceneggiatura per le scienze sociali (Ipermedium, Napoli, 2006), Cronache del tempo veloce. Immaginario e Novecento (Liguori, Napoli, 2010), Sparire a se stessi Interrogazioni sull’identità contemporanea (Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2013). Ha curato con Antonio Fabozzi la voce Fantascienza nella Letteratura Italiana Einaudi (1984). È fra i fondatori della rivista on line "Quaderni d’Altri Tempi", www.quadernidaltritempi.eu. Ha insegnato per 36 anni Economia aziendale nelle scuole medie superiori.

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