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Anna Capriati

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Anna Capriati, nata nel 1996 a Bari, studia Filosofia presso il Dipartimento degli Studi Umanistici dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”, e scrive articoli dedicati al rapporto tra le filosofie contemporanee e l’ecologia per la rivista pugliese Ambient&Ambienti.

Filosofia e Insecuritas: Frammenti, orizzonti e relazioni sulla Cura

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Perché filosofare ancora oggi? Le possibili risposte a tale domanda, per coincidere in qualche modo con la filosofia occidentale, non sono assolute ma già il dirsi “oggi” ne attesta il luogo di applicazione. Seppur la sua funzione necessitante sembra quasi smarrita dall’esplosione mass-mediologica, rimane comunque la possibilità presente della filosofia e, forse, la sua prospettiva futura. A siffatti progetti già il porsi delle domande e il tenere alta la posta in gioco affinché ne valga la pena, rendono inesauribile il lavoro della filosofia. Nel Timeo, Platone definisce la filosofia come un “massimo dono”: essa non deve solo scaldare i cuori dei filosofi, bensì anche chiarire il compito “etico” della filosofia come infinita ricerca, difficile perché trae senso dalla propria impossibilità. La consapevolezza “im-possibile” del suo farsi nasce da un lungo processo storico e con ciò la prassi filosofica, legata alla sua storicità, è definibile come assoluta alterità, nei confronti dell’esistenza e della sua temporalità.  In Essere e tempo, è centrale il tema della temporalità dell’esserci, e Heidegger scrive: “(..)il nuovo corso della filosofia, la cui necessità deriva dalla centralità della scienza nel mondo contemporaneo e, prima di tutto, dal mutamento da essa subìto, grazie alla tecnica, da schema della contemplazione in schema della produzione e della trasformazione del mondo[1].  Su questo versante heideggeriano, si inserisce un’altra questione fondamentale, ossia la differenza di genere stabilita dal costituirsi della scienza, uno strappo rispetto alla filosofia, già legittimata e conferita di normatività positiva nell’empirico, vale a dire il progresso nel reale.  E, questo, non già solo per l’ovvia contestazione che vuole gli scienziati privi di filosofia, in realtà preda della filosofia peggiore (inconsapevole); ma dalle differenti forme dello stesso genere “filosofia”, come genere autonomo ed irrimediabilmente frammentato. D’altronde, l’essenza delle cose non è nella loro origine, la filosofia muta e si dispiega nel tempo rispetto ai suoi inizi. La trasformazione non è riferita ad una evoluzione o involuzione, ma al “dato” che costituisce una struttura come fondamento delle sue coordinate interpretative: valori morali, estetici, speranze e angosce delle esistenze individuali.  Il riferimento alla storia del tempo e al processo di secolarizzazione è inevitabile, delineando certe questioni cruciali al pensiero e alla sua connessione con l’altro da sé. Il tempo, come il pensiero, come il soggetto, non può smarrirsi sotto il peso di un passato omogeneo, né dispiegarsi nei sogni di una futura progettualità. Ci si chiede allora, dove finisce il futuro, o meglio, l’avvenire di ciascuno di noi? Heidegger tenta una risposta: “L’avanti-a-sé si fonda nell’avvenire” cioè “l’avanti non significa un oltre ora nel senso di un ora non ancora ma poi si”[2].

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heidegger disegnoE’ a questo punto che interviene l’idea dell’essere come a-venire non assicurato, soggetto alla possibilità del nulla, potrà essere annientato dalla presenza di un orizzonte che accoglie lo slancio riflettendolo all’indietro. Questo atteggiamento heideggeriano lascia un abisso e una certa “insicurezza” nella propria esistenza, rischiando la disperazione e la rinuncia ad una aspirazione, ad una responsabilità o ad un destino. Giuseppe Semerari, nella Introduzione ad Insecuritas, Tecniche e paradigmi della salvezza (testo del 1982 ma per certi versi attuale su alcuni temi) de-costruisce il pensiero heideggeriano e il ruolo che assegna alla filosofia è nella possibilità di passaggio dalla assunzione della insicurezza esistenziale ad un percorso verso “tecniche di rassicuramento” che tendano ad un rapporto razionale con la natura e con gli altri, quindi un rapporto all’interno del quale sia possibile partecipare in maniera responsabile. Si tratta, dice Semerari in Strategie del rassicuramento umano, di una filosofia che ritrovi il proprio fondamentale rapporto con la insecuritas, un tentativo dall’insicurezza alla sicurezza, ossia come possibilità del venire ad essere della responsabilità. L’importanza al ruolo della filosofia che non detiene eterni valori, ma è l’individuo ad essere un “universale”, perché necessita di cura, “pure la filosofia può fallire” sottolinea Semerari, impazzisce senza promesse future e i percorsi dell’essere umano non portano in alcun posto se si perdono “nell’intricato e sterminato bosco dell’insecuritas senza vie d’uscita[3].  Non esiste un tempo dell’essere ma il tempo del venire ad essere a partire dall’uomo e dalla donna, tempo umano che è contingente della irreversibilità e della finitudine. La “cura” intesa da Semerari non simboleggia solo i bisogni primari tra cui l’accudimento o l’accompagnamento, bensì una Cura che connota la vulnerabilità della condizione umana e il richiamo ad un sostegno, ma anche, definire se stessi nella capacità di “prender-si cura”. La relazionalità all’interno della cura, fonda anche il rispetto dell’autonomia e del diritto di ciascuno, incluso il diritto alla cura. La cura non è solo terapia, ma è anche una delle tante modalità di rapportarsi all’alterità: Heidegger non intendeva il solo prendersi cura delle cose del mondo, ma aver cura degli altri, in maniera autentica, nel loro percorso libero di esseri-nel-mondo; questa forma di partecipazione è emozione e sentimento, oltre alla “gettatezza” nello stare assieme tra “atti particolari o di tendenze, come il volere, il desiderare, l’impulso o l’inclinazione”[4]. In questo Semerari in Insecuritas ripensa al termine filosofia, non genericamente come amore ma, più dettagliamente, come desiderio e ricerca, un comportamento agente che richiede l’essere in tensione, rivolgendosi alla sicurezza piuttosto che alla verità. Esistono “frammenti” temporali, qui ed ora, che nell’atto di com-prendersi all’in-finito, riconoscono anche il senso della filosofia. Se oggi ci sentiamo sempre meno assoggettati a una morale basata su principi indiscutibili e universalmente validi, forse è proprio questo che rende urgente l’esigenza di una nuova etica della cura di sé[5]. Per Zygmunt Bauman, la postmodernità rappresenta una insecuritas legata ad una indifferenza reciproca degli uomini e delle donne, infatti scrive che “abbiamo perso l’umanità, il fascino e il calore che i nostri antenati esibivano con naturalezza[6]”, inoltre minacce e pericoli sembrano colpire “le vittime separatamente”, come se dovessero essere subiti in solitudine”. D’altronde, le sofferenze individuali non sono più sincronizzate, le catastrofi “scelgono” a quale porta bussare, siamo isolati e i nostri tormenti, afferma Bauman, lacerano “il tessuto delicato delle solidarietà umane”. I sogni rassicuranti di Semerari non coincidono più con questo “futuro-minaccia” che è l’epoca del “non ancora”. Per quante difficoltà ed ostacoli presenti il superamento della situazione dell’indifferenza, occorre anche evitare che tali difficoltà e ostacoli possano essere fatti giocare come alibi per non agire. Infatti nelle parole di Bauman, per quanto sia vero che “la prospettiva di agire moralmente in un tipo di mondo che promuove e incoraggia attivamente l’egoismo e non è particolarmente propenso alla condotta morale, alla cura degli altri, sia vicini che lontani, e resta quindi sordo allo spirito di fratellanza che si basa sull’accettazione della reciproca responsabilità”  simile a Semerari, l’agire morale individuale rimane limitata e non realizzerebbe alcun cambiamento essenziale dell’esistente. Bisognerà allora usufruire della riflessione, costruire forme di collettività e delineare spazi politici di relazione, confronto e con-divisione. Per concludere con Platone, se la filosofia come eros rifugge “dalla solitudine che è morte”, allora “l’io ritrova la possibilità del colloquio con il tu e il loro dialogare si potenzia” nel senso vivo e “immediato del noi. La riscoperta della filosofia è riscoperta della vita”[7].

Note.

[1] Heidegger, Sein und Zeit, tr.it. di P.Chiodi, Essere e Tempo, UTET, Torino 1969, p. 32. Cfr. Semerari, Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, 1982, cit., p.166.

[2] Heidegger, Sein und Zeit, cit., p. 167.

[3] Semerari, Strategie del rassicuramento umano, Fasano 1992, cit. p.29

[4] Heidegger, Essere e tempo,cit. tr. It, p.476

[5] Su questo tema, Foucault, La cura di sé, in particolare il capitolo L’ermeneutica del soggetto, a cura di F.Gros, Feltrinelli, Milano 2003, cit. pp. 238-253

[6] Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 60-61

[7] Simposio, Platone cit. da Semerari in Insecuritas, p.35.

 

Dalla rappresentazione artistica alla presentazione filosofica: il senso del Male nella contemporaneità

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Se esiste un legame per comprendere tanto l’arte contemporanea quanto le filosofie contemporanee, vale a dire i rapporti tra le due, questo può essere costruito nella relazione che l’ “immagine” (di un’opera d’arte o di una fotografia) instaura nei confronti dell’”altro da sé” cioè l’osservatore o l’osservatrice. Ci si chiede se è possibile, nel mondo moderno, dare valore a tale immagine senza ricondursi alla riproduzione digitale, ai mass media e ai sistemi pubblicitari come finzioni estetiche. In questo uno dei filosofi protagonisti del Novecento ovvero Ludwig Wittgenstein sostiene nel suo Tractatus logico-philosophicus che l’immagine mi dice se stessa” alludendo ad una bidimensionalità che appartiene non tanto all’artista e al messaggio che vuole trasmettere quanto alla relazione soggetto-oggetto tra il pubblico e l’opera.  Si può affermare che l’immagine non coincide con un’unità stabile già data ma ricerca al suo interno delle differenze, spesso contrastanti: da un lato attraverso una dipendenza dalla realtà dettata dai media o semplicemente il “ciò che appare” e dall’altro mostrando quello scarto che sussiste tra il virtuale e la realtà, quindi il “ciò che non si vede” come qualcosa di nascosto. Per usare la terminologia di Maurice Merleau-Ponty in Il visibile e l’invisibile, si può dire che quando guardiamo un quadro, lo sguardo non implica necessariamente un distacco e quindi un semplice “vedere” il quadro ma “si vede secondo” il quadro e con esso. Infatti, scrive a tal proposito, “la pittura, anche quando sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quella della visibilità”, quella visibilità, appunto, attraverso la quale l’artista fa apparire l’invisibile. L’artista così usufruisce dell’invisibile, come una molteplicità di rappresentazioni, che ha bisogno di un visibile per apparire, una forma da cogliere. Un intreccio aperto ad altre visioni oltre alla nostra, quindi quella bidimensionalità già trovata nel pensiero di Wittgenstein tra la il soggetto-oggetto visibile e il rimando all’altro da sé che caratterizza l’immagine artistica, l’invisibile. Viviamo in un universo estetico eterogeneo per l’abbondanza di immagini, di narrazioni, di design, di moda, di musica e di esposizioni. Per Adorno, filosofo contemporaneo appartenente alla scuola di Francoforte, l’arte è produzione dal proprio interno di quel “contenuto sedimentato”, vale a dire di quella storia immanente all’opera – l’immanenza all’interno della società- che si unisce con la sua forma, cioè con gli elementi sensibili dell’opera stessa. In questo Adorno, Merleau-Ponty e Wittgenstein si scoprono affini, nel ritrovare nell’immagine, intendiamo nell’opera d’arte, una “dimensione etica” oltre quella estetica apparente, che si traduce nella capacità di far emergere delle possibilità. Così non solo il vedere ma anche il corpo di chi osserva non è semplicemente un visibile di fatto tra i visibili, ma è visibile-vedente o sguardo. Questo stesso modo di intendere l’arte però, nella tradizione attuale, è stravolto dal continuo dominio della razionalità produttiva e mercantile che non elimina l’ “estetizzazione del mondo”, cioè il cogliere la bellezza in sé delle cose, ma rende il contesto artistico omogeneo e consumistico. L’arte non ha più come obiettivo l’esperienza dell’Assoluto, inteso come spirito mistico, trascendenza o Dio, ma stimola il consumo economico di tutti attraverso piaceri superficiali e immediati: ciò è de-grado culturale, la fine dell’armonia, della bellezza esistenziale e del sublime.

Con l’arte contemporanea del XXI secolo, già si fece strada il senso di un rifiuto verso un’ideale di bellezza come possibilità di salvezza dal Male, a causa delle tragedie storiche novecentesche segnando la fine dell’innocenza, della fraternità e dell’uguaglianza cari all’Ottocento. E’ qui che nasce il collegamento teorico tra l’immagine artistica e la realtà, perché l’estetica e il pensiero traggono la loro linfa vitale dalle possibilità non date dal mondo stesso, come la speranza e il desiderio di pace alla fine della guerra. Per questo, alla fine degli anni Sessanta, nella Teoria estetica, Adorno scrive che oggi non esiste “una promessa della felicità”, della quale parlava Stendhal, perché è evidente l’errore concettuale ottocentesco di  “autonomia estetica” non affatto autonoma poiché strumentalizzata e partorita dalla logica capitalistica della produzione delle merci, che al tempo stesso vi si oppone. Usando il principio della doppia negazione dello Hegel, quando nella Fenomenologia dello Spirito spiegava la dialettica servo-padrone, Adorno nega nell’arte da un lato la possibilità di autonomia dopo la Shoah, dall’altro respinge una possibilità di politicizzazione delle pratiche artistiche. Il metodo di negazione, inteso qui per “liberazione”, renderebbe l’opera d’arte indipendente dall’industria del mercato e sopravvivrebbe dopo la Shoah. Se si osservano opere come Guernica di Picasso o I disastri della guerra di Francisco Goya, in riferimento al rapporto tra arte e il Male, emergono in tal senso gli eventi storici con l’intento di in-formare e con ciò rendendo l’invisibile (la tragicità) in modo visibile.

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Un linguaggio simile rischia di dare importanza alla compassione a discapito della storia, per poi accontentarsi del solo stato affettivo solipsistico, cioè del solo relativismo. Nell’opera di Goya dei Disastri, si delinea una marcatura dello spirito patriottico dell’artista, che mostrerebbe gli spagnoli come vittime innocenti e eroi valorosi rispetto ai francesi barbari e carnefici. Ma questo non basta per definire l’ intero significato del contenuto artistico, ci sono ad esempio anche altre figure in Goya in cui sono gli stessi spagnoli a massacrare a colpi d’ascia i francesi. Infatti concetti come “violenza” e “insensatezza” si percepiscono a priori, come messaggi moralistici che lo stesso Goya vuole tramandare e che appartengono tanto alle vittime quanto ai carnefici.

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In questo punto emerge il possibile scambio degli oppressori e degli oppressi, dunque una violenza scatenata da forze fuori ogni controllo. Ma uno degli aspetti più maniacali di queste immagini non è tanto la violenza degli atti quanto l’indifferenza, che neutralizza l’ideologia e offre una visione distaccata di quanto accaduto. Non si può non far riferimento ad Hannah Arendt che in un drammatico passaggio (in uno dei saggi ora compresi nella silloge dell’Immagine dell’inferno) osserva, a proposito dei prigionieri dei campi di concentramento, che “morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo”; è chiara la descrizione dei Lager nazisti in cui l’inguardabile ci ri-guarda e ci disgusta: se questo provoca al contrario piacere, è sadismo e trionfo del Male. Si parla di “inferno” perché i dannati sono costretti all’infinità della morte ma se nell’inferno tali conservano la propria identità, nei lager è proprio tale identità che viene distrutta. Così la banalità del male, per dirla con la Arendt, si configura come una prospettiva che consente non solo di rappresentare il Male ma anche di pensarlo senza assolverlo: il Male è in-sensato in quanto visibile e non raccontato poiché negherebbe la sua illogicità. Quello che ne consegue è allora l’immagine dell’orrore che non riguarda solo la morte ma anche il disfacimento dei corpi, l’offesa alla dignità (anche in un senso ontologico) che la figura umana possiede e l’accanimento alla sua costitutiva vulnerabilità.

Concludendo con Primo Levi, si può affermare che l’arte contemporanea e le filosofie contemporanee possono considerarsi la soluzione finale in cui “a essere revocata in questione è la stessa umanità” in cui ciò che conta è il divenir-uomo e il divenir-donna nelle irriducibili differenze , in uno stesso viaggio tra binari differenti ma entrambi posti “di fronte alla lotta per la vita”.

 

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