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Gabriele Pastrello

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Nato a Modena nel 1941. Laureato in Economia e Commercio a Bologna. Perfezionamento presso la Scuola Superiore di Pianificazione e Statistica e l’Accademia Polacca delle Scienze a Varsavia. Dal 1994 al 2011 docente di Economia Politica e Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Vari periodi di ricerca presso il Vienna Institut for Comparative Economics. Più volte Visiting Scholar presso la Faculty of Economic and Political Sciences a Cambridge. Autore di contributi pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Commentatore sul Piccolo di Trieste e del Manifesto. Ha ultimamente pubblicato La Germania: il problema dell‘Europa? per i tipi dell’Asterios Editore (Trieste, 2015)

Pulce 2. Dopo il peccato, il perdono

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Φιλαπεχθήμων

 

L’Abbaglio

Che si sia trattato di un abbaglio lo scrive Heidegger stesso in una lettera ad un’amica della moglie Elfride, Elisabeth Blochmann. Con Elisabeth, dagli anni Venti in poi, Hei­degger ebbe una lunga cor­rispondenza. Elisabeth, ebrea e nazista convinta, dovrà emigrare in Gran Bretagna. Heidegger stesso si darà da fare per trovarle una sistema­zione come studiosa di pedagogia, a Cambridge. Tanto era nazista convinta che, agli inizi, faticherà a comprendere il perché non venissero capite dagli inglesi le sue ragioni di adesioni al nazismo (da cui comunque era stata esiliata; continuava cioè evidentemente a considerare l’antisemiti­smo nazista come un eccesso contingente, e non fondativo, com’era). Tornerà in Germania nel dopoguerra, come docente di pedagogia, molto cambiata, al punto da confessare che la tonalità esaltata della corrispondenza con Heidegger dei primi anni le è ormai estranea, i cui fiammeggianti discorsi le erano spesso, già allora, incomprensibili.

Ma è la comune adesione al nazismo a rendere particolarmente rilevante, in quanto riservato, solo tra di loro e per di più unico, il passaggio di una lettera dell’inizio del 1947, in cui Heidegger si domanda se sia possibile: “semplicemente…contrapporsi all’esplosione dell’inu­mano che non abbiamo subito riconosciuto nella sua astuzia e a cui troppo sconsideratamente abbiamo lasciato il gioco del potere» [sot­t.; cors.;­grass.- Φ]. L’esplosione di cui si tratta che non è stata rico­nosciuta nel passato, non può che essere il nazismo. Come dice in un’altra lettera del marzo 1948: ”Già dalle esperienze del 1933 [e quale altre possono essere se non nazismo e Rettorato? – Φ] mi è divenuto chiaro che le nostre concezioni europee correnti non sono sufficienti per pensare ciò che è già da tempo – ed è deciso”.

Ma forse più importante è chiedersi se si possono dare dei perché per quell’abbaglio. Sempre alla Blochmann scrive nella stessa lettera del 1947: «resta la domanda, se questa realtà sia un inizio oppure solo la fine di un processo che da tre secoli definisce l’epoca come età moderna. Gli avvenimenti che oscurano il pianeta non possono essere gli artifatti di singoli uomini, che fungono solo da sgherri» [sott-Φ]. Qui sta pro­babilmente la radice dell’abbaglio. Nella domanda retorica del periodo è implicito che, giunti a quel punto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, Heidegger ritiene quel processo sia appena all’inizio. Ma allora quando gli può essere apparso come fine? Ovviamente prima della guerra, in quel ventennio di sconvolgimenti segnati da Tempeste di acciaio. Aver scambiato un’al­ba per un tramonto è la radice dell’abbaglio. Le cose erano appena iniziate. Se solo con il nazismo la Germania incontra la tecnica, come dice Heidegger, allora era un’inizio. Aver pensato che il nazismo fosse il segno della fine del­l’eone, una fine anticipata e desiderata (tutta la meditazione della svolta è rivolta al nuovo inizio); in questo era consistito il suo abbaglio. Questi abbagli non sono rari. Tutti noi abbiamo pensato che la grande arte degli anni Venti e Trenta fosse un’alba, e invece era un tramonto. Anche Marx pensava che il capitalismo che aveva sotto gli occhi fosse alla fine, e invece era all’inizio; il movimento socialista non ne stava accelerando la fine, come pensava, ma forse stava accelerando solo la fine del cominciamento dell’inizio.

I Prigionieri

Gli anni Trenta europei vedono uno strano pullulare di prigionieri dei propri amici. Fatto che ricorda il titolo di un film del regista russo Michalkov, Nemico tra gli amici, amico tra i nemici.

Ci suggerisce il fenomeno Carl Schmitt che, in Ex captivitate salus, fa un parallelismo tra la propria situzione durante il nazismo e quella descritta nel romanzo breve di Melville, Benito Cereno, che racconta di una rivolta di schiavi a bordo di una nave che li trasportava. Il racconto di Schmitt suscita sulle prime un po’ di diffidenza, alimentando un sospetto di retorica autoassolutoria. Eppure, guardandosi intorno, si vede una molteplicità di casi che presentano caratteristiche analoghe.

Peraltro, anche riferendosi a Schmitt, si coglie un elemento di verità. E la si coglie, paradossalmente dove appare più allineato al regime. Bisogna partire dall’idea che Schmitt è uomo di destra, ostile al mondo liberale. E’ la cecità del liberalismo alla tra­gicità del ‘politico’ che suscita il suo antagonismo intellettuale (ma qualcuno, prima o poi dovrà interrogarsi sulla strana duplicità del liberalismo: efficienza pratica & superficialità teorica. Che – in epoca di mobilitazione di massa – sia necessario rimuovere la radice dei problemi per poterli affrontare? Che nell’atteggiamento opposto stia la tragedia dell’impotenza del realismo politico?) Ma non poteva essere il nazismo la sua soluzione: troppo ctonio, per un aristotelico romano. La sua soluzione era piuttosto l’ex-Capo di Stato maggiore tedesco Kurt von Schleicher, ucciso nel giugno 1934 nel quadro della vendetta di Hitler sui suoi nemici politici – la notte dei lunghi coltelli. Schmitt aveva difeso dottrinalmente nel 1931 la linea propugnata da Schleicher dell’uso dell’art. 48 della Costituzione di Weimar per giustificare l’eserci­zio di poteri eccezionali del Presidente della Repubblica. In quel­l’occasione mise in guardia contro coloro che, giunti al potere secondo le regole, si chiudono la porta dietro, impedendo ad altri di contestarglielo (difficile pensare che avesse in mente altri che i nazisti). Eppure quando Schleicher fu ucciso scrisse un articolo dal titolo Il Führer difende il Reich, apparen­temente di approvazione, o quantomeno di accettazione dell’as­sas­sinio. Articolo che però, guarda caso, ai nazisti non piacque. Forse nella paradossalità dell’arti­colo e del suo titolo, è celato il lato ‘Benito Cereno’ della situazione? Po­teva attaccare? Impossibile: conosceva bene i nazisti; inoltre, non era un oppositore, e certo non in nome della democrazia liberale o del socialismo. Poteva so­lo ‘dissentire’ eccedendo nell’approva­zione, conoscendo bene l’os­ses­sione dei na­zisti per la dissimula­zione (di cui scrisse; e come si vide anche nella loro condu­zione del­la ‘soluzione finale’). Così visse, da prigioniero di amici.

Ernst Jünger è forse un altro caso simile. Protagonista della Rivoluzione conserva­trice, at­traversò il nazismo senza aderirvi attivamente (rifiutò sempre la direzione del­l’as­socia­zione degli scrittori nazionalsocialisti che Göbbels gli offrì ripetutamente); ebbe qualche guaio per collaborazionismo, ma neppure troppi (meno di Heidegger, comunque). I due saggi, La mobilitazione totale e Il lavoratore basati, come sostiene Heidegger, su una metafisica della volontà di potenza di origine nietzschiana, parlano di una svolta epocale, il cui nucleo non si attaglia solo ai nazisti; per quanto que­sti sia­no sicuramente – anche se non i soli – il partito della mobilitazione totale. Non poteva che stare con loro, dato il pregresso di esperienza storico-politica: dalla Prima Guerra Mondiale alla breve esperienza nei Freikorps. In fondo un alleato scomodo, ma protegé, più di Heidegger, ma con meno noie dopo. Anche lui in qualche modo prigioniero tra amici. (Sia ben chiaro, questo giudizio è un lusso che ci si può permettere di formulare solo grazie alla distanza storica. Subito dopo i fatti non si poteva che chieder conto della cecità e della contiguità col nazismo)

Un altro personaggio soggetto a una strana prigionia è Karl Jaspers. Non si vuole qui assolutamente mettere in dubbio il suo essere anti-nazista – anzi, è stato tra i giudici anti-collaborazionisti nel dopoguerra – e quindi le ragioni politiche (che seguono cronologicamente quelle filosofiche) del raffreddamento con Heidegger. Si vuole solo mettere a fuoco un aspetto che fa di lui un prigioniero, tra nemici stavolta, ma in modo strano. Jaspers, durante tutto il periodo nazista, è vissuto in Germania, è emigrato solo nel dopoguerra, con un gesto di rifiuto del paese veramente significativo. E aveva anche una moglie ebrea. Eppure non gli successe nulla. E ci si può chiedere come mai. Perché non è emigrato? Molti lo fecero, e i nazisti li lasciarono andare. Era os­tag­gio? Perché? Ma pur ricadendo sot­to le durezze delle leggi razziali, ed essendo a intermittenza minacciato, non fu mai toccato, né lui né la moglie ebrea. Non si può fa­re nient’altro che una congettura. Che forze interne di stampo liberale, che pure avevano permesso ai nazisti la presa del potere, lo abbiano protetto perfino nel periodo 1939-42, in cui lui temette di più, giustamente, perché ormai la guerra aperta esimeva i nazisti dal rispettare accordi precedenti (difficile pensare che, in quelle condizioni, un qualsiasi funzionario nazis­ta, a qualsiasi livello, non a­vesse voluto, potendolo, appuntarsi senza sforzo la medaglia del suo internamento; chi avrebbe mai difeso un marito di moglie ebrea, e la moglie stessa? E perché mai?). Un prigioniero tra i nemici, ma protetto da (ignoti) amici.

Caso simile, ma ancora più chiaro, quello di Benedetto Croce in Italia. Inizialmente vi­cino al fascismo, se ne distaccò dopo il delitto Matteotti. Ma la sua opposizione fu sempre mantenuta in ambiti ideal-filosofici, e ristretta in ambienti sociali elitari, come quelli che potevano gravitare intorno alla sua rivista La critica liberale. Anche se per varie ragioni, il regime fascista non raggiunse mai la chiusura totalitaria del nazismo, comunque Croce va considerato un prigioniero, protetto da varie forze, tra cui probabilmente anche la Monarchia.

Ma il fenomeno dei prigionieri non riguarda solo la destra europea. Cos’era il buchariniano Togliatti, per quanto dirigente del Komintern, all’hotel Lux a Mosca? Un prigioniero di una linea politica, emanante da Stalin, di cui aveva accettato con glaciale lucidità l’inevitabilità storica, dandosi il compito di salvare il suo partito (cui assegnò il com­pito di cambiare l’Italia radicandolo nel pensiero politico del compagno di lotta Gramsci) dalle tragedie della purghe staliniane, in cui scomparirà ad esempio il partito comunista polacco (oltre che lo stesso Bucharin e tanta parte della direzione storica del partito bolscevico – cioè la frazione socialdemocratica maggioritaria –  russo). Tornato in Italia si parlerà molto della doppiezza togliattiana, intendendo che parlava di democrazia e pensava alla rivoluzione; ma Pietro Ingrao, testimone di quei tempi, sosterrà che la doppiezza andava letta all’inverso: parlare di rivoluzione e intendere democrazia. Per non parlare di Gramsci, doppio prigioniero, di nemici, il fascismo, ma anche di amici; come quando a Turi, al confino, si trovò isolato, e guardato con sospetto, dagli altri compagni di partito in confino che avevano accettato senza riserve la svolta del socialfascismo del VI Congresso del Comintern. Si è molto polemizzato sulla pre­sunta mancanza di iniziativa togliattiana per raggiungere un accordo con Mussolini per liberarlo. Ci sono stati di recente interventi importanti come quelli di Vacca e Can­fora a chiarimento di punti controversi. Qui si porrà una sola domanda: se fosse stato liberato negli anni Trenta, dato il pregresso – la lettera contro la direzione politica Stalin-Bu­charin del 1926 che Togliatti non rese nota, e il dissenso nei confronti della linea del socialfascismo nel 1929 – sarebbe sopravvissuto Gramsci a Mosca durante le purghe degli anni Trenta? Forse c’è davvero una zona grigia. Forse Togliatti afferrava meglio la situazione.

Solo sullo sfondo degli anni Trenta come decennio di prigionieri tra gli amici si può capire meglio il caso Heidegger. Che Heidegger sia stato politicamente di destra è am­piamente noto. Che per anticonformismo, e un tratto personale antiborghese, potesse guardare con simpatia alla Rivoluzione conservatrice, ai caratteri eversivi ‘anti-borghesi’ del nascente nazismo (presenti anche nel futurismo e nel fascismo) e alle sue promesse di smantellare le consorterie tradizionali, è abbastanza scontato.

Ricordiamo comunque che l’ascesa politica del nazismo – da partitino al margine a forza politica nazionale – fu drammaticamente rapida, dal 1931 al 1933, laddove Heidegger diventa una figura filosofica mondiale a metà degli anni Venti, ben prima dell’affermarsi pubblico del nazismo. Dal 1923 al 1929 Hitler è solo un caporale austriaco, un pittorucolo fallito, che insieme a un generale già glorioso, ma emarginato, Lundendorff, ha tentato un putsch a Monaco, partendo da una birreria. É solo il 1929 che trasforma Hitler in Hitler, come altrove ha trasformato Keynes in Keynes. Aggiungiamo che la pericolosità del movimento non fu capita quasi da nessuno; certo non dal Segretario di Stato del Vaticano, mons. Pacelli che, nonostante gli undici anni passati in Germania come Nunzio, o for­se proprio per quello, permise ai nazisti di raggiungere il quorum necessario per il Machtergreifung del 1933 solo grazie ai voti del partito cattolico del Centrum. Né sollevò particolare inquietudine l’antisemi­ti­smo totale – fino all’estrema conseguenza dell’annichilazione – enunciato in Mein Kampf (perfino in ambienti ebraici la cosa fu sottovalutata). E’ impressionante la cecità di fronte al fenomeno Hitler che emerge dalle dichiarazioni pubbliche sul tema – in tutti i paesi europei e su tutto lo spettro politico, dal 1931 al 1933 – raccolte dallo storico Alfred Grosser (troppi ragionano a partire dal­la conoscenza che ne abbiamo oggi). Solo Simone Weil fece eccezione.

Diciamo che Heidegger fu colpevole di un temporaneo entusiasmo per il nazismo in un quadro di cecità pubblica – la norma in quel periodo – rispetto alla sua pericolosità. Da cui l’accettazione di una vicinanza che lo portò al famigerato Rettorato del 1933, da cui si dimise nel 1934. Se scandalizza così tanto l’abbaglio in un pensatore, cosa dovrem­mo dire di un futuro Papa? E perché mai l’adesione di Heisemberg al nazismo, du­ratura, convinta, secondo la testimonianza di Niels Bohr – e che solo per caso non giunse alla produzione per Hitler della bomba atomica – è generalmente rimossa? L’adesione al nazismo fu breve, ma gli effetti furono devastanti. D’altronde, mettiamoci nei panni di allievi di tutto lo spettro politico, ebrei e non ebrei. L’incom­pren­sio­ne del nazismo è una cosa, ma coloro che si sentivano oggetti dell’odio totale dei nazisti non potevano che ricambiare. Che, in queste correnti di odi politici un venerato maestro si mettesse da quel lato non poteva che sconvolgere.

Peraltro il discorso di Rettorato e­semplifica alla perfezione quello che Hannah Arendt scrisse in occasione dell’ottan­te­simo compleanno di Heidegger: Heidegger la volpe, così astuto che si mette in trap­pola da solo. In un discorso, come quello, peraltro ampiamente frainteso per superficiale malafede, ma politicamente necessariamente alli­neato (Per convinzione? In parte certamente si. Peraltro, se non lo fosse stato affatto, che senso avrebbe avuto accettare la carica; non solo per sè, ma per i colleghi che glie­l’ave­va­no chiesto?) Heidegger interpola due passaggi agli antipodi (il lato Benito Cereno della vicenda) della politica e della volontà dei nazisti riguardo l’università e la cultura: a) la scienza non dev’essere politica, come invece voluto dal partito; b) tra i vari servizi enumerati, quello del sapere dev’essere il primo; e neppure questo po­teva piacere al partito, anzi. Ci sono biblioteche sul nazismo di Heidegger, pro o contro, o forse più contro che pro. E’ inutile tentare di attraversarle. Un autore che nel­l’incipit dell’Origine dell’opera d’arte del 1935-36 (anni del trionfo nazista, e della prospettiva del Milleminium del Reich) inizia parlando degli scarponi in un quadro di Van Gogh (arte degenere quan­t’al­tre mai) non ha, non può avere, nulla di spiritualmente in comune con il nazismo. Inoltre, già nel Rektoratrede e successivamente insisterà nel dire che la parola necessaria al popolo tedesco per installarsi nella sua storicità è quella di Hölderlin; sottolineando per di più (in una lettera alla Blochmann) la “falsa attualità” di certe espressioni del poeta, ovviamente per differenziarsi da possibili letture naziste. Certo, in privato; mantenendo una possibile ambiguità pubblica (il suo lato di volpe). Concludendo, un prigioniero del proprio abbaglio. Come gli altri prigioniero in e di un’epoca di mobilitazione totale, la caratteristica epocale che è all’origine di quelle prigionie.

Il Perdono

Nel dopoguerra Heidegger fu fatto oggetto di innumerevoli richieste di autocritica. Cer­to ci fu una notevole dose d’orgoglio nel suo silenzio. Come ci fu una notevole dose di invidia e malanimo nel farle. Così come sono eruditamente illogiche le ar­gomentazioni che tracciano parallelismi tra il nazismo e il pensiero di Heidegger. ovviamente rimuovendo il banale fatto che il percorso fondamentale di Heidegger fino agli inizi della svolta (nei Problemi fondamentali della fenomenologia) è già attuato nel 1927 (quando l’NSDAP era un partitino extraparlamentare, senza alcuna audience di massa). Dopo ci sarà solo il lungo cammino a partire dal naufragio. Che poi quel pensiero abbia preparato il nazismo, il non voler prendere sul serio il fatto che Heidegger considerasse le elaborazioni ‘teoriche’ dei nazisti (v. Rosemberg) come deliri, è una tesi segno solo di malafede. (O qualcuno pensa che ogni bravo membro delle SA o SS tenesse Sein und Zeit sul comodino. Assurdo). Malafede che consiste nel non voler distinguere un’adesio­ne contingente al ‘partito’ nazista, per quanto derivante da un abbaglio fondamentale, con l’essere radicato nella stessa essenza spirituale – che spirituale è, anche se, come affermato da papa Wojtyła, è il male assoluto – del nazismo.

Questo è vero per l’a­desione a qualsiasi partito. Figurarsi quello ‘nazista’.

Ma il vero punto è che c’era una ragione più profonda per cui non si ‘giustificava pub­blicamente’. Ed è che probabilmente non riusciva a ‘perdonarsi’ nel suo foro interno. In lui c’era sicuramente la υβρις di pensare: cosa mai possono capire gli altri del mio percorso di pensiero? Jaspers e la Arendt lo accusarono spesso di autogiustifica­zione facile e pusillanimità.  Ma davvero poteva – proprio per l’orgoglio che lo con­trad­di­stingueva – sottrarsi privatamente alla domanda: come ho fatto io a sbagliare? E, infatti, che non riu­scisse a perdonarsi facilmente per l’ab­baglio lo mostrano i lunghi anni impie­gati per riuscire a darsene conto. Cos’altro, infatti, è il Nietzsche (su cui lavorò quasi un decennio, per non contare tutti gli scritti successivi in cui è ritornato su quei temi) se non la propria personale resa dei conti con il suo abbaglio, con il fatto di non aver riconosciuto nel biologismo di Nietzsche l’anello che lo congiungeva con il nazismo (v. nel Nietzsche del nazista Bäumler il capitolo Il corpo). Collegamento Nie­tz­sche-nazismo plau­dito entusiasticamente dalla sorella, quell’Elizabeth Förster-Nie­tzsche, moglie di uno dei principali promotori (disprezzato da Nietzsche stesso) della dis-locazione raz­ziale dell’anti-giudaismo, l’anti­semiti­smo. A­nello Nietzsche-nazis­mo alla cui demoli­zione è dedicato tutta la sua meditazione post-1934. Scrive già nel 1937 alla Blochmann: «In Nietzsche l’enigmaticità è spinta all’estre­mo. In quanto sprofonda…nel più rozzo biologismo…proprio nella più sconsiderata esagerazione…vuole qualcosa di totalmente diverso…e lo ottiene…senza saperlo organizzare nell’opera decisiva» [grass.;cors.- Φ].

Forse lui poteva ‘giustificarsi’; ma perdonarsi? Eppure c’era qualcuno che poteva farlo: Hannah Arendt. Sono ormai note le circostanze di quell’amour fou che legò nel 1925 il filosofo trentaseienne alla diciannovenne allieva, rotto dopo pochi anni. Così come sono note le vicende successive della Arendt, esilio nel 1933, matrimoni, produzione di filosofia politica in cui risuonano, ma rielaborati in autonomia, e con grande personalità, temi e richiami a terminologie del filosofo. Negli anni Quaranta, dopo la guerra, si era espressa ripetutamente in modo severo su Heidegger nelle sue lettere a Jaspers. Ma, all’inizio del 1950 accettò di rincontrarlo. Di questo incontro e del suo esito sono state date da alcune commentatrici versioni minimizzanti. Forse nell’ansia di irridere lui non si accorgono di insultare lei, attribuendole un modo di essere da donnetta. Come si fa a pensare alla Arendt, che si scioglie alla vista del­l’antico amore? C’è stato Auschwitz di mezzo, e ci sarebbe potuta essere anche lei, come c’era stato il suo mondo.

Non vi è tribunale più severo per un uomo di una donna che l’ha amato a fondo e che si chiede chi abbia veramente amato. Se la donna è per di più intellettuale il tribunale diventa terribile. Se la donna oltre al resto è ebrea il tribunale diventa implacabile. Perché è la donna stessa a essere in giudizio. Lei deve sapere se ha commesso l’errore della vita; e qui l’errore sarebbe doppio: di cuore e di testa. Nessun anfratto verrà risparmiato, nessuna sfumatura resterà non scandagliata. Hannah Arendt, donna, intellettuale e ebrea, aveva tutte le ragioni e capacità per un simile processo. Solo lei poteva decidere sul peccato di Heidegger. Che la decisione sia stato un perdono ce lo dicono le parole scritte dopo l’incontro: “Questa sera e questa mattina sono la conferma di un’in­tera vita” [sott- Φ]. Conferma; non si era sbagliata ad amare Heidegger. È da questo giudizio e dal conseguente perdono che nascerà l’affetto che verrà, o tornerà, dopo il ‘giudizio’ (e non pri­ma, secondo la versione da romanzetti rosa), come testimonia lo scritto per gli ottan­t’anni di Heidegger, “u­na volpe astuta ma priva di scaltrezza”, che “aveva passato tutta la vita in una trappola”.

 

Pulce 1. Una nota sui Nachlass

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Ci sono nachlass e nachlass. Ci sono, infatti, nachlass e nachlass: cose lasciate a dopo, e cose lasciate per dopo.

I lasciti di Marx e Keynes appartengono al primo tipo. Masse incredibili di manoscritti, ragionamenti, pezzi di carta. Lettere, appunti, tutto lasciato indietro semmai eventualmente a un dopo. Cose incompiute, eventualmente da tirarci fuori qualcosa, come Marx disse a Engels per i suoi manoscritti. Lo stesso vale per Keynes, nel cui lascito si vede la mobilità dei ragionamenti che seguivano il muoversi delle situazioni, producevano rapporti, lettere, testi e poi via per altri problemi,

In questo tipo di lasciti si possono trovare vere e proprie perle, non visibili nei testi completi, riflessioni accennate e poi abbandonate. Nei manoscritti economici inediti di Marx si può vedere l’emersione del piano finale del Capitale rispetto alle prime elaborazioni; in quelli di Keynes intorno al Trattato sulla moneta è leggibile tutto il percorso tormentato che preluderà alla ripartenza della sua riflessione, e che lo porterà alla Teoria Generale.

Del secondo tipo sono i lasciti di Sraffa e Heidegger. Si dice di Sraffa che abbia accuratamente distrutto tutti i frammenti, le annotazioni che non quadravano con l’imma­gine che voleva dare della sua riflessione. Heidegger curò con molta attenzione tutti gli inediti. Ambedue hanno lasciato inediti al preciso scopo di completare la loro opera, senza lasciare nulla al caso, secondo le loro linee di pensiero. In un certo senso, secondo la loro stessa auto-interpretazione.

Adesso sono usciti i Quaderni Neri, intorno a cui è stata sollevata una agitazione indecorosa, per le presunte prove inedite del suo ‘nazismo’. Ma, oltre a queste ‘prove’, i Quaderni sono una miniera di osservazioni accuratissime di Heidegger, che mostrano riflessioni molto intime del filosofo su temi che appartengono a pieno titolo al periodo della Svolta, della Kehre dopo il naufragio di Essere e Tempo. Si tratta di pensieri estremi, che indicano l’oltre, sul cui percorso Heidegger si era mosso per indicare, suggerire, alludere, mostrare quel ‘secondo inizio’ del pensiero occidentale che era già sottotraccia il movimento profondo nella sua opera maggiore. La massa di riflessioni, e la loro ampiezza tematica ha suggerito una linea interpretativa che sostiene che questi inediti siano la vera chiave di lettura della Svolta.

Si tratta, a mio parere, di un abbaglio.

 

Solo muovendosi sul percorso della Svolta si può pensare di incamminarsi, grazie ai pensieri estremi verso quell’oltre cui Heidegger cerca di condurci. È l’appropriazione della Svolta che può aiutare a capire – come impropriamente si può dire – i pensieri estremi; non il contrario. Ma ricordando che i pensieri estremi se pure indicano, sono anche appesantiti da quel non-pensato, come l’ombra del corpo che non si può saltare, cui nessun filosofo può sottrarsi, e che attende colui che, pensandolo, potrà capirlo meglio di quanto lui si sia compreso.

Ma, a sua volta, ci si può incamminare sul percorso della Svolta solo se si è riusciti a pensare il ‘naufragio’ di Essere e Tempo. Perché Essere e Tempo è già in cammino verso il ‘nuovo inizio’. Ma ancora sottotraccia, attraverso il linguaggio della metafisica, che lui cerca di forzare. Ma lui stesso cominciò a riconoscere nell’incontro con Jaspers che quel tentativo era destinato al fallimento senza il proprio linguaggio, che peraltro significa senza il proprio pensiero.

Ma pensare il naufragio è già incamminarsi sulla Svolta, in direzione dell’oltre. Il resto è solo, talvolta stimolante, più spesso inutile, esegesi.

Marx & la maternità surrogata

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Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili, né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.

Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la sua novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.

Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare ciò di cui si trattava la vendita che era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica e non di comprensione immediata la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro). Ma si trattava anche in questo caso di una ‘forza’ solo possibile, non nella sua attuazione. Tant’è vero che Marx parla di ‘muscoli e nervi’, come a dire che in vendita è la ‘forza’ che il lavoratore ‘potrà’ esercitare, venduta ‘prima’ che venga messa in atto. Tanto è vero che, per quanto caso raro e ovviamente contro-intuitivo, il capitalista può comprare questa ‘capacità’, e non usarla. E infatti, coerentemente, Marx definisce il ‘lavoro’ come l’«uso» della forza-lavoro. Il lavoro è l’azione, ma la forza-lavoro è la possibilità di attuarla.

(La possibilità è tale infatti perchè è diversa dalla sua attuazione; differenza per cui rinvio alla prima discussione tra Aristotele e i Megarici; Metafisica, libro Θ; forse per quello Marx ne era così fiero).

Con questo ripassino adesso siamo in grado di capire meglio, seguendo Marx, di cosa si tratta quando si parla di ‘maternità surrogata’: della compravendita di una capacità, unicamente prerogativa delle donne, la «capacità procreativa». Quindi nessuna vendita del corpo o di una sua parte, come lo stupidario dominante ha profuso a piene mani. Quindi elaborando da sciocchi sulla parte del corpo implicata, la vagina (prostituzione) o l’utero, organi di cui peraltro sarebbe ceduto solo l’uso (o in affitto, come si dice, seguendo l’uso anglosassone per il caso del ‘lavoratore’, hired; equivocando ‘uso’ e ‘possesso’, com’è nel caso del leasing di una macchina, o di una casa).

La Bonino, poi, ha avanzato un’analogia demenziale, paragonando la ‘maternità surrogata’ alla cessione dei reni. Nella donazione dell’organo, come anche nel caso dei fluidi come il sangue, l’oggetto passa fisicamente dal corpo del donatore a quello del donato, fatto che non ha assolutamente nulla in comune con quello di cui si parla. Perché l’oggetto (il figlio) non c’è nel momento del contratto (come invece necessariamente ci deve già essere nella donazione di organi e fluidi), e il donante resta in possesso sia dell’organo implicato nella capacità, che della capacità stessa.

Quindi vendita di una capacità. Ma non di una qualunque capacità di mettere in atto una qualsiasi abilità. Si tratta della capacità che ‘definisce’ solo ed esclusivamente l’individuo ‘femminile’ della specie: la donna. Tanto è vero che tutti coloro che, per loro sfortuna, non si ritrovano nel sesso del corpo che il caso gli ha assegnato, possono certo modificarne l’aspetto esteriore, per attenuare la loro infelicità, ma non certo completare la trasformazione con il ruolo riproduttivo del sesso cui aspirano; di cui sono quindi solo ‘apparenze’ (esseri comunque incompiuti).

Perchè le donne non sono donne in quanto hanno capelli lunghi, begli occhi e altre parti del corpo apprezzate da altri esseri che le desiderano sessualmente (uomini o donne che siano). Ma perché tutta la loro fisiologia parte e si organizza intorno a questa capacità esclusiva. Chiunque o qualsiasi cosa ne sia stata la ragione (Dio e la sua creazione come dice la Bibbia, o secondo un ‘progetto intelligente’ come dicono i ‘creazionisti’ – la versione scientista della rivelazione biblica -, o l’evoluzione) alla fine della fiera siamo arrivati alla distinzione degli esseri umani in due individualità fisiologicamente distinte, che devono cooperare per garantire continuità a questa specie che popola la Terra, ma di cui un individuo, il maschio, contribuisce solo in modo effimero, mentre l’altro, la femmina, porta tutto il carico dell’attuazione di questa ‘possibilità’, la procreazione.

Per favore non tiriamo fuori argomenti da Bar Sport; che non tutte le donne hanno istinto materno, che ci sono oggi donne che preferiscono la carriera, che ci sono coppie sterili (in genere uno o l’altro dei due), oppure anche se non lo sono per vari motivi hanno preferito, o gli è capitato di non avere figli. La Natalia Aspesi scrive che la massima libertà della donna è di ‘non’ fare figli. Giusto, ma solo le donne possono scegliere di ‘non’ farli. All’uomo questa scelta è inibita; semplicemente non può. E questo non-potere è di tutt’altro genere delle im-possibilità che possono capitare a un essere femminile, di patologie pre- o post-natali, o altri contingenze che le privino della facoltà. Perchè per l’appunto ciò le ‘priva’ di una ‘loro’ facoltà, cioè fa’ di quella donna una singola donna ‘senza’ quella facoltà; mentre non ci possono essere ‘singoli’ uomini ‘senza’ la facoltà di procreare, perché ‘nessuno’ ce l’ha.

Tutto quello che si interpone tra una possibilità e la sua attuazione è contingenza. Ma la possibilità, unica ed esclusiva, è prerogativa dell’essere femminile della specie. Come sappiamo bene da tutti i casi a noi noti, di amiche e conoscenti che hanno scelto comunque di avere un figlio sotto la pressione dell’orologio biologico ‘che ticchettava’, come si usa dire (e la ‘realtà’ di questo orologio è del tutto inconferente). Di averlo indipendentemente da un’unione, stabile o meno, con la stessa persona, magari scelta apposta, che aveva contribuito. A maggior ragione se il contributo era casuale. Mentre non mi risulta assolutamente di maschi single che si siano sbattuti intorno per realizzarsi come padri; mai sentito in tanti anni. Questa differenza abissale nei comportamenti di fatto qualcosa vorrà dire, al di là delle chiacchiere.

Una capacità in vendita in questo mondo capitalistico ha dinamiche note e direi necessarie; ce l’ha insegnato il solito Marx.

Sappiamo dalla notorietà del caso Vendola che esiste a San Diego un’agenzia di intermediazione, la Extraordinary Conceptions che, come molte altre suppongo, mette in contatto coppie che vogliono un figlio con candidate gestanti-&-partorienti. Un tipo di rapporto che ricorda il Verlagsystem (industria a domicilio), che ancora nel­l’Ottocento era diffusa in Europa e in Inghilterra era stata caratteristica dei primi decennio del decollo. Marx lo chiamava ‘sussunzione formale’ del lavoro sotto il capitale. Il capitalista forniva risorse al ‘produttore’ casalingo e poi raccoglieva il prodotto e lo distribuiva. Ma il produttore non lavorava sotto il controllo ‘diretto’ del capitalista; da cui il termine di Marx ‘formale’, nel senso che il mercante-capitalista pagava un ‘prodotto’, ma non un ‘salario’. Cioè il rapporto aveva a che fare solo con la ‘forma’ di merce del prodotto, e non con la produzione della sua realitas, di ciò che la merce è, come quando il processo è sotto controllo completo del capitalista, nella fabbrica in cui si attua la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale.

Qui c’è maggiormente (quantomeno finora) l’aspetto di agenzia di intermediazione; ma l’analogia è comunque utile.

A quanto si sa dal caso Vendola, la cifra complessiva del prezzo da pagare è di 150mila dollari, anche se non è chiaro a quanto ammonti l’intermediazione. Non poco, se da altre fonti si parlava di compensi da 35mila a massimi di 50mila dollari. Dal Corriere leggiamo che: “Una volta completata la registrazione in cui si forniscono le generalità della coppia, la nazionalità, l’orientamento sessuale e il trattamento desiderato si ha accesso all’elenco delle donatrici, che in tutto sono duemila, e a quello delle portatrici, che invece sono solo cento. È possibile fare una ricerca mirata della persona che cerchiamo indicando razza, orientamento sessuale, studi fatti, età e se richiediamo un aborto in caso di malformazioni o una eventuale riduzione fetale”. Insomma: intermediazione, mercificazione e anche una spruzzata di eugenetica. Un complesso davvero profumato.

Il numero stesso delle donatrici di ovulo – rispetto alle ‘portatrici’ – suggerisce che il mercato cui l’agenzia si rivolge oggi è, quantomeno in prevalenza, omosessuale. Ma sono possibili sviluppi ulteriori, proprio nel comparto eterosessuale che potrebbe far crescere la dimensione del mercato in modo esponenziale e far fare un salto alla sussunzione reale. Cioè la formazione di cliniche-complessi in cui il processo fosse messo sotto controllo dall’inizio alla fine. Dal Verlagsystem all’industria.

Non è infatti impensabile che una volta che le coppie omosessuali abbiano aperto il mercato e si siano assunte i primi rischi di una nuova pratica questa si possa espandere. Se ricordiamo l’esplosione del parto cesareo non dovuto a esigenze cliniche ma solo al desiderio di ridurre gli inestetismi post-parto delle signore partorienti, non sembra impossibile un nuovo passo avanti.

Si potrebbero infatti organizzare cliniche cui coppie con mezzi si rivolgano per separare il concepimento dal processo successivo, gestazione e parto. Una volta prodotta la fecondazione la gestazione verrebbe portata avanti da donne selezionate, molto probabilmente di etnie di solidità fisica (tra le europee negli ultimi decenni si sono moltiplicate infatti le fragilità e i rischi legati alla maternità); quindi sudamericane, asiatiche o africane direi. Gli eventuali rischi residui poi potrebbero essere coperti da adeguate contro-assicurazioni.

In questo modo le signore potrebbero evitare le noie e i pericoli anche della gestazione per non parlare dei dolori e dei rischi del parto; nonchè gli inestetismi del post-parto. Una volta affidato l’ovulo fecondato della coppia – o comunque sia – alle amorevoli cure della clinica, la signora potrebbe condurre la sua vita famigliare, sociale e professionale in piena libertà. E alla fine ne avrebbe comunque il frutto desiderato. Poi dopo ci saranno altre donne cui affidarne la gestione. Ma questo si è sempre fatto. Era nella prima fase che fino ad ora la fatica e il rischio dovevano essere assunti di persona. E così giustificare l’appellativo di ‘madre’. Il sarcasmo non nasce dal fatto di voler evitare fatiche e rischi; è umano. Ma dal fatto di approfittare di condizioni di povertà altrui per scaricarli.

Ovviamente le donne di fasce di reddito inferiori continuerebbero a gestirsi la gravidanza nelle modalità tradizionali. Ma per quelle delle fasce di reddito superiore sarebbe possibile ‘esternalizzare’ la produzione dei loro stessi figli a donne delle fasce inferiori. Certo, possiamo anche immaginare un mondo i cui alcune donne o professionalmente o occasionalmente vendano la loro ‘capacità procreativa’, per un guadagno regolare o integrativo. Normale? Huxleyano? Progressista e di sinistra?

In quel mondo l’estensione della forma di merce alle capacità più intime dell’esse­re umano si compirebbe. Già anni fa, Mario Tronti caratterizzò la svolta in atto a partire dagli anni Ottanta come la sussunzione sotto la forma di merce dei rapporti sociali. Questo passo è al tempo stesso possibile e pensabile, e io direi perfino probabile; sarà solo un ulteriore scatto in avanti. Il primo passo verso la ‘mercificazione totale’ è già stato fatto.

Alcuni amici mi dicono che questo accadrà necessariamente, e che quindi è inutile opporsi. Sono assolutamente d’accordo. Gli sviluppi futuri si verificheranno in non molto tempo, a giudicare dall’accelerazione che ha portato fenomeni impensabili fino a poco tempo fa’ a essere considerati ovvi; e perfino circondati di una melensa retorica sentimentale a loro giustificazione.

Penso anch’io che sia inevitabile; ma non riesco a convincermi che la ‘mercificazione totale’ della sostanza umana (cioè la sua ‘capacità’ più propria) sia ‘progressista e di sinistra’. Proprio per questo dico: not in my name.

APPENDICE

Il corpo della donna può essere considerato come il telaio del tessitore casalingo del Verlagsystem. Proprio per quello l’ho richiamato (anche se non lo è). E infatti ho parlato di passaggio all’industria nel senso di raccogliere le donne (coi loro corpi-telai) nella clinica.

Ovviamente in questo caso nessuno può separare il produttore dal mezzo di produzione. Ma la forma di merce rimane perché è l’intermediario capitalista che dirige il processo. Non solo, ma rimane anche la sussunzione reale sotto il capitale e non solo formale (per usare le categorie marxiane; ricordando che ‘formale’ è solo il mercante che gira tra i tessitori, che tessono in modo ‘tradizionale’; ma la ‘forma’ sociale del loro lavoro è moderna: la merce) anche perché sarà pur vero che il corpo-telaio è inalienabilmente della donna.

Questo perché, anche nel caso della fabbrica-parto, in realtà non si tratterà di vera e propria ‘produzione’. Sarà sempre la ‘capacità generativa’ delle donne ad attuare la ‘generazione’. Ovviamente tutto ciò richiama proprio quella distinzione che Aristotele esamina nella Fisica B sulla differenza tra il medico e l’opera del medico e quella dell’artigiano. Ed infatti la fabbrica-parto interviene per ‘aiutare’ – medicalmente – la ‘generazione’, non la sostituisce. Anche se sostituisce il ‘lavoro’ di generazione delle signore donatrici dell’ovulo.

Ma senza le attrezzature cliniche, imponenti, questo corpo può lavorare in modo inefficace. Come è oggi storicamente il caso. Solo le donne africane partoriscono ancora lungo le strade accovacciate. Nei paesi sviluppati è cresciuto un apparato clinico medicale e di macchine imponente per garantire la salute della gestante e del neonato (con l’inevitabile inversione del rapporto tra sistema di macchine e corpo-produttore, quale Marx ha analizzato tra sistema di macchine e lavoratore nel famoso Frammento sulle macchine dei Grundrisse).

Senza l’apparato (il Gestell heideggeriano?) non si dà neppure la nascita privata. Figurarsi quella ‘commercializzata’ con la necessità di tutte le garanzie degli investimenti (della clinica e dei committenti). Quindi l’apparato centrale clinico è assolutamente necessario perchè il processo produttivo del singolo corpo-telaio sia attuabile in modo mercantile. E questo collegamento tra corpo-telaio e apparato clinico configura la forma specifica della sussunzione reale della capacità produttiva sotto il capitale; nel caso specifico della compravendita della «capacità procreativa».

PS.

A questo punto, è bene ricordarsi di papa Giovanni XXIII, e distinguere ‘peccato’ e ‘peccatore’. Si può certo astenersi dal condannare Vendola, ma ci si può, io direi, ci si deve astenere dall’approvare quello che ha fatto. Ma soprattutto se ne deve rifiutarne l’apologia come ‘progressista e di sinistra’. La ‘mercificazione totale’ non lo è. Neppure per Vendola.

 

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