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Ivan Pintor Iranzo

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Ivan Pintor Iranzo è dottore di ricerca in Comunicación Audiovisual e membro del gruppo di ricerca CINEMA presso l’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona. È docente di cinema, serialità televisiva e fumetto. Con i suoi scritti ha preso parte a più di quaranta volumi, tra cui Intervalo entre geografias e cinema (2015), Werner Herzog (2015), Mad Men (2015), Endo-Apocalisse. The Walking Dead, l’immaginario digitale, il postumano (2015), On the Edge of the Panel. Essays on Comics Criticism (2015) e La Strada di Fellini (2013). Ha organizzato conferenze per CaixaForum e congressi internazionali, come Mutaciones del gesto (2012, UPF). Ha diretto il documentario Harold Bloom, Reading the Labyrinth (2010) e sceneggiato il lungometraggio La substància (2016), diretto da Lluís Galter.

Fuoco, cammina con me: la costruzione dello spettatore nella serie Twin Peaks/3

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(traduzione italiana a cura di Roberta Vannini)

 

LOVE IS GONE INTO THE DARKNESS

Nell’intermittenza del suono che cattura lo spettatore, non solo hanno un ruolo fondamentale gli apparati di trasmissione sonora quali microfoni degli anni cinquanta, telefoni di bachelite, l’apparecchio acustico anacronistico dell’agente Cole (David Lynch), il registratore che quasi precede gli assistenti telefonici virtuali della telefonia mobile contemporanea, o ancora la voce distorta e l’insieme di trame sonore al limite dell’organico che si intrecciano con la musica di Badalamenti. Il pianto, il singhiozzo, il gemito che sostituisce la parola in Twin Peaks è lo stesso che si diffuse quando alcuni cineasti come Dreyer in Vampyr (1932) compresero che il passaggio al sonoro, invece di estinguere il regno delle ombre dal cinema muto mostrava un abisso sussurrante che si estendeva attraverso la loquacità che aveva colonizzato certi generi e certe storie a cui mancava la parola sin dall’invenzione del cinematografo.

Quasi contemporaneamente a Dreyer, Fritz Lang dimostrava nel suo Dr. Mabuse (1933) che, lontani dalla propria fonte di emissione, i balbettii che costituiscono la colonna sonora del film sottolineano maggiormente il carattere spettrale delle ombre. Lo spiraglio attraverso il quale penetra il loro rumore riappare in cineasti degli anni Quaranta come Tourneur e lo stesso Lang trasformandosi nello specchio in cui, a partire dagli anni Novanta, si guardano cinema differenti come quello di Lynch, Cronenberg e Shyamalan, così come quello di Philippe Grandrieux o Claire Denis. La nota che risuona su tutti è la labile sospensione del sogno, del leggero sognare che María Zambrano definisce come «intimità senza tempo. Senza tempo ancora. È una specie di vagabondare nella durata »[1].

La voce del nano della Stanza Rossa nell’atto di possedere Sarah Palmer nell’ultima puntata, la voce del monco che prende forma nell’oscurità, le frasi epigrammatiche strappate all’Altro Lato ed il costante borbottio sonoro che si genera  nelle sequenze di Twin Peaks mettono in risalto il lavoro che Lynch fa sulle sensazioni, cosi come hanno indicato Michel Chion prima e,  più tardi, Žižek: «Chion se refiere sobre todo a las técnicas contemporáneas de sonido que no sólo nos permiten reproducir con exactitud el sonido original, natural, sino incluso reforzarlo y hacer audibles detalles que pasaríamos por alto si nos encontráramos en la realidad registrada por la película. Este tipo de sonido nos penetra, se apodera de nosotros en un nivel real inmediato, como los ruidos obscenos, mucosos, viscosos, repugnantes, que acompañan la transformación de los seres humanos en sus clones extraños en la versión de Philip Kaufman de La invasión de los ladrones de cuerpos (The invasión of the Body Snatchers)»[2].

Oltre ad essere radicato nell’opera di Dreyer o Lang, questo acquario di suoni primordiali mira ad una delle categorie fondamentali che Twin Peaks inserisce nella serialità e nel cinema contemporaneo: la metamorfosi; una metamorfosi di spazi interni ancor prima che di corpi, che ci ricorda quella del cinema di Cronenberg. In questo magma sonoro che sostituisce la progressiva dissoluzione dello spazio antropomorfo nel cinema e nella finzione televisiva attuale — «non c’è più un uomo compiuto di fronte a un mondo compiuto, ma un qualcosa di umano che si muove in un comune liquido nutritivo» scrive Musil in L’uomo senza qualità —, la musica inoltre conferisce la percezione di una memoria fragile che resiste alla dissoluzione derivata dalla trasformazione del corpo: se in Velluto Blu ed in Cuore Selvaggio le voci spettrali di Orbison o Bobby Vinton resistono alla morte ed in Inland Empire la musica del gruppo Kroke assume un ruolo di mediatrice con la stessa, in Twin Peaks la struttura dei motivi musicali di Badalamenti e la voce di Julee Cruise costituiscono una trama che trascende la logica del tempo e dello spazio.

Così come l’improvvisazione di musica jazz che inquieta Pete nella seconda parte di Strade Perdute e che il suo alter ego Fred interpreta nel Luna Lounge nella prima metà del film, la musica di Twin Peaks costituisce un «cammino di distorsione tra desideri e immagini», espressione che, curiosamente, il filosofo Paul Ricoeur utilizza per definire il sogno. «I’ll see you in the trees under the sicomore tree» canta Jimmy Scott nell’unica sequenza dell’ultima puntata in cui sostituisce Julee Cruise (che canta per tutta la durata della ), trovandosi dall’Altro Lato, come un mantra che sembra rendere possibile la trasmutazione, il finale. Come piccoli sacrifici, i brani musicali comportano una sospensione della temporalità successiva; introducono una sincope nel tempo e si identificano con sogni vaghi che strappano via i personaggi dalla realtà per poi restituirglieli in un secondo momento. «Did I dream you dreamed about me?», risuona come un eco la canzone Song to the Siren[3] sulle immagini a rallentatore di Pete e Alice che fanno l’amore nel deserto, in Strade Perdute.

Come ha segnalato Jung, esistono certamente sogni la cui struttura drammatica raggiunge livelli di grande intensità emotiva che provocano il risveglio[4], melodie come Song to the Siren o come i motivi che accompagnano Audrey nella Stanza Rossa in Twin Peaks possiedono la funzione di ridimensionare la disputa tra il tempo e la privazione dello stesso, tra le porte di avorio e quelle con i battenti di corno che, in accordo con la tradizione omerica, incarnano percorsi di accesso al mondo delle visioni, ingannevoli alcune, veritiere altre[5].

Attraverso le puntate di Twin Peaks i motivi musicali non solo costituiscono dei principi costruttivi, ma accompagnano la messa in scena dell’inquietudine creata attraverso il perverso, osceno e distorto dramma gestuale. Attraverso l’inserimento di una retorica onirica, Lynch non solo certifica la propria appartenenza alle forme di rappresentazione del male, ma si avvicina con l’aiuto della musica, alla costruzione scenica di qualcosa che si ripete nel radiatore di Eraserhead – La mente che cancella, sul palcoscenico di Velluto Blu o nel Cabaret Silenzio di Mulholland Drive.

Che significato hanno le precise coreografie del nano? Perché Laura alza due volte la mano destra mentre muove in orizzontale la sinistra nella sua ultima apparizione? Perché l’anziano cameriere del Northern alza cordialmente il pollice in maniera ossessiva? Cosa attraversa la mente di Audrey quando si agita nell’intento di percepire gli echi sottili emessi dalle note del jukebox? Come potrebbe essere letto Twin Peaks visto dal fantasma coreografico che l’attraversa, in un modo che Lynch amplificò ancora di più con il cabaret-performance Industrial Symphony (1990)? Se nella tradizione occidentale il dramma gestuale o mistero sacro corrisponde a ciò che facevano gli iniziati ai misteri ermetici e gli eleusini, è necessario sottolineare che il principale obiettivo di quest’ultimi era il vedere. Essi assistevano ad una serie di quadri viventi e simulazioni — del resto myein, la radice del mistero, significa chiudere, chiudere la bocca mentre si osserva — si trattava meno di ricevere una dottrina segreta circa la quale tacere e maggiormente di confrontarsi con l’esperienza stessa del mutismo. Se non era possibile divulgare il mistero è, forse, perché in realtà non c’era nulla da diffondere se non un insieme di gesti, cori e pantomime estremamente precisi.

Che il mistero sia soprattutto esperienza del mistero stesso sembra essere la verità che si propaga a partire dal famoso momento del passaggio del Corteo del Graal ne Il racconto del Graal (Li contes del Graal, 1182) di Chrétien de Troyes, la scena più celebre della letteratura medievale, nella quale il peccato fondamentale di Parzival è quello di non chiedere nulla riguardo quello che sta accadendo, al veder passare un corteo con una lancia insanguinata, due scudi con candelabri, una donzella con un vassoio d’argento ed un’altra che porta un graal dalla luminosità abbagliante. Come Parzival, lo spettatore di Twin Peaks è messo a confronto con indizi e formule di pathos o espressioni dell’emozione di cui non può comprendere la natura, perché provengono dall’ Altro Lato che è il territorio del sogno: la danza del nano, i movimenti invertiti di Laura nella Stanza Rossa, i suoi gesti precisi ma incomprensibili nell’ultima puntata, le visioni de Il Monco — o gli squilibri umoristici che posteriormente Lynch ha sviluppato in Rabbits (2002).

«Love is gone into the darkness, cold as a stone», canta Julee Cruise sospesa a mezz’aria nell’Industrial Symphony, poco prima che il nano tagli un tronco che potrebbe essere quello della Signora Ceppo, pronto a narrare il sogno dei cuori spezzati. Nelle sequenze della Stanza Rossa e nell’ Industrial Symphony c’è una volontà — che Lynch spinge ancor più lontano nel videoclip Crazy Clown Time (2012), la contro immagine più inquietante e mai concepita di un barbecue in un giardino Statunitense – di pervertire un ipotetico e inaccessibile rituale che attraverso la mimica ed i gesti di pathos conduce lo spettatore verso un’esperienza di iniziazione all’ignoto. Importa meno la domanda “chi ha ucciso Laura Palmer?” che l’inevitabilità dello stupore emotivo provocato da queste sequenze, sulle quali il proprio Lynch ironizza in Twin Peaks, fuoco cammina con me quando Chester Desmond (Chris Isaac) interpreta le coreografie di Lil la ballerina (Kimberly Ann Cole) come in un autentico trattato sul contrasto tra l’interpretazione letterale di un dramma gestuale ed i confini del fantastico.

LA VENERE LACERATA

Il volto di Josie Packard che scivola oltre la cornice dello specchio, l’espressione seria di Donna davanti ad un lago o avvolto da un paesaggio bucolico, l’andirivieni di Audrey attraverso i corridoi del Great Northern o le danze nel Double R, dove Norma domina lo spazio, il da fare di Shelley all’arrivo a casa, i camuffamenti di Catherine, le mani che cullano della Signora Ceppo o gli occhi molto aperti di Annie Blackburn delimitano un fregio plastico dove la natura del dramma gestuale si incarna, così come nell’antichità, nei riti quali quelli descritti ne La villa dei misteri di Pompei, nei tratti e negli sguardi femminili che annunciando il senso di un al di là continuamente ritardato. Tra tutte, Laura è colei che con la propria deviazione rispetto agli altri abitanti della comunità, introduce la frattura seriale nell’arcadia di Twin Peaks. Precipita verso un vortice circolare condannato a tentare di recuperare una stabilità impossibile che permette interpretare la serie come l’ultima elucubrazione di Laura prima di apparire assassinata accanto al lago, avvolta in una telo di plastica come una Ofelia postmoderna.

«Hey bellezza, è ora di alzarsi», dice il cow-boy nella stanza dove riposa il corpo inerte di Betty-Diane in Mulholland Drive. Poche sequenze dopo, la limousine il cui tragitto aveva aperto il film conduce la ragazza attraverso i meandri delle colline di Los Angeles, la città che W. H. Auden chiamò «the great wrong place» facendo riferimento alla narrativa di Chandler. Quando l’automobile si ferma, invece di essere guidata come lo era stata Rita, è quest’ultima nei panni del suo alter ego Camilla che appare costeggiando il cammino che la conduce, come un Virgilio perverso, fino alla villa dove è messo in scena il suo proprio inferno. Con il risveglio della deceduta, il cadavere smette di essere un puro segno della desolazione, come in Strade Perdute, e si trasforma in un invito a spingersi oltre l’ultimo limite della figurazione del finale nel cinema classico: i sogni che si annidano tra gli occhi chiusi dei morti.

Le donne sottomesse alla malinconia, alle quali Žižek fa riferimento nell’analizzare la casualità femminile e la sospensione del senso provocata dalla matrice dell’amore cortese nel cinema di Lynch[6] lasciano spazio, progressivamente, a donne ridotte ad essere sommamente disponibili alla morte. Dalla madre depressa di Cuore Selvaggio alla Renée di Strade Perdute, Lynch coltiva l’iconografia romantica e simbolista della donna bella ed esangue, una piena alterità in cui depositare la morte come oggetto di contemplazione che trova il suo culmine in Laura Palmer. Come fase intermedia di questo tragitto figurativo, Dorothy Vallens in Velluto Blu purifica attraverso la quotidianità tutte le differenze possibili tra Jeffrey e la dolce e convenzionale Sandy. Si tratta di un’alterità radicale, sessuale e immersa nel fluido della vita, cosi come la raminga amazzone Pentesilea, di cui Achille s’innamorò in piena lotta generando lo scandalo tra i suoi civilizzati compagni.

Che sia causa o conseguenza dell’intervento dell’oscuro Frank Booth, Dorothy appare inoltre intrappolata nel piacere masochista del sequestro che può ricordare il clima ambiguo che gira intorno al Mistero di Mary Rogêt, di Edgar Allan Poe. È lo studio della figura della defunta nell’opera di questo autore, da Ligeia a Berenice, ciò che porta due teoriche come Julia Kristeva e la psicoanalista Marie Bonaparte a concludere che l’immagine della morta si tratti di una categoria che esprime ciò che è provocato dalla separazione dalla madre. Il Sole Nero che dà il titolo al libro di Kristeva sulla depressione femminile è la soglia a cui Lynch si avvicina, elaborando con rigore il motivo iconografico della defunta, al punto che, per presentare il cadavere di Renée sembra invocare la tradizione forense dello smembramento che si diffuse nel XIX secolo con le così dette Venus abrideras  e delle quali si fa eco Pilar Pedraza nel sul monumentale lavoro Espectra, descenso a las criptas de la literatura y el cine.

L’attrazione di Lynch nei confronti delle forme organiche, presente nei suoi fish-kits, che mostrano pesci sviscerati accompagnati dalle istruzioni per il montaggio, lo porta a mettere in scena la morte di Renée a partire dalla scandalosa immagine di un omicidio che commosse gli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta: il famoso crimine della Dalia Nera, a causa del quale, dopo l’apparizione del cadavere fatto a pezzi di Elisabeth Short, si diffusero una serie di voci, come per esempio quella sulla presenza di messaggi scritti all’interno del corpo[8].

Lontano dal voler soffermarsi su questo motivo, trattato anche da Brian de Palma, Lynch lega al concetto di cadavere due archetipi: quello della femme fatale spettrale ed impenetrabile, nato come forma di esternalizzazione della minaccia riguardo il discorso erotico patriarcale della Hollywood classica, e la femme fatale del nuovo genere noir. Come Linda Florentino in L’ultima seduzione (The Last Seduction, 1994), di John Dahl, quest’ultima è messa in risalto dall’evidenza delle proprie intenzioni, dal carattere palesemente manipolatore nonostante il quale riesce a risultare ugualmente enigmatica grazie alla forza dell’archetipo —«Non mi avrai mai», sussurra Alice all’orecchio di Pete nel deserto.

Lynch compie un ulteriore passo con Mulholland Drive, dove non si limita solo a rappresentare questi canoni della femme fatale alla mercé dello sdoppiamento di Rita, una donna che ha perso la memoria, e di Camilla, che gode atrocemente per la distruzione di Diane, ma lo fa penetrando nella coscienza del cadavere di quest’ultima. Come nell’universo di Strade Perdute o di Psycho (1960) di Hitchcock, le due facce del nastro di Moebius hanno una mala riuscita, sono entrambe nefaste.  Ed è questo il punto della ricerca Lynch che s’incontra con quello del già menzionato scrittore Haruki Murakami, nell’ossessione per il riscatto orfico della coscienza della morta che trova nella televisione uno spazio di ingresso verso la progressiva colonizzazione di un territorio narrativo postmortem. Da Six Feet Under a The Leftovers passando per The Kingdom, di Lars Von Trier, o Lost, il Bardo televisivo contemporaneo emerge, nella sua totalità, da Twin Peaks, o forse anche dall’alce psicopompo che sin dai titoli di Doctor en Alaska accompagna verso l’ingresso all’intermondo di Cicely.

David Lynch, I see myself, 1992.

Nei dipinti di Lynch, neri ed espressionisti, il focolare domestico è sempre uno spazio tragico e sepolcrale nel quale, ciò nonostante, la vita affiora e graffia la superficie della tela fino a strappare via tracce di sangue per poi applicarvi le bende[9]. Insieme alla casa, l’infanticidio e la figura dello sdoppiamento sono motivi fondamentali che, in una tela come I See Myself (1992), svelano la propria ambiguità. Una di fronte all’altra, il titolo suggerisce che le due figure presenti sulla tela rappresentino un unico personaggio davanti allo specchio. Però l’immagine che appare dall’altro lato della cornice non è uguale alla prima, ma si tratta di una versione oscura della stessa. Nel concetto di ombra sviluppato da Jung risiede una delle chiavi di lettura attraverso le quali accedere all’opera di Lynch e a quella di Murakami. Dinanzi alla soglia, ogni creatura appare rapita dal principio dell’enantiodromia; tende verso il proprio contrario in un loop perpetuo.

Windom Earle costituisce l’ombra di Cooper, ed il Killer Bob quella di Leland nello stesso modo in cui in Velluto Blu c’è qualcosa di Frank in Jeffrey e al contrario. Se Lynch ha trovato nello sdoppiamento della narrazione un modo per costruire i suoi personaggi a partire dall’incontro di due narrazioni, la commistione è sempre celebrata come «una cerimonia segreta, una cerimonia sontuosa che dev’essere officiata nell’oscurità e nel più profondo sottosuolo», così come recitava l’atto amoroso di André Breton. Per poter giungere a questo seminterrato, è necessario percorrere tutta una serie di gallerie che rappresentano la metonimia dell’amore, del desiderio e dell’illogicità. All’ingresso di questi corridoi, che evocano il cinema d’avanguardia di Dulac e Cocteau, c’è sempre una zona vuota, spoglia, perimetrata da tendine di velluto e pronta per la messa in scena. In questo recinto felliniano, che in Eraserhead – La mente che cancella è il palcoscenico della donna del radiatore così come in Twin Peaks diventa la Stanza Rossa, non c’è contraddizione né durata temporale, così come avviene nell’incosciente umano.

Solo se ci si trova in una casa senza porte né finestre, se si tengono chiusi gli occhi nei confronti della percezione immediata, è possibile confutare il trascorrere del tempo, ed è in tal modo che l’operazione di Lynch riesce a trasformare l’arcadia originaria di tutto il gruppo familiare in finzione televisiva, in un purgatorio della temporalità inversa.

Nei suoi Quaderni in ottavo, Kafka scrive «Ogni uomo porta in se stesso una camera» e, forse, avrebbe potuto aggiungere che ne porta addirittura due se la vita di tale uomo viene scissa da un’evocazione post-mortem, come in Mulholland Drive: la stanza rossa in cui vive l’uomo paralitico che muove i fili della trama ed il club del silenzio, un piccolo cabaret dove le rappresentazioni sono registrate precedentemente — «Non è altro che una registrazione, un’illusione» proclama il maestro delle cerimonie, Mr. Loyal. Sulle sue tavole, come nel cuore della Loggia Nera nell’episodio finale di Twin Peaks, si produce la confluenza alchemica dei contrari, la sovrapposizione dei due racconti.

 GUARDIANES DE LA NADA

Così come è plausibile immaginare che Diane, la confidente di Cooper non esista, lo è anche pensare che non ci sia nulla dietro la voce inquietante di Rebecca del Rio che interpreta Crying, di Roy Orbison in Mulholland Drive. C’è solo un nastro magnetofonico. Il proscenio, nudo come una chiesa, come la stanza di Secret Beyond the Door (1948) de Fritz Lang, custodisce la vera trama del regno delle ombre che è il cinema e che Lynch, invece di ricercare tra gli abbaglianti neon di Los Angeles, identifica con l’amnesia di una femme fatale e con l’umile Club Silenzio. Progressivamente scompaiono l’arredamento, gli oggetti, gli attori, e restano solo il suono, lo spettatore, l’ombra ed il silenzio. E dietro a questi quattro elementi, il nulla. Non c’è null’altro; esiste solo un silenzio che emerge dal contatto con l’alterità. Come nella narrativa di Kafka, non c’è esitazione tra le ragioni razionali e sovrannaturali proprie del genere fantastico ma esiste in senso letterale il mondo fisico e l’inconsistenza del fantasma. Con essa, Kafka e Lynch rivoltano le acque torbide della paura sostenendo solo una piccola fiamma, l’unica cosa che necessitano per poter restare sulla soglia.

Nella sua fantastica autobiografia Ricordi, sogni, riflesioni, Jung scrive: «In questa epoca» — si riferisce al periodo in cui stava leggendo il Faust — «tuve un sueño inolvidable que al mismo tiempo me aterrorizó y estimuló. Era de noche en un lugar desconocido y sólo penosamente avanzaba yo  contra un poderoso huracán.  Además  se extendía densa niebla. Yo  sostenía y  protegía  con ambas  manos  una  pequeña  luz,  que  amenazaba con apagarse a cada instante. Pero todo dependía de que yo mantuviese viva esta lucecita. De pronto tuve la sensación de que algo me seguía. Miré hacia atrás y vi una enorme figura negra que avanzaba tras de mí. Pero en el mismo momento me di  cuenta —pese a mi  espanto— de que  debía salvar  mi  pequeña luz,  ajeno a  todo peligro, a través de la noche y de la tormenta. Cuando me desperté, en seguida lo vi claro: era el ‘espectro’, mi propia sombra sobre la niebla, arremolinándose cansado por la pequeña luz que llevaba ante mí»[10].

Preservare la fiamma significa anche preservare il principio di realtà e di immaginazione, non solo al cospetto della propria ombra ma anche a quello dell’abisso del Reale. Così come il vortice oscuro che, negli ultimi anni della sua vita, iniziò ad affiorare sulle tele di Rothko, nonostante i suoi sforzi per contenerlo attraverso l’uso della realtà del colore, in Twin Peaks, come anche nei lungometraggi di Lynch, il sesso e l’omicidio sono il nucleo di un trauma intorno al quale si disgrega l’ordine simbolico che trascina lo spettatore alla deriva attraverso la memoria dei protagonisti. A differenza di ciò che succede nella serialità classica, alcune delle linee di Twin Peaks potrebbero essere sincronizzate e sovrapporsi al vortice oscuro attraverso il tessuto simbolico che si nasconde dietro agli omicidi di Leland/Killer Bob/Windom Earle.

A David Lynch non basta una storia per costruire un personaggio, è nella figura della sovrapposizione tra due storie che emerge la trama sulla quale convergono le linee narrative.

Se nel disinnesto delle storie contenuto in The Wild Palms di Faulkner «la storia di un uomo annichilito dalla carnalità» e «quella di un ragazzo dagli occhi sbiaditi che vuole assaltare un treno»,[11] il lettore si vede obbligato a situarsi nel seno di una scissione irreparabile, con Lynch la separazione tra ogni personaggio e la propria ombra, tra i due mondi che si intersecano al fine di costruire l’immagine di un processo mentale, non è mai completa. O per lo meno il menzionato vortice o trauma nell’ordine simbolico fa da mediatore tra entrambe la parti, rendendo lo spettatore abitante della soglia e allo stesso tempo custode dell’unione delle stesse. Nella parabola Davanti alla legge contenuta ne Il processo, Kafka suggeriva un «lungo studio sul guardiano» (Jahrelange Studium des Türhüters) utile nel confronto degli esseri umani con la Legge. Non esiste legge in Twin Peaks, ma solo l’ordine del sinistro ed il disordine dell’eccessivamente vicino.

Per Henri Michaux «così come lo stomaco non può digerire se stesso, anche lo spirito è fatto in modo da non essere capace di auto-percepirsi» ed è proprio dove sorge questa impossibilità che appare il fantastico. Come dimostra ciò che accade nella Stanza Rossa, neppure l’emozione è capace di pensare a sé stessa a partire da codici che le sono estranei e la relegano nella dimensione della passività. L’emozione parla dando il tu. E molto tempo prima che True Detective, The Leftovers, Carnivale, The Jinx — la versione infinitamente più mostruosa perché reale di Killer Bob — o molte altre serie di matrice lynchiana cercassero di costruire un modello di spettatore nuovo, Twin Peaks lo aveva concepito con l’ombra del cinema e con i resti della proliferazione televisiva, da La casa nella prateria (Little House on the Prairie), Bonanaza ed Il fuggitivo, fino a Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues), a cui partecipò anche Mark Frost.

 

[1] Zambrano, María, Los sueños y el tiempo, Madrid, Siruela, 1998: 96.

[2] Žižek, S. Mirando al sesgo, Buenos Aires, Paidós, 2002, p. 72.

[3] Pezzo di Tim Buckley nella versione di This Mortal Coil, che Lynch già volle introdurre in  Blue Velvet e che alla fine incluse in Strade Perdute.

[4] Jung, C. G, Energética psíquica y esencia de sueño, Barcelona, Paidós, 1995.

[5] Nell’Odissea, Omero fa dire a Penelope: “Due son le porte dei sogni evanescenti: una ha battenti di corno, l’altra d’avorio, avvolgono d’inganni la mente, vane parole portando; ma quelli che vengono dal lucido corno, verità li incorona, se un mortale li vede”.

[6] Žižek, S. Las metástasis del goce. Seis ensayos sobre la mujer y la causalidad, Barcelona, Paidós, 2003.

[7] Pedraza, P. Espectra, descenso a las criptas de la literatura y el cine, Madrid, Valdemar, 2004.

[8] Cf. Hispano, A. Claroscuro americano, Barcelona,  Glénat, 1998.

[9] Come, ad esempio, Shadow of a Twisted Hand Across my House (1988), Ants in My House (1990), Suddenly My House Become a Tree of Sores (1990) o Here I am, Me as a House (1990).

[10] Jung, Recuerdos, sueños, pensamientos,  Barcelona, Seix Barral, 2001, p.55.

[11] Apud. Borges, J.-L., “The Wild Palms”, in: Textos cautivos, Madrid, Alianza, 1998, p. 312.

[12] Michaux, H., Las grandes pruebas del espíritu, Barcelona, Tusquets, 1985.

 

 

Fuoco, cammina con me: la costruzione dello spettatore nella serie Twin Peaks/2

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(traduzione italiana a cura di Maria Pina Fersini)

 

 

TRACCE DELL’ALTRO LATO

SOTTO FORMA DI TRACCE, cicatrici, incisioni oppure glifi sulla pietra, come coloro che descrivono una mappa della geografia visionaria di Twin Peaks nei suoi episodi finali, i volti dell’Altro Mondo non costituiscono una chiamata verso l’illuminazione, ma un invito al mistero. In uno dei capitoli de L’interpretazione dei sogni, Freud trascrive in modo fugace la storia di un incubo che una sua paziente dice di voler sognare da quando l’ascoltò raccontare da un’altra persona: nella penombra di una stanza, il corpo di un bambino morto riposa in una bara di legno. Esausto da infinite notti di veglia accanto al capezzale del letto del piccolo, il padre accetta il consiglio dei suoi familiari e si addormenta aspettando l’alba. Il compito di vegliare sul cadavere è affidato ad un anziano che si accomoda in silenzio tra lo scintillare dei ceri. Quando, dopo alcune ore di riposo, il padre avverte una pressione sul braccio, dinanzi a sé scopre il figlio, che, in tono di rimprovero, gli dice: «Padre, non vedi che sto bruciando?».

Sorpreso, come Cooper dopo aver visitato la Red Room, il padre si sveglia. Un bagliore lo acceca dalla stanza accanto. “Si dirige verso di essa, trova l’anziano che vegliava sul corpo di suo figlio dormendo e vede che uno dei ceri è caduto sulla bara e che una manica del sudario ha preso fuoco”.[1] Nonostante lo spessore simbolico di questa sequenza, Freud risolve rapidamente la sua interpretazione: vede nel sogno del padre la risposta alla sua preoccupazione per lo stimolo dello scintillio del fuoco. Tuttavia, il semplice fatto di includere il sogno come una totalità che ha voluto essere rivissuta da parte della paziente, permette di concepire la scena, per intero, come un sogno dentro un sogno. Nella sua struttura, psicoanalisti come Winnocur hanno inteso vedere una rappresentazione plastica dell’apparato psichico, dove il sistema inconscio corrisponderebbe alla stanza del figlio morto ed il sistema cosciente a la stanza del padre.

Tuttavia, da un punto di vista lacaniano, il filosofo sloveno Slavoj Zizek si sofferma soprattutto sul desiderio di tornare alla realtà del padre dopo l’orrore che gli offre Il Reale del sogno[2]. Nella recriminazione del figlio vede, altresì, la rivendicazione della vita contro un padre che incarna l’autorità simbolica, cosicché nella frase «Padre, non vedi che sto bruciando?», si può leggere: «Padre, non vedi che sto godendo?»,[3] non vedi che sto bruciando nella sostanza della vita? Nel suo significato plurale, questa immagine permette di illustrare un motivo che sta alla base della poetica di Lynch: l’individuo che si consuma come il bagliore di una fiamma, che sta al punto di essere soffocato dalla sua stessa ombra, sulla soglia di un sogno sconosciuto che lo intrappola. Catturati dal bagliore che sprigiona, inoltre, degli occhi lo guardano dall’altro lato; sono quelli dell’Uomo Misterioso di Strade perdute o quelli di Killer Bob e Windom Earle in Twin Peaks, che rappresentano la controfigura del padre autoritario: ciò che Lacan chiama il padre del godimento, «l’omino osceno che è l’incarnazione più evidente del fenomeno del sinistro (Unheimliche[4].

Quest’immagine centrale, che Lynch condivide con la narrativa dello scrittore Haruki Murakami, incontra nel sogno la possibilità di creare uno spazio che trabocca nella realtà in un ciclo senza fine. In una delle sequenze di Mulholland Drive (2001), due personaggi che non torneranno ad apparire nel film, Dan e Herb, si danno appuntamento nel caffè Winky’s. Dan confessa che si sono riuniti lì per riprodurre la situazione che lui sogna da due notti. Con la stessa atmosfera d’inquietudine che si respira in El ángel exterminador (L’angelo sterminatore, 1962) di Buñuel, la coincidenza di una serie di circostanze casuali può sfidare il tempo, l’assurdo o la frontiera tra la veglia ed il sogno sempre disposto a ricominciare: come aveva previsto Dan, dietro il caffè lo aspetta un mostro, una persona con il viso bruciato che ricorda il trasandato Killer Bob. Il meccanismo che chiude la sequenza è lo stesso che sostiene l’intero film: solo quando la storia raggiunge il loop che descrive la sua struttura, i personaggi possono riprendere la propria strada, come accade con la frase che apre e chiude Strade perdute, «Dick Laurent is dead».

Nell’immagine del loop, così spesso impiegata per spiegare gli ultimi tre lungometraggi di Lynch, Strade perdute, Mulholland Drive e Inland Empire, ed anche il progetto televisivo Hotel Room (1993), emerge sia l’impotenza del subconscio di pensare la propria morte, il limite della sua pensabilità, sia la tendenza dell’affetto ad annodarsi su se stesso. La prova di aver strappato qualcosa ad un sogno, che nella poesia di Coleridge poteva essere un fiore portato dal paradiso, si converte nei momenti più perturbanti di Twin Peaks, nello scuotimento di un frammento rubato al futuro, una prolessi che sovverte le coordinate della serialità. Che in Twin Peaks Fire Walk With Me (Fuoco cammina con me, 1992), il lungometraggio che racconta gli ultimi giorni di Laura Palmer, quest’ultima si svegli con l’anello di Teresa Banks, che ha preso dalla Red Room durante un sogno, è inquietante. Tuttavia, quando, attraverso il sogno, il futuro travalica nel presente, l’ansia diventa insopportabile, poiché aggiunge un’improbabile materia temporale nel presente.

Come accade con Buñuel, Maya Deren, Kenneth Anger, Stan Brackhage e la tradizione del cinema sperimentale statunitense, come nel caso di Marie Menken e Shirley Clark, le immagini di Lynch sembrano rispondere all’aforisma di G. C. Lichtenberg: “Tutta la nostra storia è unicamente quella degli uomini svegli; nessuno, sino ad ora, ha pensato ad una storia di uomini che dormono”. Probabilmente, una ricerca contemporanea come quella che Charlotte Beradt condusse in The Third Reich of Dreams (1966) intorno ai sogni particolari ​​della popolazione tedesca tra il 1933 e il 1938, rivelerebbe nei sognatori della fine del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo ansie affini a quelle che Lynch ha cercato di plasmare in immagini angoscianti: la paura di fratture temporali,  della rottura delle catene causali, dello sdoppiamento e di una perdita del principio di realtà sorta dall’esperienza vitale e relazionale contemporanea. «La prossima volta che mi vedrai, non sarò io», dice l’uomo nano della Sala Rossa.

 

Quando il sogno soggioga la realtà e il sognatore si addentra nell’altro lato dello specchio, attraverso gli architravi e cornici che solcano Fuoco cammina con me — funzionando come passaggi verso la propria psiche —, il sognatore corre il rischio di svegliarsi trascinando nella propria memoria la condanna delle immagini non ancora vissute. Nel secondo episodio della prima stagione della serie, Cooper incontra in uno dei suoi sogni il Monco, l’Uomo senza braccio, che lo avverte: «Nell’oscurità di un futuro passato, il mago volle vedere una possibilità di uscire dalla fenditura tra i due mondi. Fuoco, cammina con me». Solo un attimo dopo, egli appare nella Red Room, invecchiato, con questi venticinque anni che lo proiettano verso l’imminente terza stagione. Con un movimento ritmico, frutto delle riprese invertite dell’intera sequenza, Laura gli sussurra all’orecchio il nome dell’assassino. Al risveglio, alla fine dell’episodio, Cooper chiama lo sceriffo per comunicarglielo, ma all’inizio della successiva emissione confessa di averlo dimenticato.

Nelle ulteriori escursioni nella Red Room di Cooper, negli episodi filmati da Lynch, questi inquadra il suo viso addormentato. Il motivo iconografico del sognatore visto da fuori, che solo alcuni artisti come Piero della Francesca hanno coltivato, è il passo precedente la Red Room.  Di essa, come di ogni altro luogo sognato, sono assenti due elementi, su cui si è soffermata la pensatrice María Zambrano: il tempo ed il flusso naturale della parola, che sembra diventare puro sussurro. Dal lato del sogno, questo sussurro va tessendo qualcosa, che, però, cristallizza nella realtà, come accade nel racconto Le rovine circolari, di Borges. Alla fine di questa storia, l’uomo che l’asceta ha interpolato nella realtà comprova «che anche lui era un’illusione, che qualcun altro lo stava sognando», preoccupazione simile a quella che agita i personaggi di Lynch, che salgono da un sogno per ricadere in un’altro.

 

Note

[1] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. a cura di Claudia Cirro, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2010

[2] S. Žižek, The Art of the Ridiculous Sublime, Seattle, University of Washington, 2000.

[3] S. Žižek, Goza tu síntoma. Jacques Lacan dentro y fuera de Hollywood, Buenos Aires, Nueva Visión, 1994.

[4] S. Žižek, op.cit..

 

Fuoco, cammina con me: la costruzione dello spettatore nella serie Twin Peaks/1

1

(Traduzione italiana di Maria Pina Fersini)

È PERICOLOSO SPORGERSI sull’interno, specialmente quando quest’interno è in procinto di germinare, quando è sufficiente avvicinarsi alla corteccia di un albero o al manto di aghi di pino che tappezza il bosco per vedere che gli insetti, le crisalidi e i corpi in decomposizione non cessano di generare una seconda vita. «A sud della frontiera canadese e ad ovest del confine dello Stato di Washington», come annota nel suo registratore il tenente dell’FBI, Dale Cooper, per l’invisibile Diane, il profumo degli abeti Douglas, il cielo coperto di febbraio e il vapore con cui il boschetto di Twin Peaks respira e protegge i gufi e le donnole, si aprono come un intermondo in cui lo spazio interiore minaccia, ad ogni istante, di traboccare in uno esteriore tranquillo e sereno.

Se l’inizio di Blue Velvet (Velluto blu, 1986), con l’orecchio tagliato e abbandonato nell’erba al lavoro dei coleotteri, mostra il dispositivo più comune nell’arte plastica di David Lynch, il quale  consiste nell’approssimarsi al dettaglio che tradisce l’apparente placidità, la discordanza tra il piano generale ed il frammento, con Twin Peaks lo spettatore è chiamato ad abitare la geografia quotidiana della mancata corrispondenza tra l’ordine di ciò che è lontano e il caos turbolento di ciò che è vicino. Attraverso la distanza delle cime innevate e la vicinanza oscena dell’occhio di Laura Palmer, che inonda lo schermo nella ripresa domestica di un picnic con i suoi amici Donna e James, Lynch redige un trattato sull’emozione che costituisce il seme di buona parte della finzione televisiva contemporanea.

L’uso di colpi di scena, piste false e non sequiturs, l’uso narrativo della musica e le canzoni, la costruzione allusiva del male, i personaggi allegorici, la creazione di un racconto che si svolge in due dimensioni parallele grazie alla coesistenza della topografia della città ed il suo lato oscuro, e una concezione pittorica che in ogni capitolo prende come punto di partenza un concetto o tonalità emotiva — i doppi fondi e i cassetti segreti nel terzo episodio della prima stagione, la danza nel secondo episodio — sono alla base di meccanismi complessi, a suo tempo condivisi con la serie Northern Exposure   (Un medico in Alaska, 1990-1995, 6 stagioni), e successivamente ereditati da diverse serie, come per esempio The Sopranos (I Soprano, 1999-2007, 6 stagioni) Mad Men (2007-2015, 7 stagioni), True Detective (2014 – in corso, 2 stagioni), The Wire (2002-2008, 5 stagioni), Lost (2004-2010, 6 stagioni), Fringe (2008-2013, 5 stagioni), o The Leftovers (The Leftovers – Svaniti nel nulla, 2014 – in corso, 2 stagioni)

Il grande motore mitopoetico della serie, la colpa senza motivo, che si infiltra nei gesti e nei desideri di ciascuno dei personaggi, soprattutto nella prima stagione, sostiene un tessuto che si intreccia intorno al volto livido di Laura Palmer. Il motivo centrale dell’intera opera di Lynch, il cadavere della donna, muove anche il racconto di Twin Peaks, scritto assieme a Mark Frost. A forma di discesa circolare, l’attraversamento dall’altra parte di Cooper, il suo viaggio nell’aldilà, non solo lo rivela come un autentico Guardiano della Soglia, la creatura della mitologia aborigena menzionata nell’undicesimo episodio della seconda stagione, ma anche come colui che si appodera dell’emozione dello spettatore per identificare la propria condizione con quella di un essere sospeso sul fragile tessuto che separa Questo Mondo dall’Altro, un’enclave eterno circondato da tende e sipari  color cremisi dalle quali Laura Palmer chiude Twin Peaks avvertendo così gli spettatori: «Ci rivedremo tra venticinque anni».

IL LUOGO DELL’EMOZIONE

Nello stesso istante in cui Nadine, ossessionata con la ricerca di bastoni silenziosi per le sue tende, sbatte la porta in faccia al marito Ed, il proprietario del distributore di benzina, ed il giovane James prende congedo da lui e avvia il motore della sua moto, arriva a Twin Peaks l’agente Cooper, al ritmo dei beat di un brano di musica jazz. Protetto dalla sicurezza offerta dall’auto e dal controcampo  sempre differito di Diana, la destinataria di tutte le sue trovate, Cooper compare quando l’episodio pilota è già diventato un panopticon sulla trasmissione del pianto. Non appena il Dr. Hayward, padre di Donna, fa apparire il volto contuso di Laura dall’interno degli strati della crisalide di plastica che la avvolgono, Andy, l’aiutante dello sceriffo, inizia a piangere, contrito ed incapace di fotografare il cadavere.

Che l’emozione non faccia mai appello ad un io, bensì a un tu e che trasponga qualcosa nell’atto affermativo di lasciar apparire il dolore, di esporre la sua apparente impotenza, è il fondamento dell’esplorazione del dramma che intraprende Lynch. Come suggerisce la visione frontale del pianto dei genitori di Laura nell’istante in cui vengono a conoscenza della sua morte, sottolineata dal campo-controcampo che accompagna la loro conversazione telefonica troncata, forse nessun personaggio è riuscito a piangere inconsolabilmente di profilo nel corso della storia del melodramma e, ancor meno, nella soap-opera e telenovela, dove piangere è sempre porsi dinanzi allo spettatore, catturare il suo sguardo e il suo corpo, fare del gesto una parola tragica. Donna, James e persino Audrey mostrano il loro dolore in un’onda d’urto in cui la sequenza si rivela, nelle mani di Lynch, come uno scenario paragonabile a quello dei suoi dipinti neri, in cui la passione è capace di restituire ogni gesto alla condizione di una sofferenza originaria.

Singhiozzanti, contriti, sfigurati dagli umori del piagnucolio, gli abitanti di Twin Peaks appaiono, come i dipinti di una mostra di Francis Bacon, nella forma di volti impotenti che trasferiscono allo spettatore la possibilità di essere posseduto dall’emozione, il privilegio del dolore come condizione essenziale dell’umano. La parodia della soap-opera che Twin Peaks risolve nella serie Invitation to Love, che seguono molti dei personaggi, non ha altro proposito che quello di recludere nel territorio del grottesco l’identificazione tra passione e passività. In quanto affetta sempre l’essenza, l’esposizione della sofferenza e della sua duplice condizione di carenza — come privazione e come esperienza rivissuta di questa penuria — costituisce l’apertura più estrema dell’azione. Da Eraserhead (Eraserhead. La mente che cancella, 1977) sino a pezzi come l’inquietante videoclip Came Back Haunted (2013) ed il cortometraggio Lady Blue Shanghai (2011), l’opera di Lynch è una liberazione della dissociazione tra affetto e rappresentazione.

«Just you, and I, together, forever in love», cantano James, Madeleine, la cugina di Laura, e Donna, nel secondo capitolo della seconda stagione, in un montaggio di volti vicini la cui intensità affettiva si fa quasi insopportabile, al punto che Donna interrompe il crescendo. «Cosa succede, Donna?», si precipita James a consolarla. «Nulla», risponde lei, mentre lo bacia con ansia, in una manovra analoga a quella che, nel successivo capitolo settimo, si orchestra intorno all’attuazione di Julee Cruise nel Bang Bang bar cantando The World Spins. «Sta succedendo di nuovo», dice il gigante che era apparso a Cooper nella sua stanza nel capitolo iniziale della seconda stagione, mentre il tempo resta sospeso tra particelle di polvere, luce e musica, e Leland, posseduto da Killer Bob, uccide Madeleine.

«Love, don’t go away, come back this way, come back and stay forever and ever. Please stay», continua cantando Julee Cruise, dopo che Killer Bob ha ridotto Madeleine in una coreografia rallentata e abietta, con la bocca sanguinante e la pelle bruciata dalla luce delle lampade. È questo il momento in cui, al culmine dell’emozione dell’interpretazione, senza aver assistito all’omicidio, Donna, James e Bobby piangono inconsolabilmente, mentre il gesto sacerdotale di Cooper, guardando in alto, attesta la nuova perdita, il secondo omicidio di colei che era stata disegnata come avatar di Laura, come omaggio alla perdita di una perdita, la morte di Madeleine in Vertigo (Vertigine, 1958), di Hitchcock. La smanceria lacerata di Donna fa riferimento ad una impotenza totale in cui la doppia morte di Laura e Madeleine costituisce, anche, una lezione sulla sopravvivenza del desiderio e dell’amore, in se stessi indistruttibili e destinati a sopravvivere persino all’assenza del loro oggetto.

Come la musica, come il fuoco nel cinema di Lynch, l’evidenza fenomenologica dell’emozione, del pianto e del grido silenzioso è, nello stesso tempo, un’offerta e una rivolta obliqua contro le categorie, contro l’ordinamento della realtà mediante la ragione. Il reincontro con le potenze emotive del pianto, dello strazio e della violenza, è anche un reincontro con il figurativo, con la ricomposizione del viso, dopo che l’emozione lo ha sfigurato sulla soglia, sullo stimmung della sua angoscia . Se già nell’episodio pilota, una lampadina elettrica ronza e lampeggia sul cadavere di Laura Palmer nella camera mortuaria, la presenza dell’elettricità come parte di una poetica dell’emozione spostata verso lo spettatore accompagna Twin Peaks: i fulmini che congelano l’immagine prima della morte e assoluzione di Leland Palmer tra le braccia di Cooper nel nono episodio della seconda stagione o l’epilogo sono esempi di una logica che attraversa tutta l’opera di Lynch.

Nei battiti dell’elettricità si manifesta la volontà di Lynch di partecipare più ad una costruzione della messa in scena di pulsazioni di energia a sostegno dell’immagine, che ad una trama costruita secondo le catene causali del genere nero.

Come nell’opera di Philippe Grandrieux, i ritorni di Killer Bob a Twin Peaks e le apparizioni di Laura nella Sala Rossa gettano sullo spettatore un’ondata di violenza che comporta sempre l’apparizione di un’immagine. E se la vera minaccia, il vero orrore, non fosse l’oscurità e la scomparsa in quegli angoli bui che si estendono da Eraserhead a Inland Empire (2006), bensì l’apparizione  di un’immagine, il braccio di Bob che spunta attraverso la soglia nel mezzo del bosco nel capitolo finale? La luce artificiale sostenuta dalla corrente elettrica contiene, in tutto il lavoro di Lynch, il terrore stesso dell’esperienza di vedere, di che un’immagine si cristallizzi lì dove, forse, non c’è mai stato né dovette esserci nulla.

Le apparizioni del cow-boy in Mulholland Drive (2001), la esecuzione con sedia elettrica  di Fred Madison, suggerita dai piani finali mentre guida la sua auto in Lost Highway (Strade perdute, 1997) o l’ambizioso progetto Ronnie Rocket, sulla vita di un nano che funziona con corrente alternata durante gli anni cinquanta, sono esempi di un modo di dar corso figurato ad un’energia emozionale che, in ogni caso, trova la sua incarnazione principale nel fuoco. Il fuoco che divora le teste della prima opera di Lynch, l’installazione Six Men Getting Sick (1967), segna l’inizio di una scia incandescente che percorre tutta la sua opera: le scintille consumano l’Uomo del Pianeta alla fine di Eraserhead; il ripetuto inserimento di una candela in Blue Velvet si converte in un mare di fiamme quando Jeff e Dorothy fanno l’amore; la fuga di Sailor e Lula in Wild at Heart (Cuore selvaggio, 1990) avviene su una coltre di fuoco; in Lost Highway, i piani dettagliati della sigaretta di Fred che aprono la storia operano come preludio delle fiamme che devastano la casa dell’Uomo Misterioso.

Forse il fumo inquietante che sorge dal letto di Diane in Mulholland Drive, un’eco della serie fotografica Nudes and Smoke (1994), realizzata dall’artista, e la sigaretta che apre un buco nei vestiti di Laura Dern in Inland Empire (2006) sono una testimonianza ancora più potente dell’intimità  tra il fuoco e l’intrusione dell’Altro Lato. Come mostrano le formule della rappresentazione di Killer Bob, la Loggia Nera — Black Lodge — i messaggi di origine extraterrestre che riceve il Maggiore Briggs, o la galleria di personaggi mediatori che si estende da El Manco — che, come la domanda «Chi ha ucciso Laura Palmer?», è un omaggio alla serie televisiva The Fugitive (1963-1967, 4 stagioni) — sino a Windom Earle, di nulla ha più paura l’essere umano che di essere toccato dall’ignoto. “Fuoco, cammina con me”, lo slogan che attraversa la serie e sfocia nella forntana di fiamme che esce dalla testa di Earle nell’episodio finale è anche l’imperativo di un richiamo verso ciò che normalmente l’immagine bandisce, la sua traccia, il terrore di un’agitazione che costituisce la manifestazione prossima di qualcosa che è lontano, che si identifica con una sostanza vitale primordiale tanto quanto con la sua controparte, la morte.

 

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