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Laura Cesaro

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Laura Cesaro, classe 1991. Dottoranda di ricerca presso la Scuola di Dottorato in storia, critica e conservazione dei beni culturali dell’Università degli Studi di Padova, con un progetto di interesse prettamente cinematografico. Orientando lo studio alle interrogazioni che la narrazione cinematografica, quanto la serialità televisiva, compie nei confronti dell’attuale panorama mediatico, pone attenzione allo statuto dell’immagine in relazione a forme di ri-mediazione della stessa. Si occupa, in particolare, di quella che è ormai diffusa dimensione di videosorveglianza, quindi la narrazione di forme della società di controllo, la messa in scena delle relative organizzazioni spaziali in relazione ai corpi.

Vedere l’essere visti: uno sguardo su Black Mirror

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I prodotti seriali costituiscono a oggi la forma di intrattenimento più diffusa nella produzione audiovisiva; si riscontra, in particolar modo, da un paio d’anni, con l’avvenuta affermazione di accessi a servizi di streaming online on demand, in grado di coinvolgere milioni di spettatori in tutto il mondo. Proprio la fruizione meccanica di una sempre più affermata forma di serie serializzata[1], per dirla con Pescatore, a cui lo streaming ci abitua (al contrario della temporalità diluita a cui si rifà l’impostazione dettata dal palinsesto, più propria del serial televisivo[2]), si inscrive all’interno di quello che si è ormai formato quale fenomeno dell’istantaneità del tecnologico connesso a pratiche di visione o meglio, alla visibilità permessa dai differenti schermi neri che caratterizzano la società contemporanea, obbligata a una connessione continua.

La serialità televisiva quale parte di una realtà, ma anche narrazione della realtà. Speriamo qui nel dare qualche spunto di riflessione affermando come lo storytelling che contraddistingue le più recenti narrazioni seriali, compie una lettura dell’odierno: analizzando situazioni, spesso portando all’estremo, offre spunti per comprendere le trasformazioni a cui la nostra società costantemente è sottoposta, in particolar modo attraverso tecnologia, distopia e satira -tre elementi che paiono a noi caratterizzare fortemente la narrazione seriale audiovisiva contemporanea-. Pensare tra gli altri a 24 (2001-2010), Alias (2001-2006), Homeland (2011-), Quantico (2015-), Scandal (2012-), quale prova singolare, casi esemplari di quella serialità che, come si accennava, va a trattare proprio la relazione che intercorre tra istantaneità e tecnologia, in forma di denuncia, per tratti satirica, nei confronti della società contemporanea. Capostipite indiscussa di queste narrazioni rimane la seguitissima serie di Black Mirror. Ideata e prodotta da Charlie Brooker, la serie televisiva britannica viene oggi considerata un fenomeno di culto nella produzione seriale; se ne va a sondare alcuni motivi.

Particolare nella sua configurazione, la produzione in esame è caratterizzata dall’assenza di ripetizione e ritorno: una serie antologica dove non vi è continuità spazio-temporale. Ogni episodio ha un cast differente, un’ambientazione diversa.

Lo schermo nero, come si evince dal titolo della serie, ritorna in tutti gli episodi delle tre stagioni[3] sino a ora diffuse: unico fil rouge della produzione, come afferma Brooker è il display che troviamo «su ogni parete, su ogni scrivania, nel palmo di ogni mano»[4]; ma quali gli effetti collaterali di questa presenza così irruente? Ogni singolo episodio va a sondare una sfaccettatura di tale fenomeno e, seppur spesso enfatizzando, denuncia gli esiti di un utilizzo improprio degli apparecchi che alimentano il dispositif inteso in chiave foucaultiana, le stesse tecnologie che utilizziamo nel nostro quotidiano, che sono parte integrata ormai del funzionamento della società, secondo accezione deleuziana, di controllo. Scopo della produzione risulta essere proprio sondare l’incedere e il progredire delle nuove tecnologie, l’assuefazione a esse: come ricorda Manovich[5], l’interattività con il mondo, dettata da software multimediali quali protesi della nostra memoria quanto della nostra immaginazione, che divengono linguaggio universale attraverso cui l’intero globo comunica: ecco perché «tutti (gli episodi della serie) riguardano il modo in cui viviamo ora»[6] colpendo le coscienze e la sensibilità di un pubblico così vasto.

Nella rappresentazione di una società iperconnessa, caratterizzata da una tecnologia da definire paradossale, gli effetti collaterali che destabilizzano il vissuto quotidiano, così come li racconta Brooker, non sono così lontani a quelli che i diversi apparecchi scopici utilizzati oggi provocano nella società odierna, in particolar modo rispetto un’azione quale mostrare il vedere, sia intesa quale costruzione sociale della visione attuata attraverso tecnologie, sia operazione di quella che è la costruzione visuale di un singolo individuo nel suo quotidiano: i risvolti che scaturiscono dalla relazione di queste due facce della stessa medaglia offrono differenti prospettive di analisi di quella che è una spettacolarizzazione dell’occhio orwelliano e la messa in scena del singolo quale corpo in movimento, vero oggetto di quel controllo sorvegliante: pensiamo ai personaggi di 15 Millions of Merits che per uscire dalla realtà-prigione in cui vivono devono partecipare a un talent show o ancor più Kenny, il protagonista di Shut Up and dance obbligato a rispondere ad alcune ‘prove’ in cambio del silenzio di un hacker venuto in possesso di immagini compromettenti.

Negli ultimi anni, soprattutto dopo gli eventi dell’11 Settembre 2001, la trasmissione di dati e l’accessibilità di questi tramite apparecchi mobili con funzioni locative e, l’aumento di presenza da parte d’un occhio sorvegliante sui singoli, processi atti ad alimentare il cosiddetto dispositivo scopico, hanno rimodellato il concetto di spazio urbano e le relazioni tra individui all’interno di una tangibilità di bits. Questa seppur rinvenuta modalità di controllo sui corpi, mascherata da un’esigenza di sicurezza nazionale, propria degli ultimi quindici anni, trova radici sin dalle teorizzazioni di Michel Foucault relative alle società disciplinanti, e in particolar modo nelle pagine del suo studio più conosciuto, Sorvegliare e Punire[7], in cui il filosofo francese riprende il modello Panopticon ideato dal riformatore britannico Jeremy Bentham. L’architettura pensata nel corso dell’800 per il controllo continuo e totale dei corpi da disciplinare è riconosciuto dalla critica come precursore del sistema attuale di classificazione dell’individuo, secondo atteggiamenti e scelte quotidiane; se il Panopticon prevedeva uno sguardo mirato e circoscritto, oggi il corpo dell’individuo ‘da sorvegliare’ è oggetto di un occhio assoluto della presenza costante di schermi neri capace di seguire ogni spostamento nello spazio, riprodurre la tangibilità dei corpi in immagini di videosorveglianza o dati di tracciabilità: Black Mirror ci porta a nostro avviso, a ragionare su come la trasformazione tecnologica in divenire, a cui l’intermedialità ci obbliga, non sarà una sostituzione delle modalità di visione (sorvegliante in primis), ma un potenziamento delle modalità adottate, in questo caso verso il digitale. Il controllo grazie alla tecnologia diviene spettacolarizzazione della realtà in cui il confine tra Sé e replica di Sé a volte sfuma: si rivive come algoritmo, nel cloud, nei device che usiamo e nei dati che produciamo.

In White Bear (Orso Bianco) accade proprio questo; si tratta di una narrazione il cui soggetto principale è proprio l’assenza di distinzione tra vita pubblica e privata, in una totale sovrapposizione. Una meravigliosa metafora della condizione umana che avviene in una struttura che rimembra un macabro parco dei divertimenti. L’azione si rivelerà essere il retroscena di uno show, a cui la protagonista, Victoria Skillane,  è condannata; uno spettacolo che fa della punizione di un crimine, una pubblica visione che leggiamo quale potenzimento delle pratiche punitive nelle piazze medievali: il lato oscuro del controllo oggi, in cui, il potere della società della sorveglianza, connesso al mass mediatico, è riassumibile proprio nell’idea di tribunale fatto da tutti, a cui partecipano tutti, una giustizia che Fabio Chiusi afferma essere vicina a quella di un reality tv[8]. Ed è proprio all’interno di un programma televisivo (lo scopriremo solo alla fine) che avviene l’azione narrata dall’episodio. Victoria avrebbe rapito insieme al ragazzo una bambina, torturata dall’uomo e poi uccisa mentre lei riprendeva il fatto. In una sorta di legge del contrappasso, le pene che a loop le verranno inferte figurano quali funzioni disciplinanti nella società (un po’ come lo era l’esperienza panottica) dove gli ingredienti dello spettacolo della punizione rinvenibile negli usi di una tecnologia scopica, si fondono per dare vita alla dinamica della pena.

La donna viene inseguita nella sua corsa da un numero di persone, resi zombi tecnologici dal segnale del trasmettitore ‘Orso Bianco’, che continuano a filmarla con il proprio telefonino, insensibili a ciò che sta accadendo, impassibili allo spavento: una sorta di Synopticon[9], nell’accezione del sociologo Thomas Mathiesen, una rivisitazione panottica in cui il controllo si fa fenomeno decentrato e capillare, la sorveglianza dei molti sui molti, quella che viene definita dagli studi di società di controllo una sousveillance, sorveglianza dal basso, in cui tutti, come viene affermato nell’episodio in esame, hanno un pubblico!  Insieme alla protagonista, altri come lei, paiono minacciati (si scoprirà successivamente che si trattava di attori parte del cast) da persone che costantemente filmano lo spazio circostante: «Spesso restano davanti alla finestra a spiarci» dice una di loro a Victoria, riferendosi agli uomini che inspiegabilmente riprendono. «Sono sicura che è così che ci trovano. O anche con quelle telecamere. Ti individuano e in un attimo appaiono gli altri bastardi armati».

Satira atroce e forse selvaggia della società del controllo spettacolarizzato, termina con la consapevolezza della protagonista di essere oggetto di un dantesco castigo, soggetto di uno sguardo pubblico che continua a vituperare ‘l’assassina’, un occhio che richiama, seppur all’esasperazione, il dispositivo scopico che ci appartiene, che noi stessi alimentiamo in uno utilizzo continuo e massivo di apparecchi tecnologici. Grazie all’utilizzo di elettrodi, verrà cancellata la memoria della protagonista condannata, come in un vortice, a essere oggetto di uno sguardo continuo; l’episodio terminerà laddove è iniziato: Victoria si sveglierà senza ricordare nulla all’interno di una continua ripetizione.

Nell’ultima stagione a oggi diffusa, un secondo episodio richiama alla mente la punizione disciplinante inferta dal tribunale di tutti: Hated in the Nation  (Odio universale). La morte di una giornalista Jo Powers, attira l’attenzione della detective Parke e dell’esperta informatica Blue Colson. L’autopsia rivela che l’omicidio possa essere causato da un insetto drone automatizzato (IDA) a sembianza di api, genere, nella società che Brooker ci narra, in estinzione.

Stesso modus operandi per il rapper Tusk. Elemento in comune tra i due? Entrambe vittime de il ‘Gioco delle conseguenze’; il quantitativo di messaggi similari a un twitter con hashtag #DeathTo pare determinare la morte di un personaggio pubblico. Scoperto l’arcano dal pubblico stesso che alimentava inconsapevolmente tale giostra dell’orrore, l’utilizzo dell’hashtag, divenendo fenomeno virale del web, aumenta rapidamente, mirato verso una terza possibile vittima. Solo successivamente l’agente governativo Lì confesserà l’esistenza di un sistema di controllo da parte del governo tramite i droni ADI: una forma di sorveglianza di massa nei confronti della popolazione che diviene controllo nell’attimo in cui viene a essere proprietà di un hacker nero. Una società del controllo con fini di sicurezza, come teorizza Deleuze, in cui:

«Non c’è bisogno della fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in una impresa (collare elettronico). […] Ciò che conta non è la barriera ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno, lecita o illecita, ed opera una ‘modulazione universale’»[10].

Così come, lo abbiamo visto in precedenza, l’apparecchio del quotidiano non si limita più a un utilizzo privato per cui viene inizialmente pensato, anche il drone non è più solo arma militare, ma rappresenta uno dei differenti mezzi attraverso cui risultiamo esseri costantemente esposti, oggetti dell’aggressività di un occhio penetrante, atto a riconfigurare non solo la condotta materiale della violenza, ma tecnicamente, tatticamente, psichicamente l’agire dell’intera società.

 

[1] G. Pescatore, I. Innocenti (a cura di), Introduzione alla serialità televisiva, Archeolibri, Bologna 2008.

[2] La distinzione che intercorre tra le serie e i serial televisivi è determinata, più che dalla narrazione, da una diversa articolazione temporale degli elementi narrativi. Il serial televisivo, meglio conosciuto come soap opera è contraddistinto da una scansione di puntate la cui conclusione non è definitiva ma lascia suspense –cliffhanger– nello spettatore, che incuriosito, sarà condotto a seguire la puntata successiva.

[3] Prima stagione (2011): The National Anthem, ep. 1; 15 Millions of Merits, ep. 2; The Entire History of You, ep. 3. Seconda stagione (2013): Be Right Back, ep. 1; White Bear, ep. 2; Vote Waldo! ep. 3. Terza stagione (2016): Nosedive ep.1; Playtest ep.2; Shut Up and dance ep.3; San Junipero ep.4; Men Against Fire ep.5; Hated in the Nation ep. 6.

[4] http://tinyurl.com/pzuqwts

[5] L. Manovich, Software culture, Olivares, Milano 2010.

[6] http://tinyurl.com/pzuqwts

[7] M. Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014.

[8] F. Chiusi, Dittature dell’istantaneo. Black Mirror e la nostra società iperconnessa, Codice edizioni, Torino 2014, p.100.

[9] T. Mathiesen, The viewer society: Michel Foucault’s ‘panopticon’ revisited, in «Theoretical Criminology », 1, 1997, pp. 215-234.

[10] G. Deleuze, Postscritto sulle società di controllo in, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000.

 

Clé des mythes nell’opera (non solo) filmica di Jean Cocteau

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In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo,
i moderni protagonisti della favola della Bella e la Bestia,
attendono all’angolo della Quarantaduesima Strada
con la Quinta Avenue che il semaforo cambi colore.
J. Campbell

(J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano, 1958, p.12)

 

Un’aurea di mistero circonda la figura di Jean Cocteau la cui opera nasce in una dimensione spazio-tempo riconducibile a una sfera mistica, racchiusa in un’aurea mitologica partecipe della figura da lui stesso creata: ”il mito Cocteau”[1]. Personaggio DELLO spettacolo, Jean appare, nei suoi personaggi, sempre come maschera di frivolezza, snobismo e melanconica disperazione, con tutto l’illusionismo che implica. La sua poesia, sia essa cinematografica o teatrale, è la riscrittura di miti individuali che negli anni riecheggiano e si intrecciano dando vita a un mito in sé che è quello del poeta funambule. Primo poeta francese a tentare la scrittura del cinema, è forse anche il primo a rivisitare i miti antichi, prima certo di Jean Giraudoux con Siegfried del 1928 e Jean Anouilh con Eurydice del 1941.

Il mito rappresenta, in tutta l’opera del cineasta, l’arco temporale esistente ancor prima della memoria e proprio per questo motivo, Cocteau lo consulta, lo interroga così come Edipo interroga l’oracolo, cercando in esso la spiegazione all’enigma che la vita pone: l’esistenza, i traumi infantili, che in maniera ricorrente porta in scena. Partendo dal presupposto che il mito è una forma di finzione centrale nella sua vita e nella sua produzione, l’autore traspone il concetto sul piano dell’inconscio, nella cui intricata trama, la finzione diventa verità, verità surreale, ma profondamente ancorata all’animo del poeta. Le parole di Roland Barthes racchiudono proprio il significato che Cocteau vuole dare: «le mythe est une parole définie par son intention. Il vient me chercher pour m’obliger à reconnaitre le corps d’intentions qui l’a motivé, disposé là, comme le signal d’une histoire individuelle, comme une confidence»[2]. É quindi utilizzato, il mito, per dare ordine a un reale caotico; non a caso l’autore più volte afferma di preferire la mitologia alla storia poiché, nella sua menzogna, è fatta di verità.

La mitologia viene ‘utilizzata’ per dare forma alla lotta continua tra vita e morte; è modo per spiegare un sé, superare e risolvere ingiurie passate legate ai dettami di una società e al suo pensiero comune: il mito coctoiano, così come il mito antico, diviene in qualche modo un rito, atto a dare spiegazione alle esigenze della tribù parigina, dove a dominare in fin dei conti è il desiderio di fare ciò che si predilige, contro ogni pregiudizio: «le poète est incompris même par ceux qui l’aiment. Il est la victime d’une conspiration en face de la quelle sa puretè, son besoin oncier d’être lui-même, le rendant vulnérable»[3].

Una scelta forse non causale per un poeta che compie da anni una continua e incessante ricerca sul tema del tempo: la mitologia, così come la fiaba, assurge a un tempo non definito riconducibile all’origine o semplicemente all’ illo tempore, quando ancora un tempo non esisteva. Non è un spazio temporale qualunque quello di Jean Cocteau, bensì si colloca in un momento che diviene rito, quindi un tempo sacro che abbraccia passato, presente e futuro divenendo un tempo UNICO, eternamente presente, così come la poesia, che si dilata rispetto al momento in cui nasce l’azione.

Un mondo che ri-nasce continuamente come il mito originario che sorge dalle acque primordiali, divenendo modello per l’essere futuro; tale aspetto infonde certezza nel poeta poiché è inevitabilmente qualcosa di prestabilito: è mezzo per arrivare a una conoscenza di sé, profonda, e diffonderla al di là della soglia in un viaggio di formazione dell’individuo che diviene eroe, aspetto che innesca meccanismi di immedesimazione dello spettatore nella figura del poeta e in Cocteau stesso. Dietro a ogni personaggio è celato infatti un ritratto di Jean che si fa così inevitabilmente mito: la sua cinematografia (accostata certo allo studio della produzione teatrale e poetica) risulta essere un meraviglioso viaggio dall’adolescenza al primo approccio con la morte, dal passato al futuro.
Il viaggio dell’eroe, contro la vita monotona, conduce a una trasformazione attraverso riti di passaggio: inizio, separazione, e così ritorno, in maniera ciclica. La regola per la corretta riuscita è l’abbandono del mondo per il meraviglioso oltre. Il ritorno sarà naturalmente reso possibile grazie all’amore per la poesia, per la sua diffusione. Attraverso i racconti mitologici viene data una descrizione quindi simbolica da parte dell’autore dei propri desideri inconsci, dei traumi, delle sofferenze, delle paure che determinano l’essere, facendone documento eloquente degli abissi reconditi dell’umano. Tra i vari si decide di prendere in esame i due miti più riconoscibili e ripresi, a parere di chi scrive, da parte dell’autore ovvero la vicenda edipica e la figura orfica.

cesaro 1Nella produzione teatrale e cinematografia, i protagonisti non sono certo immediatamente riconoscibili nei personaggi sofoclei, ma si tratta di giovani uomini ‘moderni’ che scelgono di disobbedire alla legge dei mondi. A teatro, nel 1932, pièce inspirata dalle vicende edipiche è La machine infernale[4]; un’opera del grottesco, dell’ambiguità, al cui interno il mito si fa narrazione del contemporaneo richiamando l’episodio sofocleo dell’Edipo Re. Il lavoro solleva numerosi interrogativi legati alla vita personale dell’autore: i rapporti con la madre, la morte del padre, l’amore e la lotta con il proprio aspetto fisico. Tali costanti tematiche verranno riprese anche successivamente quando, il trauma diviene desiderio e, il teatro greco si fa moderno nella scrittura teatrale del 1938, omonima alla produzione filmica di qualche anno dopo Les parents terribles (1948). Anche se Cocteau nega in prima istanza l’autobiografismo, in una simile opera in cui è insita l’idea di un cinema legato all’ esthétique du minimum (soprattutto per cause legate ai costi), ma dall’elevato rendimento artistico, è impossibile non riscontrare delle analogie con avvenimenti biografici rimarcati dai dialoghi che risuonano nello spazio vuoto dei ricordi[5]. La penombra e il disordine che ritroviamo nella roulotte, sede della vicenda, trova naturalmente un doppio nella penombra di un personaggio come quello della madre, che vive e diventa un tutt’uno con quello stesso spazio. È la tragedia della condizione umana che Cocteau mette in scena: il rapporto tra una madre Yvonne (Yvonne de Bray) e un giovane Michel (Jean Marais) che non può che essere l’ennesima rivisitazione del mito edipico e personale dell’autore. Il dramma diviene così spettacolo di sé che permette, grazie a una simile scelta espressiva, una maggior identificazione da parte dello stesso spettatore. Le vicende di una madre ‘detronizzata’[6] per amore del figlio, in una situazione tragica in cui solo la morte può trionfare: senza alcun decoro aggiuntivo alla narrazione, come previsto e annunciato sin dall’inizio, Yvonne, al pari di Giocasta, si toglierà la vita. Il sistema di convenzioni che vengono messe in atto, con le relative inverosimiglianze, fanno di questo testo (si ricorda insieme teatrale e filmico), una maschera del mito che accusa e sottolinea la convenzione fondamentale della società del presente. Le inquadrature del film, composto stilisticamente con moduli teatrali, ha un solo sguardo, quello dello spettatore: una realtà presentata, nella sua linearità narrativa, come appunto accade nel mito, alla presenza di uno spettatore attivo che come afferma Bazin, è «messo in grado di vedere tutto»[7].

Per Cocteau non si tratta di mettere in scena solo la morte del corpo, ma l’evolvere dell’umano esistere e della produzione poetica, capovolgendone i dettami della Legge.

cesaro 2«Plan du Sphinx. Le Sphinx au tronc féminin agite lentement ses longues ailes de plumes blanches et glisse le long d’un mur à pic sur le paysage du Val d’Enfer. Le poète le dèpasse sans que ses yeaux artificiels puissent le voir. Plan d’Oedipe. Oedipe aveugle, appuyé sur Antigopne, sort d’une des portes de Thèbes en chuchotant des paroles incompréhensibles. Il croisele poète qui s’éloigne sans l’avoir vu»[8]. Questo testo, tratto dallo scenario de Le testament d’Orphée, racchiude la sintesi dell’enigma. Vede protagonisti della stessa scena Cocteau, la Sfinge, Edipo e Antigone. Il poeta scorre affianco alla sfinge, che racchiude in sé l’enigma e le pulsioni a esso collegate, con occhi artificiali che gli impediscono apparentemente una visione sul reale: aspetto che colpisce della filmografia in esame, è lo studio dello sguardo, o meglio il non- sguardo. Nella trilogia orfica, la figura del poeta (prima Rivero, poi Marais e infine Cocteau), e di quei personaggi che pongono uno sguardo all’oltre, quindi la Sfinge e la Princesse, sono soggetti per alcune scene ad uno sguardo artificiale. Viene riprodotta nella palpebra chiusa uno sguardo plastico, immobile, lo sguardo all’oltre e non soggetto alla realtà. Il percorso parallelo dei due personaggi permette di vedere nella figura, non a caso, angelica, non un enigma, un oracolo da interrogare, ma una custode nel percorso verso la morte che sopraggiunge.

Il doppio tema amore/morte riconduce a parlare del secondo mito che percorre l’opera: quello orfico[9]. Se Laio e Giocasta erano il contatto con il mondo dell’Ade, dove la morte è un passaggio per poter ri-vivere, l’al di là del mito orfico assume un’importanza ben più considerevole. Orfeo, non è però solo un nome ma è, come l’artista stesso ricorda nelle prefazioni a pièce o agli stessi film, mythe d’Orphée, fable d’Orphée, légende d’Orphée: non si concentra solo sullo studio di un eroe ma piuttosto la sua ricerca si estende per l’intera opera adattandola a un presente, a una sensibilità che coinvolga lo spettatore stesso. Orfeo verrà considerato come un insieme di enunciati, citazioni, allusioni da varianti e differenti versioni che necessitano di coerenza.

I vivi irrompono nel regno dei morti. Ancora una volta, ritroviamo il trionfo del poeta sulla morte[10], quindi, movimento contro il pericolo di perdersi e di mancare nella propria arte, norma che regola tutti i valori che non si limitano all’immaginazione; nel Journal d’un inconnu (1952), scrive come il tema orfico sia essenzialmente collegato a quello della naissance inexplicable des poèmes, e dunque alla genesi della Poesia: si tratta di compiere la discesa iniziatica nelle profondità del proprio essere, sa nuit intérieure. In Cocteau la creazione artistica è imperativo morale contro ogni precetto ecco perché è evidente, a una lettura d’insieme della produzione artistica, notare una piena identificazione dell’autore con l’eroico personaggio, colui che, con l’aiuto della lira, incantò la terra degli Inferi. Oltre alle raffigurazioni in ceramiche e dipinti, la figura orfica ruota attorno alla piéce teatrale del 1927, Orphée, tragedie en un acte, e alla trilogia filmica de Le sang d’un poète (1930), Orphée (1950) e Le testament d’Orphée (1960).

Solo nel lavoro teatrale e filmico del 1950 si è espresso l’autore: in Journal d’un inconnu e in Entretiens, Cocteau spiega in maniera dettagliata la genesi dell’opera Orphée, che ricordiamo prima essere pièce teatrale e poi scénario cinemarografico. «Ma pièce Orphée devait être primitivement une histoire de la Vierge et de Joseph, des ragots qu’ils subirent à cause de l’Ange, de la malveillance de Nazareth en face d’un grossesse inexplicable, de l’obligation où cette malveillance ‘un village mit le couple de prendre la fuite». E ancora: «L’intrigue se pretait à de telles méprises que j’y renonçai. Je lui substituai le théme orphique où la naissance inexplicable des poèmes remplacerait celle de l’Enfant Divin»[11]. Nuovamente un mito, cristiano, nuovamente una figura materna e paterna. Se il poema si paragona al bimbo, Cocteau si identificherà nella figura materna. Il padre? Il mito coctoiano pare risponderci: l’abitante dell’al di là, il padre fisiologico e colui che lo ha condotto alla poesia, il padre-mentore-amante Raymond Radiguet.

La cosmogonia orfica, come annunciato, si riflette nello schermo sin dalla composizione di Le sang d’un poète e principalmente per il conflitto tra ordine e disordine, l’apollinea statua e il dionisiaco fanciullo: a coniugare il tutto, il viaggio ‘surreale’ del poeta che prosegue nella trasposizione cinematografica di Orphée. A tal proposito, il poeta deve essere quindi archéologue de sa nuit e deve far riemergere a livello conscio tutti quei resti emersi appartenenti all’Inconscio: lo scopo di Orfeo è discendere nell’Inferno per riportare Euridice alla luce del giorno. Quello del poeta è mettre sa nuit en plein lumière, ovvero ridare vita alla propria arte; per fare questo il poeta e Orfeo, l’uno il doppio dell’altro, devono oltrepassare i limiti umani, accedere a una dimensione che va oltre l’umano, l’ a-spaziale e l’a-temporale, la Zone, nella quale i personaggi entrano attraversando uno specchio, mitico intermediario: les miroirs sont les portes à travers lesquelles la Morte va et vient.

cesaro 3Il legame tra mondo umano e mondo dell’oltretomba si manifesta in forma di legame amoroso. Nel film Orphée, Orfeo si innamora della Princesse, una sorta di affascinante e mondana Parca, braccio della Morte. Questa traversata di luoghi proibiti in cerca della donna amata rappresenta anche un viaggio verso l’Inconnu, luogo dove gli uomini scrivono i loro sogni e i loro desideri, la terra degli eroi mitologici e dei poeti. Il viaggio di Orfeo è strumento di rigenerazione, metamorfosi, rinascita, quella scienza definita fenixologia, ovvero la capacità del poeta di morire molte volte per poi risorgere dalle sue stesse ceneri; e questo potrà avvenire solo grazie all’amore dell’Uomo verso la Princesse che nel corso del viaggio lo porterà a ricordare la vera essenza della sua Poesia, della sua opera. Nascere per poter ri-vivere, ri-creare. Nel film Le testament d’Orphée, nonostante il cineasta affermi più volte che nell’opera non vi sia alcun legame con la mitologia orfica, la ‘fenixologia’ è alla base del percorso del poeta interpretato da Jean Cocteau stesso. Questi deve vivere diverse vite e attraversare diversi varchi spazio-temporali prima di raggiungere la dea Atena. Deve poi portare con sé un fiore di Ibisco donatogli da Cégeste che, risorto dalle acque marine, afferma che «Cette fleur est faite de votre sang, elle épouse le syncopes de votre destin»; un fiore era già stato protagonista de La Belle et la Bête: una rosa, simbolo della poesia. Certo non si tratta di riportare alcuna amata al mondo dei vivi, ma vi è un reale viaggio, in un luogo le cui soglie marmoree richiamano l’ideale soglia agli Inferi. In più si rileva la presenza di molti dei personaggi che hanno caratterizzato la genesi del mito nell’opera precedentemente ricordata, qui riproposti. Cégeste in primis, il cavallo (presente nella pièce e divenuto poi Roll-Royce nel film), Heurtebise e infine la Princesse che condannati dal Tribunale degli Inferi a giudicare in eterno, si ritrovano ora ad accusare lo stesso Cocteau, colpevole di aver compiuto atti contro la Legge divina.

La Grecia dei teatri dai rilievi marmorei, con gli incesti, gli amori, le nascite, i mostri genera un nuovo essere: una vita quasi impossibile da raccontare come lui stesso afferma sul set de Le testament d’Orphée a Roger Pillaudin, ma che in parte si comprende grazie a Edipo e Orfeo, miti del passato che danno vita al cinematografo narcisistico di Jean Cocteau, un cinema che attraverso centinaia di fotogrammi, assurge a mito.

«Les poètes doivent vivre au-dessus des moyens de leur époque et la gloire reconnaitra les siens à ce qu’ils agonisent toute leur vie et même après leur mort[12]».

[1] Definita da Jean Touzot, ‘Automythographie’

[2] R. Barthes, Mythologies, Seuil, Paris, 1970, p.210

[3] N. Oxenhandler, Le mythe de la persécution in «La revue des lettres modernes. Jean Cocteau; vol. 1» marzo 1972 pp. 91.

[4] Sessantaquattro rappresentazioni. Venne ripresa nel 1954 con attori protagonisti Jean Marais e Jeanne Moreau.

[5] Il film è caratterizzato da due spazi, tra loro antagonisti, ovvero la camera da letto di Yvonne, dominato dal disordine, e il soggiorno di Madeleine in cui è insita l’idea di ordine. La stanza di Yvonne è ammobiliata anche con oggetti appartenenti alla famiglia Cocteau.

[6] Così Debora Alessi racconta Yvonne in G. Minerba, C. Santoro (a cura di), Jean Cocteau e il cinema,ed. Falsopiano, Torino, 2003, p.98.

[7] A. Bazin, Che cos è il cinema?, Garzanti, Milano, 1979, p.159

[8] J. Cocteau, Le testament d’Orphée, scénario et dialogues, éd. Du Rocher, Monaco, 2003, p.46.

[9] Vi sono certo accenni a miti minori come ad esempio a quello di Tristano e Isotta che ispirò l’Etérnel retour, poi diretto da Jean Delannoy. Nel percorso in barca con Cègeste, Cocteau vede in lontananza Isotta, che come narra la mitologia, viaggia verso l’amato con una barca dalle bianche vele.

[10] Come afferma Maurice Blanchot in Espace littéraire, parlando però dell’opera di Rilke, il poeta vede nell’orfismo l’origine del canto ponendo un legame indissolubile tra la poesia e la morte.

[11] J. Cocteau, Journal d’un inconnu, ed. Stock, Paris, 2003, p.48.

[12] J. Cocteau, Le cordon ombilical: souvenirs, Plon, Paris, 1962, p.45.

 

Uno sguardo per frammenti

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Lo scritto si prefigge di interrogare due lavori che, tra altri, si ritengono esemplari dell’intero pensiero di Giuseppe Boccassini, contemplante critico di un sacrificio del guardare a scapito del vedere, dalla produzione di Eidola (2010) sino all’ultima fatica, Orbit (2016). Giuseppe nasce a Terlizzi, Puglia, classe 1979. Filmmaker, laureato al DAMS di Bologna, consegue il master in regia cinematografica presso la NUCT (Cinecittà). Partecipa a diversi festival a livello internazionale. Si potrebbe definire autore di un cinema in cui il linguaggio si fa immagine per frammenti, di una produzione che sfrangia i contorni della pellicola. Il cinema, con Boccassini, non si fa più un meccanismo del guardare anzi, ironizza l’iperrealismo dell’audiovisivo contemporaneo: un codice deformante, come quello che lui utilizza, diviene a essere immagine nel momento in cui abbraccia la sensorialità del suo pubblico.

In una produzione, come quella contemporanea, che sempre più si rifà all’imperativo di visibilità totale, spicca la poetica di questo autore, nella piena libertà di sperimentare, sfidando il fruitore affinché si crei il proprio film attraverso un coacervo, un mare magnum di immagini, così -apparentemente- astratto, quanto in realtà concreto.

 La sensazione di smarrimento, che giunge nel cercare di comprendere il fil rouge di simili visioni, è dettata, secondo chi scrive, dallo scontro dialettico tra ciò che si crede di vedere e ciò che viene visto (potrebbe richiamare alla mente l’opera del 2014 Adieu au Langage di Jean Luc Godard). Ogni corpo, ogni oggetto, ogni ambiente viene de-soggettivizzato e s-materializzato grazie all’ideale di trasparenza assoluta, in un continuo dialogo tra pensiero e assetti filmici deforma(n)ti grazie l’utilizzo attento e accurato di lenti e filtri con cui l’autore lavora. Siamo spettatori di una continua soppressione della percezione, esito del duplice conflitto che possiamo riscontrare maggiormente in Lezuo (2013) e in The tin hat (2014): quello tra occhio e mente in relazione a quello tra corpo e territorio.

Lezuo. 1843: Andrea Lezuo partì per l’America sulla nave Ehon. Nata l’idea dalla lettura di epistole inviate dal protagonista al fratello, Boccassini, con questo breve (17’), ma intenso lavoro, ricrea l’immaginario di un viaggio oltreoceano ispirato a quelle parole di sogno e speranza, ma anche di terrore e incertezza, rispetto a quello che al di là poteva trovarsi. Aveva forse una percezione de ‘La Merica’, il Lezuo, grazie quei dispositivi in voga all’epoca, i cosmorami, che consentivano, grazie un’illusione ottica, di vedere quadri panoramici in rilievo; un’idea nel testo ci viene in alcune situazioni riproposta. Non pensiamo di vedere infatti una città, dei corpi in movimento, ma il ricordo sbiadito degli oggetti che compongono la storia percettiva del viaggio, che si fanno opere pittoriche, fasci luminosi e dal carattere mutevole, espressionisteboccassini 1

Il regista ricrea da quelle missive un viaggio percettivo, tramutando letteralmente in figurazione, le sensazioni che il giovane intagliatore trasmetteva nei sui racconti; artigiano dell’immagine, Boccassini compie simili procedimenti destrutturando l’oggetto di visione, riproponendo paesaggi cromatici, materia decostruita e «vanno in questa direzione le scelte della bassa definizione del formato Mini Dv, così come il quattro tersi e la scelta di filtri analogici, quali vecchi fotogrammi di pellicole Super8 e 35 mm, gelatine, vetri e lenti fotografiche, sfere trasparenti e spugne. […] Tutte le immagini ri-filmate appartengono all’archivio video della rete, in qualche modo classificabili come found footage»[1].

A questo punto, occorre chiedersi quale sia il compito del fruitore contemporaneo. La scelta di abbandonare il digitale potrebbe sembrare riduttiva, ma, è inevitabile richiami alla mente le modalità di visione dell’epoca, quando il cinematografo ancora non esisteva. Le pratiche deformative utilizzate sono certo lontane dalle tecniche d’oggi, abituate a mostrare una sequenza di eventi. Con questo lavoro, ci viene proposto di andare oltre il guardare per poter vedere. Ci viene concessa una piena identificazione in chi lesse quelle parole per la prima volta, permettendo così, come avvenne per il fratello di Lezuo, l’interpretazione di un reale. Se Boccassini ridà voce alle missive del mittente, lo spettatore, in un simile processo, si fa destinatario di tali parole-immagine, che nel loro essere non-riconoscibili, ci donano la possibilità, che sempre più va a scemare, di ritornare alla vera essenza del cinema: l’immaginazione.

boccassini 2L’anno successivo una produzione estrema e ricercata, in cui Boccassini lavora su materiale visivo della Prima Guerra Mondiale, già esistente. Mettendo in evidenza la relazione tra lo Sguardo e la Memoria, The tin hat (2014) ci permette di vedere, e quindi prendere coscienza, una realtà storica. L’idea del cortometraggio, non a caso, parte dalla considerazione di Tacito: ‘la guerra è il luogo in cui l’occhio viene per primo soggiogato’. L’argomento bellico funge così a essere filtro, secondo nostra opinione, di una questione ancor più spinosa connessa inevitabilmente allo sguardo contemporaneo.

Esse est percipi: la scelta dell’autore è quella di zumare su particolari reali donando un’obiettiva visione dei corpi deformati, dei paesaggi delle trincee. Il proiettile, premuto il grilletto, rileva nella sua traiettoria un coacervo di macerie, macerie della memoria, caotica e scomposta, frammenti di realtà di un paesaggio minato, come lo definisce Virilio[2]. Inevitabile che i sedici minuti di filmati ‘di repertorio’ non conducano lo spettatore a una destabilizzazione, poiché, quel proiettile, per come Boccassini sceglie di riproporci i fatti, si fa occhio su cui facilmente identificarsi.

Paragonabile per il fine, questo ‘sguardo artificiale’ sugli anni 1914-1918, possiamo paragonarlo a un moderno dispositivo bellico, un drone, in grado di catturare un’immagine, l’immagine che si fa informazione. Nell’anno del centesimo anniversario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, la scelta di lavorare su repertorio audiovisivo di carattere bellico induce a pensare alla medesima produzione negli anni successivi all’11 Settembre 2001, riscontrato da molta letteratura, momento cruciale di consolidamento dell’imperativo di una visibilità sistematica e quindi di una produzione illimitata di immagini, incontrollabili. Lo sguardo deformante contemporaneo è nuovamente qui messo in discussione: l’informazione oggi, scrive ancora la Storia attraverso l’immagine? O si è così saturi di testimonianze visive da non riuscire più a vedere (e quindi comprendere) la realtà? Difficile negarlo: siamo costantemente travolti da una spirale di immagini che impedisce una reale interpretazione di ciò che ci accade attorno. Boccassini sembra, con i suoi lavori, non voler piegarsi a simile processo.

[1] Così dichiara il regista, Giuseppe Boccassini, nelle note di regia di ‘Lezuo’ a cui si rimanda il lettore spinto dal desiderio di leggere frammenti delle missive, ivi contenuti.

[2] Si fa qui riferimento al testo di Paul Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione.

 

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