Desidero proporre una considerazione introduttiva sugli aspetti giuridici della Scienza e/o gli aspetti scientifici del Diritto.

Con questo mio approccio dualistico ritengo di potere introdurre alcune riflessioni necessarie se ci si vuol occupare del “fiume Scienza” o degli “argini giuridici”.

Qualsiasi sia la propensione culturale ed intellettuale, dovremo presto confrontarci con una realtà duplice: non si fa scienza se non ci si confronta con il Diritto e non si fa Diritto se non ci si occupa anche di Scienza. Le sembianze del Giano Bifronte sono emblematiche di ciò che intendo dimostrarvi, soprattutto in questa giornata interdisciplinare sulla ricerca delle cellule staminali!

Henrique Oliveira, Boxoplasmose, 2011.

Immaginiamo due archetipi poetici.

Il primo è rappresentato dalla sinfonia “La Moldava” composta da Bedrich Smetana nel 1874. Questo poema sinfonico descrive il decorso del fiume Vltava (in italiano: Moldava) dalla sua origine nella selva Boema fino all’incontro coll’Elba, dopo aver bagnato la capitale Praga. È una sinfonia d’acqua, una metafora della vita…o se vogliamo una metafora oggi attuale del fluire della vita dai primordi della staminalità.

Immaginiamo appunto, seguendo la musica, lo sgorgare dell’acqua (-vita-natura-scienza) che fluisce, si arricchisce, cresce, dilava, corrode, crea ma anche distrugge.

Sempre seguendo il brano ci si accorge della contestuale presenza dell’uomo (i corni da caccia) e le sue opere (gli argini…le regole, le leggi) che impediscono al fiume di seguire un percorso solipsistico e selvaggio. A tratti si sente che natura e legge coesistono e collaborano, a tratti l’una o l’opposta forza (natura e uomo) prendono il sopravvento.

L’opera, infine, si conclude con un nostalgico senso di mistero che aleggia sull’affluire della Moldava nell’Elba. Perché parlo di nostalgia, mistero e quindi incompletezza, incertezza?

Perché parafrasando questa lettura musicale si può immaginare il senso di onnipotenza e contestualmente inadeguatezza della Scienza…ma anche del Diritto.

E per comprendere ciò che intendo poi considerare, propongo un secondo sforzo immaginifico. Invito a rammentare il mito di Sisifo, primo Re di Corinto. Chiediamo aiuto al saggio di Albert Camus che meravigliosamente lo descrive ed attualizza nel 1942 in “Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo” (Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde):

“In questo sottile momento in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, il nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni.

Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo.

Bisogna immaginare Sisifo felice”.

Sisifo potrebbe rappresentare per certi aspetti, uno scienziato dei nostri tempi. A volte la Scienza, soprattutto se la si vive dall’esterno, come fruitori passivi, può dare l’impressione di essere molto vicina alla soluzione dei misteri della natura. A volte può essere un’illusione ricorrente e necessaria alla sopravvivenza intellettuale degli scienziati stessi. Gli uomini di Scienza, come moderni Sisifo, infatti, per non perdersi nella complessità cui si trovano di fronte, talvolta evitano di considerare la vastità di ciò che resta ancora da scoprire e soprattutto talora giudicano che tutto il loro operato sia bene.

Proprio da quest’ultima riflessione voglio ripartire per offrire alcune suggestioni sulle modalità attraverso le quali si può articolare il rapporto tra diritto e scienza.

Per brevità, immaginiamo che il rapporto tra diritto e scienza si sia sviluppato diacronicamente attraverso tre modelli epistemologici.

Il primo modello, che si sviluppa a seguito dell’illuminismo, della prima rivoluzione industriale e dell’ideologia del progresso scientifico, è quello che chiamo scientista-positivista.

Secondo questo modello è il fiume scientifico che traccia il percorso della libertà di scelta dell’uomo mettendolo in una condizione di conoscenza della realtà che lo circonda. È il fiume scientifico che modella gli argini giuridici.

Questo modello presuppone il dogma secondo il quale ciò che fa lo scienziato sia a priori un bene per la società.

Questo dogma coincide con una ideologia scientifica nota con il nome di scientismo.

Lo scientismo – che pure può vantare nobili origini in quanto derivante dall’immagine impiegata da Kant nella definizione dell’Illuminismo, con “l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità”, con l’uscita dal buio della caverna e quindi con la liberazione dell’uomo dalle catene degli idola metafisici, cosmologici e teologici – è una concezione secondo la quale la scienza è moralmente neutra e avalutativa, perché essa si basa unicamente sui valori della verità, della verificabilità, della semplicità e della universalità.

Per dimostrare la forza prometeica del fiume scientifico, uno dei padri fondatori del positivismo filosofico, Claude Henry Saint-Simon denuncia la totale inutilità dei giuristi e dei pensatori metafisici attraverso la prospettazione di una famosa parabola contenuta nel saggio L’organizzatore (1819-1820): “se la Francia, così inizia la parabola di Saint-Simon, perdesse in ogni scienza, industria, mestiere i suoi cinquanta più importanti esponenti, diverrebbe un corpo senza anima; se invece perdesse, in un solo giorno, tutti i più stretti congiunti del re, tutti i ministri, tutto l’alto clero, tutti i prefetti e tutti i giuristi un simile incidente addolorerebbe certamente i francesi, poiché essi sono buoni, ma per lo Stato non ne deriverebbe alcun male politico”.

Per quanto ancora oggi attraente, questa concezione è sbagliata perché trascura il fatto che l’idea di perseguire unicamente la verità implica una scelta in ultima analisi etica. Non solo lo scientismo sbaglia (almeno che non si accetti una tesi amorale per cui il fine giustifica l’uso di qualsiasi mezzo anche il più bieco), ma è anche una concezione ingenua. Da Norimberga e dall’esplosione della prima bomba atomica, le comunità scientifiche sono sempre più consapevoli della dimensione etica (e quindi giuridica) del loro lavoro.

Il secondo modello, che si sviluppa a seguito del neopositivismo secondo il quale il mondo è conoscibile solo attraverso proposizioni linguistiche, attraverso lo specchio del linguaggio, è quello che chiamo divisionista o non cognitivista.

Questo modello fa appello peraltro ad una legge logica nota come Legge di Hume, in forza della quale da fatti non è possibile inferire valori, da proposizioni nella forma del verbo essere (da un giudizio di fatto: ciò che è) non è possibile logicamente, se non commettendo una fallacia che i neopositivisti chiameranno fallacia naturalistica, non è possibile giustificare proposizioni nella forma del verbo dover essere (ad un giudizio di valore: ciò che deve essere). Detto in termini più semplici:

Non si può cioè ritenere che tutto quello che si verifica nel mondo sia bello o giusto solo perché si verifica.

È pur vero che avere un certo grado di conoscenza si riflette sulla capacità di esercitare un controllo sulle nostre scelte etiche o giuridiche, ma la conoscenza dei fatti tutt’al più è condizione necessaria ma non sufficiente per guidare i comportamenti e le scelte dell’uomo.

Questo secondo modello è indirettamente una risposta al modello scientista: è bene per la libertà dell’uomo, proprio per evitare di cadere in una distopia totalitaria di un regime scientista quale fu quello nazista, tenere separate le due sfere di conoscenza dell’uomo: la conoscenza sui fatti produrrà leggi scientifiche di cui si potrà predicare la verità o la falsità; la conoscenza sulle azioni umane produrrà leggi giuridiche di cui si potrà predicare la giustizia o l’ingiustizia (la liceità o l’illiceità, la validità o l’invalidità).

Non perché qualcosa accade di fatto, noi siamo giustificati nell’affermarne la giustezza sotto il profilo giuridico.

Ne consegue che: le norme della natura (le leggi scientifiche) sono leggi necessarie e il nesso condizionale tra la condizione e la conseguenza si chiama nesso di causalità (nesso o legame ontico) perché al verificarsi della condizione non può non verificarsi anche la conseguenza.

Le norme della natura esprimono il mondo della necessità.

Le norme giuridiche non esistono in natura; esse sono il risultato del libero arbitrio dell’uomo che decide convenzionalmente di regolare i propri ambiti di vita dandosi regole: regole morali, regole sociali, regole di etichetta, e regole giuridiche.

L’artificialità delle norme giuridiche sono la conseguenza della libertà dell’uomo, cioè della libertà di imputare una conseguenza ad una condizione (atti di volontà, condotte umane) che si è convenzionalmente deciso di qualificare come giuridicamente rilevante.

In questo secondo modello, sono gli argini giuridici ad avere la meglio sul fiume scientifico: la conformazione del corso del fiume dipende dagli argini costruiti dal diritto.

Il terzo ed ultimo modello, a favore del quale dichiaro la mia preferenza, potremmo immaginarlo attraverso la metafora del Ponte: per evitare che il fiume scientifico straripi e allo stesso tempo per evitare che gli argini giuridici impediscano un ragionevole fluire del fiume dobbiamo pensare che il rapporto tra diritto e scienza diventa fecondo per l’umanità solo se tra lo scorrere del fiume e le sue rive siano presenti delle camere di compensazione, delle chiuse o, se volete, dei Ponti che permettano di mantenere, regolare e controllare sia il livello del fiume sia lo stato degli argini.

Ciò è tanto più necessario perché, almeno a partire dallo scoppio della prima bomba atomica, la scienza si è trasformata in tecnoscienza, vale a dire la scienza oggi non si limita solo a scoprire ciò che avviene in natura, ma diventa allo stesso tempo tecnica, cioè fabbricazione e manipolazione della natura.

Ha perso ormai terreno la consueta distinzione tra scienza pura (speculativa) e tecnologia. Scienza pura e tecnologie appaiono sempre più collegate e oggi sono proprio le scienze biologiche a dimostrare quanto stretto sia questo legame. Le biotecnologie non sono la semplice applicazione della mera conoscenza biologica, come se la prima fosse la semplice conseguenza della seconda. La conoscenza biologica cresce insieme con il successo industriale delle biotecnologie e grazie ad esso.

Le tecnoscienze hanno imposto una rottura epistemologica rispetto a quello che prima ritenevamo naturale e quindi intangibile, immune dall’essere scalfito dall’ambito delle scelte operate dall’uomo.

I confini tra naturalità e artificialità si sono via via fatti sempre più opachi; si è fatto opaco il confine tra un agire clinico (conservatio vitae) ed un agire ingegneristico (salus vitae).

La vita umana e la natura nell’epoca della loro riproducibilità tecnica diventano dunque materia malleabile, plastica e manipolabile fino, come ha scritto Hans Jonas, ad un punto di non ritorno.

Le capacità bio-tecniche scardinano una vecchia concezione statica della natura umana ed impongono la elaborazione di un nuovo paradigma antropologico centrato sulla figura dell’homo creator che si instaura a spese di quello seppur ancora recente incardinato sul concetto di homo faber elaborato da Hannah Arendt nel suo Vita Activa e in parte in modo diverso dalla antropologia negativa del ‘900.

È Gunther Anders a profetizzare in alcune lucidissime pagine de L’uomo è antiquato questo passaggio epocale, questa ultima rivoluzione scientifica: nell’homo creator si indica la capacità dell’uomo di generare prodotti dalla natura, che non fanno parte della categoria dei prodotti culturali (ad esempio costruire una casa tutta di legno naturale), ma della natura stessa.

L’uomo cioè non si limita più a trasformare la natura – come il paradigma dell’homo faber ci indicava – ma crea la natura, introducendo sulla scena del mondo vivente processi naturali completamente nuovi (pensate ai brevetti sulle invenzioni biotecnologiche, come nel caso degli organismi geneticamente modificati, pensate alla biologia sintetica).

Attribuendo il requisito dell’artificialità (e dell’invenzione) a una entità naturale, si è permesso di brevettare e di commercializzare i prodotti biomedici di origine umana.

Un caso paradigmatico è quello di John Moore, un medico americano affetto da leucemia che, nel 1976, decise di agire in giudizio per rivendicare il diritto di proprietà sulla linea cellulare ricavata dalla sua milza e brevettata dall’ospedale che l’aveva avuto in cura. La Corte Suprema della California decise che la milza era di proprietà del signor Moore ma che la linea cellulare ricavata, per invenzione scientifica, dalla sua milza era di proprietà dell’ospedale universitario che ne deteneva legittimamente il brevetto (Moore v. Regents of University of California, 51 Cal. 3d; 1990).

Un’altra vicenda ben nota a chi opera in campo biomedico è il caso di Henrietta Lacks.

Henrietta Lacks lavorava nei campi di tabacco della Virginia, così come i suoi antenati schiavi. Quando morì per un tumore, nel 1951, i medici, senza preoccuparsi di chiedere alcun consenso, prelevarono un campione dei suoi tessuti e si accorsero ben presto di un fenomeno sbalorditivo, mai registrato prima nella storia della medicina: le cellule tumorali continuavano a crescere fuori dal corpo, in laboratorio. Da qui alla commercializzazione il passo fu breve, ma sarebbero passati vent’anni prima che i familiari scoprissero una verità non meno incredibile che traumatizzante: Henrietta era ‘immortale’, e dalle sue cellule si era sviluppata un’industria miliardaria. La sigla HeLa, che denota una linea cellulare di vitale importanza nelle ricerche sul cancro e su molte altre malattie: cellule speciali, tanto resistenti da essere praticamente immortali, vendute e comprate da decenni nei laboratori di tutto il mondo. Ma quelle quattro lettere racchiudono anche una storia perturbante, emblematica – e soprattutto una persona in carne e ossa.

Lo scienziato si è fatto imprenditore, è uscito dal chiuso dei suoi laboratori e il suo operato, non più autoreferenziale, diventa un costrutto sociale (una prassi sociale, una ontologia sociale) al pari del diritto. Come costruisco, invento, fabbrico il diritto, allo stesso modo fabbrico, manipolo, invento, brevetto la vita e la natura.

Diventa necessario allora gettare un ponte, costruire camere di compensazione tra saperi scientifico-tecnologici e la riflessione normativa.

In questo senso, l’attività dei comitati etici, l’autoregolazione attraverso i codici deontologici, il rispetto delle Good Clinical Practice permetterebbero di concretizzare la metafora del Ponte che dice della necessità di una via di comunicazione, prima di un intervento legislativo, tra i saperi scientifici e i saperi umanistici, di un dialogo che nel rendere possibile la comunicazione fra saperi diversi accolga anche le voci provenienti dalle società e dell’opinione comune.

La metafora del ponte evoca la necessità di costruire un rapporto particolarmente stretto tra vita e sapere, in modo che la conoscenza non sia prerogativa di una unica componente sociale – la comunità degli scienziati – ma che sia condivisa con i cittadini che divengono sia critici che creatori di una forma di cittadinanza epistemica all’interno di uno spazio istituzionale di discussione in cui il sapere scientifico possa consolidarsi socialmente in modo critico e soprattutto in modo democratico.

[*] Si tratta della relazione tenuta dall’Autore nel corso dell’evento: Unistem Day, Università di Ferrara, 13 marzo 2015.

 

Professore associato di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara. Titolare delle cattedre di Teoria generale del diritto e di Metodologia e logica giuridica (Sede di Rovigo) presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara. Docente a contratto di Legislazione Ambientale presso la Facoltà di Scienze biologiche dell’Università degli Studi di Ferrara. Membro delle redazioni di ARS INTERPRETANDI (Carocci Editore) e di RIVISTA DI FILOSOFIA DEL DIRITTO (il Mulino Editore). Autore di oltre 40 pubblicazioni su rivista e delle seguenti monografie: “La vita umana «presa sul serio». Uno studio sul perfezionismo bioetico di John M. Finnis e sul liberalismo bioetico di Ronald Dworkin”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009. “Giudizi di esistenza. Deliberare sulla vita umana nella riflessione bioetica contemporanea”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009. “Lex informatica. Diritto, persona e potere nell’età del cyberspazio” (collana internazionale Law Science Technology), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015.

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