[av_heading tag=’h1′ padding=’10’ heading=’Il mio corpo è un confine, il mio Stato un muro: appunti sulla penetrabilità’ color=” style=’blockquote classic-quote’ custom_font=” size=” subheading_active=’subheading_above’ subheading_size=’15’ custom_class=”]
Ernesto Sferrazza Papa
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La complessità dello spazio globale che abitiamo, troppo complessa per poter essere trattenuta in immagine, troppo sclerotizzata da farsi sussumere nella forma del concetto, può suggerire la necessità di attraversarla nella forma della suggestione. Un pensiero non sistematico, ma non per questo irrazionale o “poetico”, composto perlopiù da una serie di appunti, di note prese durante un lucido dormiveglia. Una di queste suggestioni che particolarmente colpisce – mi colpisce – alla luce del fosco scenario nel quale ci muoviamo come corpi, come soggetti, come cittadini – le tre accezioni, lo si intuirà, non sono sinonime, ma costituiscono una gerarchia biopolitica ascendente, dalla vita più “semplice”, “nuda”, a quella più complessa, qualificata, “vestita” di una miriade di orpelli giuridici, sociali, culturali e politici – è la complessità del tema del confine.

Tema affascinante, complesso nel suo attraversare una molteplicità di discipline, senza che alcuna possa rivendicare su di esso una qualsiasi forma di copyright. Ne scelgo una, non per importanza, ma perché a un certo punto della vita mi sono ritrovato, per ragioni indecifrabili, a occuparmene: la filosofia politica. La domanda filosofico-politica sul confine deve essere così formulata: quale riflessione filosofica possiamo imbastire quando concepiamo il confine come un oggetto politico?

Il mondo – ci avventuriamo a parlare di “mondo”, chiudendo gli occhi di fronte a ogni adorniana critica della totalità: i più clementi ci perdoneranno – è attraversato, è segnato da confini; il confine è ciò che determina l’individuo, che lo caratterizza nella sua singolarità rispetto al resto delle cose. Il confine assegna un posto, conferisce un rango nel catalogo del mondo. Noi siamo individui perché abbiamo un confine, che determina quando il nostro corpo finisce e quando comincia un altro corpo. Potremmo dire che il nostro essere più intimo è un confine: noi stessi, insomma, siamo un confine. Io sono un confine, tu che stai leggendo sei un confine.

Cosa significa tutto ciò misurato sul terreno politico?

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Il confine è un segno nello spazio, un’inscrizione nello e dello spazio – è la mia ossessione, la domanda che ritengo valga una vita intera di ricerca: che cos’è e cosa implica una separazione materiale? Proprio come la nostra identità si determina a partire dal confine spaziale che ci separa dall’alterità, dall’altro, allo stesso modo le entità che strutturano la nostra vita politica internazionale, chiamiamoli gli “Stati”, trovano la loro specificità nell’essere separati dalle altre entità. Bisogna sempre essere separati per riconoscersi, e questo vale per l’individuo inteso come corpo biologico, come pura unità di funzioni fisiologiche, così come per una qualsiasi entità politicamente qualificata.

Tuttavia, vi è una differenza radicale fra le due dimensioni: mentre la separazione per noi è data biologicamente – noi veniamo al mondo come corpi limitati nello spazio: il taglio del cordone ombelicale attesta che siamo diventati individui, perché ci separa dal corpo della madre –, la produzione di un qualcosa come lo Stato è determinata politicamente, socialmente e culturalmente. I confini statali, di contro, non hanno alcunché di naturale, nonostante esistano segni nello spazio che inviterebbero i meno accorti, o quelli in malafede, a pensarlo (montagne, fiumi, mari). Gli Stati, per farla breve, sono costruiti socialmente. Maurizio Ferraris direbbe – e l’ha detto – che gli stati sono oggetti sociali. Hanno a che fare non solo con la geografia ma anche con la storia, con la lettera piuttosto che con lo spirito.

Il confine però ha anche un’altra funzione oltre a quella individualizzante: non solo separa, ma connette. È sempre un con-fine, un finire con qualcosa, un finire che è sempre un inizio: dove termina uno Stato ne comincia un altro, dove finisce il mio corpo comincia il corpo di qualcun altro, di qualcos’altro. La sovranità, come i corpi, è sempre contigua: procede per continuità spaziale. Il confine è una cesura nello spazio che segna rispettivamente una fine e un inizio. Dopo il confine non c’è la fine del mondo, ma sempre qualcos’altro, e questo qualcos’altro c’è in funzione e a partire dal confine.

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Questo implica due conseguenze. In primo luogo il confine, essendo allo stesso tempo una separazione e una connessione, non può essere considerato come uno dispositivo di isolamento spaziale; in secondo luogo, essendo una costruzione sociale, il confine non può mai essere dato una volta per tutte. Il confine è sempre negoziabile, e questo è ovviamente il motivo per cui sui confini, intorno ai confini, attraverso i confini e per i confini si giocano da sempre le più importanti battaglie politiche.

Così pensato, il confine testimonia di una certa intrinseca porosità. Il confine è fluido, malleabile, è una separazione sempre aperta all’inclusione, è una frattura che può essere attraversata. Il confine permette di ibridare, di mescolare, permette a uno spazio di essere penetrato dall’altro lato, da un versante più a nord. Lo sapevano perfettamente i romani: i barbari, prima o poi, arriveranno. Il motto del confine è: posso essere penetrato. Per tornare alla nostra somiglianza di famiglia iniziale, anche i nostri corpi, ossia anche noi – io che scrivo e tu che leggi – siamo soggetti fluidi, malleabili, porosi: siamo confini, non siamo muri, possiamo penetrare, possiamo essere penetrati, possiamo diventare una cosa sola per poi separarci nuovamente. E certo, bisogna scalciare via la lectio facilior che fa di questa costitutiva porosità del confine un valore intrinsecamente positivo. Porosità significa rischio, conflitto, esposizione dell’epidermide alla malattia. Ogni relazione è un rischio patologico, ogni rapporto può essere il veicolo di un contagio. Un confine può essere attraversato per invadere e occupare un territorio altrui, così come un corpo può essere violato. Freud, è noto, aveva individuato un’analogia fra la guerra e il rapporto sessuale. Il rapporto sessuale, di più, è una guerra, una battaglia: si fagocita l’altro, se ne divorano le membra, lo si ingloba, ce ne si appropria a tempo determinato. Ma questo rischio è, tuttavia, parte costitutiva e irrinunciabile del nostro essere “vite precarie”, come direbbe Judith Butler. Esseri finiti, corpi destinati alla decomposizione: nelle nostre vene scorre la morte, ogni nostro incontro può istantaneamente capovolgersi in conflitto.

Ma la molteplicità dei modi di attraversare un confine, di s-confinare altrove, non possono essere un argomento contro la mobilità intrinseca che il confine produce.

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Torniamo allo spazio globale. La mia tesi, qui offerta in forma apodittica, altrove sviluppata con maggiore contezza, è che l’articolazione spaziale a cui stiamo assistendo saboti e neghi le proprietà intrinseche del confine. La razionalità topolitica – l’espressione è di Derrida – a cui ci stiamo lentamente, ma inesorabilmente, abituando, è quella di materializzare il confine in modo da eliminare quella possibilità di attraversamento o, per essere più precisi, per filtrarla. Questa non è l’epoca dei confini, ma è l’epoca dei muri. Lo spazio europeo (in ritardo rispetto allo spazio extraeuropeo c’è da dire) è oramai striato, segnati da muri di cemento, da muri di filo spinato.

Che cos’è un muro se analizzato in quest’ottica? Vorrei abbozzare una definizione funzionale, una definizione strategica più che descrittiva: un muro è la concretizzazione materiale di un confine ma, allo stesso tempo, ne è la più intima e profonda negazione. In questo senso il muro è oggetto paradossale, che inscrive nello spazio della mobilità e del flusso la rigidità e la fissità. Se seguiamo la lezione del metodo materialistico – Marx, Benjamin, Weil – dobbiamo accettare che ogni strumento contiene in sé il principio del proprio funzionamento. Il muro separa isolando, e non potrebbe essere altrimenti. Nel far ciò non risponde solamente a una funzione “sovrana”, ossia: non si limita a escludere e a impedire. Il muro obbedisce anche a una funzione che potremmo definire governamentale: esso filtra i corpi, amministra gli spostamenti fra le vite che hanno la possibilità di attraversarlo (corpi utili, corpi economicamente sfruttabili) e vite che terminano il loro cammino davanti a quel muro (corpi inutili, carne vile, esistenze miserabili di poco conto). Il muro amministra una mobilità gerarchizzando le vite. È la trasformazione del confine in tonnara.

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La complessità dello spazio globale che abitiamo, troppo complessa per poter essere trattenuta in immagine, troppo sclerotizzata da farsi sussumere nella forma del concetto, può suggerire la necessità di attraversarla nella forma della suggestione. Un pensiero non sistematico, ma non per questo irrazionale o “poetico”, composto perlopiù da una serie di appunti, di note prese durante un lucido dormiveglia.

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Deprechiamo la politica dei muri. Nabucodonosor II, costruttore di Babilonia, re muratore, non è il nostro sovrano. Lo disconosciamo in virtù del principio di somiglianza fra confine e corpo che abbiamo stabilito. Uno Stato-muro coincide con un corpo impenetrabile: non può essere invaso, è al sicuro. È un corpo senza orifizi. Nessuna poliorcetica, in linea di principio, può avere la meglio. Ma il prezzo da pagare per trasformare un corpo-confine in un corpo-muro è carissimo: assenza di godimento con l’altro e dell’altro. Diminuzione della potenza del corpo, giacché la potenza di un corpo – Spinoza e poi Deleuze lo hanno mostrato in maniera cristallina – aumenta solamente mediante l’incontro gioioso con altri corpi.

Si dà allora la necessità di produrre, in forma strategica, una politica e un’etica dello sconfinamento, dell’invadere uno spazio altrui, uno spazio altro. Come apriamo il corpo? Come accediamo alle aperture, ai buchi, ai corpi altrui? Come penetriamo l’altro? Come ci facciamo penetrare? Come lavoriamo per aprire brecce, sfondare muri, entrare con dolcezza e in punta di piedi nelle vite degli altri? Come ci muoviamo nello spazio affinché i nostri corpi si incontrino in maniera gioiosa?

 Da qui parte, o riparte il nostro lavoro, la nostra ricerca: come studiosi, come filosofi, come corpi in movimento.

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Ernesto Sferrazza Papa, classe 1988, è un borsista postdoc presso il Collège d’études mondiales (Fondation Maison des sciences de l’homme, Paris). Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia nel marzo 2016 all’Università di Torino, discutendo una tesi sul rapporto tra spazio e potere nella modernità e nella postmodernità. Presso la medesima università è attualmente cultore della materia in filosofia teoretica. Nel 2014 è stato visiting scholar presso il Center for Religious Studies and Research della Vilnius University. È membro del LabOnt, il laboratorio di ontologia diretto da Maurizio Ferraris. Fa parte dei comitati editoriali della “Rivista di Estetica” e di “Filosofia”. Si è occupato soprattutto del tema dell’articolazione politica dello spazio, con un interesse particolare rivolto agli autori classici della filosofia (Platone, Aristotele, Hobbes, Kant, Hegel) e a pensatori contemporanei (Schmitt, Foucault, Agamben, Esposito). Ha pubblicato numerosi saggi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Attualmente è impegnato nella stesura di una monografia dedicata alla storia filosofica e politica dei muri.

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