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Tommmaso Gazzolo

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Tommaso Gazzolo (Parma, 1984) è ricercatore t.d. in Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari.

Fabrizio De André. Vent’anni dopo (1999-2019)

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voce/parola

A vent’anni dalla sua scomparsa, ricordare Fabrizio De André vuole dire ripensare anzitutto alla sua voce, prima che alle parole, a ciò che egli ha cantato. Passa da qui, del resto, la differenza tra la canzone d’autore (la sua “vecchia fidanzata”, come la chiamava) e una poetica. Non sono le parole, non è quello che egli ha detto cantando, a contare davvero. E ciò non soltanto perché – come è stato ricordato – a dispetto di quanto si tenda a pensare De André era «solito comporre prima la musica che le parole, e in attesa di aver finito il lavoro di “adattare un testo a una musica”, usava una parte dei suoi versi per riempire i vuoti» (Franco Fabbri). Dobbiamo, piuttosto, ricordarci sempre che la voce non è la parola. Essa, piuttosto, è ciò che la parola, una volta che interviene e si articola, abolisce, non fa più sentire; al contempo, però, è ciò che non potrebbe sentirsi se non attraverso la parola (Corrado Bologna ha scritto pagine bellissime su questo tema: la voce – vi leggo – «è l’indicibile che deve ammantarsi di panni verbali, addossarsi la carne del linguaggio per rendersi visibile»[1]). Per questo, come diceva Barthes, nella musica – per quanto possa essere studiata, tecnicamente, esteticamente, etc. – c’è sempre un resto, un non detto: la voce. Di Fabrizio De André, dovremo allora, forse, imparare a scoprire, prima di ogni altra cosa, quella “fisica della voce” che ha fatto dire a Umberto Fiori, molto giustamente, che «si potrebbe affermare che ciò che De André ha davvero creato è la sua voce, di cui testi e musiche costituiscono – per così dire – le condizioni d’ascolto». Se c’è allora una poetica, in De André, essa si definisce al limite, come scrive Valery, in quanto le langage issu de la voix, plutôt que la voix du langage. Non dobbiamo però confondere la voce con l’intonazione, il timbro, la pronuncia – per quanto abbia ovviamente a che fare con essi.  La voce è ciò che sta tra il silenzio e il linguaggio, senza essere né l’uno né l’altro, condizione di ogni ascolto che non può essere ascoltata in quanto tale. Bisogna lasciarsi catturare dalla voce – ed è una cattura gioiosa, anche se essa non può farsi che a pezzi, frammentariamente, se richiede pazienza, perché non è facile sentirsi realmente, cioè fisicamente toccati da una voce. E’ un’esperienza propriamente amorosa, l’unica che si possa fare con il canto, con la canzone (non c’è esperienza “intellettuale” di una canzone: c’è forse del suo testo, o della sua musica, o di entrambi, ma non del canto in quanto tale). Certamente, c’è una scrittura raffinatissima, in De André, e ci sono anche tutte le sue “qualità” vocali. Ma il registro amoroso dell’ascolto non comincia che quando le parole diventano voce, quando si passa ad una vibrazione, in cui viene cancellato il linguaggio, la comunicazione, per un “pensiero fatto di sola voce” (per dirla con Gaunilone, la cogitatio secundum vocem solam[2]).

fuori-testo.

E’ come se tutto ciò che De André scrive, dice, canta – i “temi” delle sue canzoni – non fosse che al servizio di questa esperienza, non servisse che a portarci, ascoltandolo, fino al punto in cui si può incontrare la voce, quel fuori-testo che è quanto di più interno, in realtà, a ciò che è cantato. La voce è in eccesso, e che per questo si “intona” al di là del testo[3]. Si conquista allora, di volta in volta, la voce di Fabrizio De André, e per ciascuno questa conquista è diversa, perché passa per momenti, tratti che variano nel tempo. Per questo capita che per mesi interi si ascolti magari un solo disco, perché lì si sono individuati i punti, le inflessioni, le modulazioni che consentono di passare alla voce. Allora attraverso le parole si giunge finalmente a scoprire la voce, a sentirla sul proprio corpo (non so più, personalmente, che cosa De André dica, che cosa significhino punti come “cosa importa se sono fottuto, se sono lontano” o “si fermò un attimo per suggerire a Dio di continuare a farsi i cazzi suoi”, nelle rispettive varianti introdotte nei concerti). La voce stessa diviene ciò che, fino a quel momento, era soltanto preparato, soltanto “annunciato” dal testo. Così l’alcolismo di “Amico Fragile” non è più una questione di parole, non passa più per il testo, ma è nella voce che si indurisce, voce puramente presente, in una perdita assoluta del passato, e che si articola intorno ad un “centro molle, lava, vetro liquido o pastoso” (questo “indurimento del presente” è, come Deleuze osserva, l’esperienza propria dell’alcolizzato). Così, ancora, in “Canto del servo pastore” – e più in generale tutte le volte in cui De André fa corrispondere il divenire-indiano del sardo con il divenire-sardo dell’indiano, è il grande tema dell’album del 1981 – , è la voce a farsi pellerossa, a guarire le ferite con il suo canto (lui stesso dirà: «La mia voce poteva essere una voce da sciamano»). E in “Crêuza de Mä”, la scelta della lingua – il genovese – serve a permettere alla voce di farsi voce-onda, voce-remo, voce-gabbiano («la lingua più adatta mi è sembrata il genovese, con i suoi dittonghi, i suoi iati, la sua ricchezza di sostantivi e aggettivi tronchi che li puoi accorciare e allungare quasi come il grido di un gabbiano»). Il rischio – che vi è sempre stato – di portare De André nelle antologie scolastiche, di valorizzarne la “poetica”, è dunque quello di non capire più, di invertire – e così semplificare – il rapporto tra voce e parola. La voce non è il mezzo di espressione della parola, lo “strumento” per comunicare qualcosa. Al contrario, sono le parole che preparano la voce, la sua emergenza, i suoi divenire, ed il suo forzarci, portarci altrove. “Dolcenera” non racconta di un amore perduto e di una morte durante un’alluvione se non per consentire alla voce di farsi a sua volta pioggia, di “picchiare forte”. Bisogna seguire questi divenire della voce, attraverso il canto: voce che cade come neve, in “Inverno”; voce che non canta mai l’abbandono, ma che diviene l’abbandono stesso (“Tre madri”); voce che diventa oggetto perduto, diventa ciò che causa il nostro desiderio (“D’ä mæ Riva”). L’arte di De André è inseparabile da tutto questo, e la sua “discografia”, le diverse “influenze” (dagli chansonniers francesi alla musica americana), le “alleanze” che ha stretto (da Dané a Piovani, a Bentivoglio, a Pagani, etc.) non andrebbero studiate che come pratiche, come tentativi di sperimentare ciò che poteva la sua voce: le affezioni che poteva provocare e subire, le forze che poteva mettere di volta in volta in gioco.

voce-sesso

Poche voci sembrerebbero “maschili” come quella di De André. Ma che cos’è una voce maschile? Pascal Quignard parla, in maniera meravigliosa, di come essa sia sempre una voce che si è rotta, perduta: solo l’uomo perde la voce, la sua voce di bambino, in corrispondenza con la vernatio, la “sessuazione” e la divisione tra i due sessi, la sua muta durante la pubertà (Adolescent, comme tous les adolescents, ma voix se brisa. Mais elle demeura étouffée et perdue). E’ allora che la voce si fa bassa, che cessa di essere la “mia” voce. La voce maschile è una pelle di serpente, è voce morta, strappata all’infanzia, alla sua “femminilità”. Per questo il femminile, in De André, è sempre dalla parte del sacrificio (lo ripeterà spesso: «per me il mondo della donna è sempre apparso, almeno ai miei occhi, come un po’ il mondo del sacrificio», il sacrificio della maternità, della prostituzione e della verginità), di ciò che è stato sacrificato nel farsi-maschile della voce. Solo la voce femminile, propriamente, canta, è la voce del canto (Hélène Cixous: «quello che canta in un uomo non è “lui”, è “lei”»). Ma, se nella donna il canto è ciò che preserva questa voce, per il maschio essa è una voce perduta per sempre, una voce sacrificata. Egli non farà musica che per ritrovarla. Si pensi alla “Buona Novella”, nella sua prima parte, soprattutto con l’infanzia e il sogno di Maria: non si tratterà mai che di cantare la perdita di un canto femminile, il suo sacrificio che precede quello della croce.

voce-evento

Elio Matassi lo ha ricordato con precisione: la concezione della voce come strumento (ossia «quella concezione che considera la voce alla stregua di un puro oggetto, declinabile a piacimento da una volontà ad esso totalmente estranea») è all’opposto della concezione della voce come evento, in cui «definire la voce un evento significa considerarla una dimensione straordinaria che nasce e muore nel momento stesso in cui accade e che, pur in questa sua istantaneità, celebra una svolta decisiva»[4]. Di questo, dunque, si tratta, per poter incontrare De André: di lasciare che la sua voce possa accadere. Si esce allora dalla musica attraverso la musica, si esce dal testo attraverso il testo, per poter arrivare alla voce, ad un pensiero che non passa per le parole, per i loro significati, ma che è fatto di pura voce, flatus vocis. La voce è ciò che può essere raggiunto solo dove la parola finalmente manchi. La voce, a differenza della parola, è ciò che non inganna (perché non significa), non comunica nulla – non passa alcuna informazione, per essa. Quel che non coglie il punto, allora, è la retorica del De André “poeta” – a cui spesso, è vero, siamo stati tutti tentati di ricorrere (alcune dichiarazioni di Luzi, di Tabucchi, il quale scrive che i suoi «testi sussistono alla perfezione sulla pagina senza obbligatoriamente l’appoggio della musica», o della Pivano, che ne parlò come del «più grande poeta che abbia avuto l’Italia negli ultimi cinquanta o sessant’anni»). Ma questo perché la canzone non è semplicemente l’unione estrinseca, l’accordo di testo e musica, non è semplicemente un testo cantato. La canzone è, piuttosto, ciò che lascia venire la voce, ed è solo tramite la voce – osservava Bachmann – che la poesia, il detto e la musica trovano, nel reciproco richiamarsi e relazionarsi, il loro momento di verità (an dem Dichtung und Musik den Augenblick der Wahrheit miteinander haben). Se De André si è servito, allora, della canzone – e, anzitutto, delle strutture della chanson, o della ballata – è perché si trattava, più di ogni altra cosa, di dar corpo alla voce, di consentirle di incarnarsi, di farsi sensibile. Proprio perché non esiste che nel suo incarnarsi, nelle note, nei suoni, che la voce non è semplicemente quella di De André (ciò che egli dice): la voce è il resto, è forse, al limite, la sua assenza, il vuoto stesso che il cantato lascia sentire – sono i punti di rottura, dove la canzone non è più discorso, dove passa vicinissima al silenzio. Per questo la voce non si oppone, ma è inseparabile da ciò che è senza voce. Ed è in questo senso che De André “canta” gli ultimi, coloro che non hanno voce.  

senza-voce

Tutto il tema “politico” non passa infatti che da qui, ed è veramente poca cosa ripetere che De André è stato il cantante degli “ultimi”, degli “esclusi”, dei diseredati. Il punto, piuttosto, è che, se egli ha parlato “per” loro, lo ha fatto proprio a partire da questa domanda: come farsi una voce per parlare in nome di coloro che sono senza-voce – che siano essi quanti “morirono a stento”, o le “anime salve”? C’è una voce che si fa pura lontananza, distanza, pura “feritoia della notte” ad esempio, e che è la voce dei suicidi, o meglio una voce-suicida (si pensi a “Preghiera in gennaio”). Se allora c’è una politica, in De André, essa non si definisce che in questo movimento – del tutto interno alla canzone: rendere udibile ciò che non è udibile, ossia la voce dei senza-voce. In questo senso, è ad un senza-voce ciò a cui la voce di De André riesce ad arrivare, un silenzio che è quello di chi non ha mai avuto la parola (la lingua dei vinti). “Storia di un impiegato” è forse il disco dove si gioca in maniera più evidente questa lotta tra la parola e la voce, in quella reciproca implicazione (nessuna parola senza voce, nessuna voce che non parli) che ne nasconde la differenza. Tutto passerà per variazioni sottilissime, allucinazioni in cui bisogna esercitarsi a entrare per capire quando si passa dalla parola – ossia dal linguaggio del potere, gelido, “neutro”, informativo e giudicante (“Sogno numero due”) – alla voce – disarticolata e visionaria, e pure sempre ferma, crudele e dolce (“vostro onore sei un figlio di troia”). Che, poi, sia in De André che tutto questo avviene con maggior rigore rispetto ad ogni altro “cantautore”, ciò lo si deve forse, come ha osservato ancora Franco Fabbri, a quella «faglia nella voce» che fa sì che, in lui, vi siano sempre due registri, due “voci” – l’una più grave, che risuona «dentro lo stesso ascoltatore», l’altra più narrativa, “pubblica”, più asciutta[5]. Blanchot aveva già distinto la voce “narrante” – quella che rinvia al soggetto che racconta – dalla voce “narrativa” – voce del “neutro”, sempre differente da ciò che la proferisce. E’ la continua interazione, differenziazione, eterogeneità, tra queste due voci che spezza la “parola”, il semplice comunicare qualcosa della canzone, il testo, che lo “buca” sempre, fa sentire la propria mancanza, lo attraversa come una pura intensità. Il problema non è allora che non si possa “imitare” la voce di De André (lo si fa in continuazione, ormai, perché imitare De André, paradossalmente, è semplicissimo, come ancora Fabbri ricordava, di recente: chiunque riesca a scendere con la voce fino al mi basso della chitarra «somiglierà inevitabilmente all’originale, per il solo fatto di scendere ai limiti inferiori della propria estensione»). E’ che non è nella voce – ossia nella sola tonalità, nel timbro – che sta la voce. La voce è ciò che richiede un lungo lavoro di creazione, è ciò che può essere raggiunta soltanto dall’artista, e non dal cantante dilettante. Se allora Fabrizio De André non verrà dimenticato – e questa dimenticanza rischia di passare, in realtà, proprio dalla sua celebrazione, dal suo essere divenuto un “autore” antologizzato –, tutto dipenderà ancora dalla nostra capacità di saper ascoltare la sua voce, di sapersi innamorare di lei, di lasciarsi ferire da essa, di essere nel suo abbandono. «E’ la voce che ti viene confidata, e non ciò che dice»[6].


[1] C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992.

[2] Il motivo è stato ripreso e sviluppato da G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino, Einaudi, 1982.

[3] Cfr. A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2003.

[4] E. Matassi, La voce come evento, in «Lettera internazionale», 89, 2006, pp. 51-53.

[5] Cfr. F. Fabbri, Il suonatore Faber, in Id., L’ascolto tabù, Milano, Il Saggiatore, 2017. 

[6] M. Blanchot, L’attesa, l’oblio, trad. it. Parma, Guanda, 1978, p. 22.

Differenza sessuale e “contraddizione” nel giovane Marx.

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La separazione dei sessi.     

Che cosa, nel giovane Marx, separa, differenzia, “marca” i due sessi – che cosa assicura la possibilità di fissare la differenza tra i sessi, di ripartirli, di distinguerli? Quale è la legge di questa differenza, sempre che ve ne sia una? Attraverso questa domanda, si tenterà, nelle pagine che seguono, di rendere leggibile, nei testi marxiani giovanili, un pensiero della differenza sessuale, nonché di mostrare come esso si articoli oggettivamente secondo una logica diversa da quella della “contraddizione” e del recupero della tradizione hegeliana. Il problema non va confuso, per quante corrispondenze possa presentare, con le posizioni sulla condizione della donna e sulla questione femminile[1]. Si tratta, piuttosto, di seguire una serie di passaggi teorici irriducibili alle tematiche sopra ricordate: per quanto, infatti, possa essere sempre individuata, nel testo di Marx, una costante apertura, pratica e teorica, in favore della donna, per quanto si insista sulla denuncia della sua condizione, sulla critica della famiglia borghese, etc., tutto ciò non risolve, ed anzi rende più complicata, la questione di come sia possibile la donna, di come siano possibili due sessi opposti e ciascuno sussistente di per sé, in una disgiunzione esclusiva (che fa sì – per citare  De Vigny – che les deux sexes mourront chacun de son côté). Marx non ne parla mai apertamente. Eppure c’è un pensiero della differenza sessuale, almeno ogni volta in cui ne va del genere (Gattung), della legge del genere, dell’ingenerare (sich gatten), di ciò che riguarda il genus, della separazione tra uomo e animale, uomo e natura. Sono questi i passaggi attraverso i quali dovrà passare il tentativo di intravedere, nella filigrana dei testi del giovane Marx che prenderemo in considerazione, una certa sovversione del sesso ed un’apertura teorica a due possibili logiche della differenza.

Estremi reali

Il primo testo con cui qui confrontarsi si trova nella Critica della filosofia hegeliana del diritto[2], in un passaggio nel quale il sistema di riferimenti del giovane Marx, per così dire, si rompe, si sposta, inaspettatamente, rispetto ad ogni reale o presunta continuità con quella che, seguendo Althusser, dovremmo definire la «problematica antropologica»[3]. E’ stato merito di Jean-François Lyotard[4] quello richiamare l’attenzione su questo aspetto, sostanzialmente trascurato fino a quel momento in letteratura. Per chiarirne il senso, dovremo prendere le mosse dal punto in cui Marx introduce, contro la concezione hegeliana del termine estremo nel sillogismo, il concetto di «estremi reali» (Wirkliche Extreme), ossia di estremi che non possono mediarsi tra loro in quanto non hanno nulla in comune, miteinander gemein.

Secondo Marx, negli «estremi reali» è la rispettiva essenza (Wesen) dei termini – cioè ciò che fa di ciascuno ciò che è, il movimento di determinazione di ciascuno di essi – ad essere «contrapposta». L’espressione scelta (entgegengesetzten Wesens) va dunque letta nello scarto rispetto alla tradizione da cui pure proviene, da Hegel (ove essa designa la contrapposizione tra essenziale ed inessenziale nella percezione[5]) a Feuerbach (ove essa indica la religione come rapporto dell’uomo con la «propria essenza», ma pensata come essenza «contrapposta»[6]). Essa non indica che l’essenza dell’uno è tale in quanto contrapposta a quella dell’altro, quanto piuttosto che l’essenza di ciascun estremo, ciò che fa essere ciascun estremo ciò che è, non si definisce a partire dalla stessa «posizione».  Non c’è posizione in comune, ma due posizioni che in tanto si potranno dire contrapposte in quanto non si riferiscano l’una all’altra, non si integrino, restino al di là di ogni possibile «contrapposizione», se con ciò intendiamo una separazione interna ad uno stesso campo, ad uno stesso essere in comune. Gli estremi sono tali, differiscono, in ciò che eccede la loro separazione, la superficie di iscrizione della loro stessa differenza. Si dà, dunque, un rapporto tra termini che non possono, tuttavia, essere in rapporto, in quanto “mancano” ciascuno del riferimento per relazionarsi all’altro.

Il testo discute, a questo punto, due obiezioni possibili. Si dice che gli estremi non hanno niente in comune, eppure – scrive Marx – les extrêmes se touchent: si “toccano”, come il polo nord ed il polo sud si attraggono, sono l’uno per l’altro, ciascuno è l’estremo dell’altro. Non solo: ogni estremo, si dovrebbe dire, è l’altro suo estremo (Jedes Extrem ist sein andres Extrem), così come «l’astratto spiritualismo è l’astratto materialismo», e viceversa. Per quanto – come è stato notato – possano «sembrare inadatti, forse, gli esempi»[7], sembra comunque possibile individuare in essi due “logiche” dell’opposizione e della “mediazione” presenti entrambe nella tradizione hegeliana. Per la prima, gli estremi si mediano in quanto l’uno è per l’altro, è cioè determinato dal suo riferimento all’altro che esso non è, a cui si contrappone. Per la seconda, gli estremi si mediano in quanto l’uno è l’altro, in quanto, secondo Marx, definito in forza di un’ astrazione – ipostatizzata – rispetto ad un altro (così, ad esempio: lo spirito è solo l’astrazione dalla materia).

Marx replica con due argomenti distinti. Laddove, di due “opposti”, l’uno sia in realtà l’altro, l’opposizione viene meno, si risolve da sé, svelandosi come nient’altro che un’astrazione, come un’illusoria ipostatizzazione (Verselbständigung). Diverso, invece, è il caso dell’opposizione in cui gli estremi non possano che determinarsi nel loro reciproco riferimento, di modo che non vi sarebbe mai polo nord senza polo sud. Ciascuno è l’altro dell’altro, e per questo l’uno implica l’altro. Il problema, però, come rileva Marx, è che in tal caso non saremmo affatto di fronte a due estremi reali. Polo nord e polo sud sono infatti due poli, la loro essenza è cioè identica (ihr Wesen ist identisch), identico è ciò che fa sì che ciascuno sia ciò che è, uno dei due poli. Estremi reali sarebbero definibili, piuttosto, il “polo” e il “non-polo”, i due poli e ciò che eccede la polarità dei poli. Estremi possono dirsi solo quei termini che si contrappongono per «essenza», per ciò che li rende tali.

La contraddizione tra gli «estremi reali» non è affatto, allora, contraddizione tra due enti entrambi “positivi”, uno di fronte all’altro, l’uno in relazione all’altro, ma tra due essenze: gli estremi «non sono affatto enti, di carattere empirico-fattuale, bensì essenze (Wesen), la cui natura è assoluta e universale», e proprio per questo essi consistono in sé, proprio per questo raggiungono «la massima contraddittorietà possibile, a causa dell’assoluta eterogeneità di principio, l’uno escludente l’altro, che si dà tra due universali»[8]. Tra gli estremi vi è, dunque, una radicale irreciprocità, un’estraneità di ciascun termine, più che rispetto all’altro, al loro stesso rapportarsi, ed è proprio questo rapporto-senza-rapporto, questa opposizione che eccede ogni opposizione, a consentire di pensare ciò che Marx chiama una «differenza d’essenza», e non d’esistenza[9].

Soltanto in questo “eccesso” c’è realmente lotta, c’è dualismo, come scrive Marx, c’è qualcosa che eccede ogni possibile neutralizzazione, mediazione, sintesi. Dobbiamo sempre ricordare come gli estremi reali non siano affatto estremi “esistenti”[10]. Nell’esistenza, abbiamo solo opposizioni tra enti, opposizione “naturalistica”, “positiva”. Sul piano empirico non “esistono” infatti, né la «polarità» né la «non-polarità» (che sono due essenze), ma soltanto il polo nord ed il polo sud, ossia determinazioni di una stessa essenza. “Estremità”, vera opposizione tra estremi reali, c’è soltanto tra due essenze (e per questo, si noti, si è qui al di là della logica kantiana dell’ «opposizione reale»[11]).

Differenza d’essenza: il sesso non umano

Bisogna saper leggere con attenzione la sovversione di una certa logica che Marx sta, qui, tentando di preparare. Ricominciamo, allora, col ripercorrere nuovamente l’argomentazione marxiana, ma questa volta facendo riferimento all’altro esempio, che Marx affianca a quello, già presente nella tradizione hegeliana, dell’opposizione-attrazione tra i poli. Per quanto, infatti, anche nel caso della differenza sessuale Marx, come si vedrà, recupererà un certo discorso proprio di Feuerbach (quello del “genere”, Gattung), in questo recupero realizzerà uno spostamento. I sessi, il maschile ed il femminile, differiscono, certamente, si «attraggono», si congiungono, l’uno è per l’altro. Ma questa ripartizione, divisione, differenza, che separa il maschile dal femminile, l’uomo dalla donna, non è affatto, per Marx, un’opposizione tra estremi, una differenza tra “estremi reali”. I due sessi non sono, infatti, che determinazioni di un unico genere (Gattung), di un’essenza, una sola essenza, quella umana (menschliches Wesen), e dunque rimandano ad un essere in comune, a quell’ «essenza generica» (Gattungswesen) che è l’umano. Maschile e femminile sono l’essenza umana in quanto essa si differenzia (das differenzierte Wesen). La loro differenza è dunque «d’esistenza» (Unterschied der Existenz). La differenza sessuale è invece, propriamente, differenza tra estremi reali, tra due essenze, che non sono affatto il maschile ed il femminile, ma il sesso «umano» e il sesso «non-umano», menschliches und unmenschliches Geschlecht. Si prepara qui, dunque, un movimento che rende impossibile il mediarsi della differenza sessuale – il funzionamento di una strategia della neutralizzazione, dell’identificazione, che risolva il non-identico dei sessi, un certo non-identificabile, una certa eterogeneità, irreciprocità che resta sempre propria della differenza sessuale, non risolvibile nell’opposizione maschile/femminile, e che eccede ogni «rappresentazione antropomorfica del sesso»[12].

Va sottolineato ancora, in questo senso, come maschile e femminile non siano affatto, per Marx, due essenze. Sono, diversamente, due differenziazioni interne alla stessa essenza, allo stesso “genere”, Gattung, allo stesso sesso – il sesso «umano». Uomo e donna, maschile e femminile sono il medesimo sesso, quanto all’essenza, alla Gattung, che qui indica la determinazione essenziale – ma dovremo tornare, più avanti, su questo concetto. Il dualismo reale del sesso, la differenza sessuale, non passa tra maschile e femminile, ma tra il sesso umano e ciò che Marx chiama unmenschliches Geschlecht, e che non può essere semplicemente confuso con l’animalità, indicando piuttosto l’altra essenza del sesso, irriducibile ed in lotta con quella antropomorfica, “umana”, e mai semplicemente “altra” rispetto al sesso umano (in eccesso, dunque, rispetto a tutte le serie di opposizioni – dentro/fuori, interno/esterno, spirito/materia, ragione/istinto etc. – mediante cui l’uomo determina la propria sessualità in contrapposizione all’animale). E’ tra questi due sessi che passa una differenza reale, un rapporto senza rapporto «in quanto i termini non appartengono allo stesso essere, né allo stesso ordine»[13], dove non c’è qualcosa in “comune” che possa mediare il loro dualismo.

Ora, ciò che occorre sottolineare è come questa differenza sessuale resti sempre, per definizione, non identificabile, e quindi impensabile. Ove il dualismo è delle essenze, infatti, l’una non è per l’altra, ed è questo che rende la loro differenza tale che non possa mai essere “posta”, pensata, identificata. Per farlo, infatti, occorrerebbe uno “spazio” comune entro il quale disporre i due termini facendo di ciascuno l’altro dell’altro. Così, tuttavia, non è: le due essenze sono sempre eccessivamente distanti, stanno tra loro in una contra-dizione che eccede ogni possibilità di essere detta (e che dunque non può mai costituirsi, presentarsi, esporsi come tale).

La differenza sessuale, propriamente intesa, non è dunque dicibile, pensabile, poiché indica l’al di là di ogni determinazione, di ogni opposizione, di ogni differenza «d’esistenza». Il sesso non umano, da questo punto di vista, non è l’altro del sesso umano, l’altro per esso; non è il fuori del dentro, ma il «fuori del fuori», il fuori di ogni differenza sessuale pensata a partire dall’uomo, dal pensiero stesso. C’è dunque un sesso, l’altro sesso, e si dovrebbe dire, come scrive Lyotard, che Marx rifiuti di «cicatrizzare la differenza dei sessi nell’opposizione maschile/femminile che verrebbe solo in seguito», ammettendo pertanto «che la questione del sesso non è identica a quella della polarizzazione fra i sessi, bensì relativa alla loro non-attrazione e alla loro separazione non-pensabile»[14]. Il testo marxiano apre in questo modo ad un pensiero della differenza sessuale che non ha più nulla a che vedere con la differenza di “genere”, con una legge del genere – legge dell’antropomorfizzazione del sesso, che re-inscrive, ripartisce, marchia la sessualità nelle distinzioni maschio/femmina, uomo/donna, marito/moglie, etc. La differenza sessuale passerebbe sempre per «quel che c’è di non umano nel sesso»[15], con quello che la legge del “genere” deve cancellare per potersi costituire come tale (e per poter costituire anche il proprio fuori: l’animale, la donna – da qui ricomincerà, in Marx, la critica alla politica, all’economia, allo sfruttamento dei sessi).

Tale “cancellazione” (che non è una neutralizzazione, né una “sintesi”) accade necessariamente, per Marx. Tra due essenze, infatti, l’una prevale sempre sull’altra – o, più correttamente: un’essenza non può venire ad esistenza se non cancellando l’altra, se non riportandola al suo interno facendone il proprio altro, ossia una semplice astrazione, un concetto – così va letto il passo marxiano: «per quanto ambo gli estremi si presentino nella loro esistenza come reali (in ihrer Existenz als wirklich)  e come estremi, è proprio soltanto dell’essenza di uno di essere estremo, e esso non ha per l’altro il significato della vera realtà (die Bedeutung der wahren Wirklichkeit). L’uno prevarica (greift – lo “afferra”, ne fa il suo Be-griff, lo pensa a partire da sé) sull’altro. La posizione non è uguale». Laddove, cioè, il sesso “umano” sia venuto ad esistenza, laddove tale essenza si sia differenziata determinandosi nelle sue opposizioni di genere (maschile/femminile), l’altro sesso, l’altra essenza, e dunque la differenza estrema, sarà già da sempre “cancellata” ed il “sesso non umano” resterà soltanto come un semplice concetto, un’astrazione, priva di una vera realtà[16], per indicare soltanto il fuori del dentro, ciò che il sesso umano non è.

Per questo non si dà mai un reale, effettivo «dualismo dell’essenza» (Es gibt keinen wirklichen Dualismus des Wesens). Una volta che sia una sola l’essenza venuta ad esistenza, non si presenteranno più che opposizioni interne al suo “genere” – la contra-dizione estrema, il dualismo reale, proprio della differenza tra due essenze, sarà sempre già-stato reso invisibile[17]. Ma proprio la necessità di tale cancellazione tradisce il fatto che essa è resa possibile e preceduta da un dualismo, da una scissione “estrema” tra due essenze, e che, pertanto, il movimento reale, il movimento, cioè, che costituisce la realtà, sempre rimanda a tale scissione, a tale rapporto senza rapporto. Sembra possibile, allora, individuare qui uno spostamento nella stessa «modalità riflessione»[18] propria della sinistra hegeliana  e della tradizione feuerbachiana, poiché il concetto degli “estremi reali” articola, in ultima istanza, una domanda che eccede la dialettica stessa (o, meglio, una certa dialettica[19]), domanda sul rapporto di ciò che non è in rapporto. Certo, la «vera opposizione» appare solo quella interna «al medesimo genere»[20]: solo all’interno dell’unità dell’essenza, cioè, è pensabile l’opposizione come tale. Ma ciò che la scrittura marxiana tenta di realizzare, è uno spostamento rispetto a quel «sistema di mediazione» che presuppone, per potersi pensare, proprio la cancellazione di ciò che non è mediabile, l’ “astrazione” rispetto all’opposizione “reale” tra gli estremi, tra le essenze.

Differenza d’esistenza: il Gattungswesen

Quanto visto sin qui, ci obbliga a seguire con maggior cautela e attenzione quanto avviene nei Manoscritti del 1844, ove il testo marxiano sembra finire per ri-antropomorfizzare la differenza sessuale, per re-inscriverla all’interno della sola essenza umana, della Gattung, del genere e della sua legge di separazione tra uomo e donna. I passaggi in cui, nei Manoscritti economico-filosofici, viene esplicitamente tematizzato tutto ciò hanno, rispetto alle pagine fin qui commentate, conosciuto in letteratura, una maggiore attenzione, se non altro perché essenziali sia per la comprensione della critica di Marx al “comunismo rozzo” che per la precisazione del concetto di Gattung.

Non sarebbe possibile, in tal sede, ritornare sul problema del rapporto tra Marx e Feuerbach in relazione al recupero – ed agli spostamenti concettuali implicati in esso – della teoria della Gattung, del genere[21]. Ricominciamo, perciò, unicamente da come la separazione tra uomo e donna torna nei Manoscritti, nella definizione dell’uomo (der Mensch), dell’essere umano come Gattungswesen, «ente generico»[22]. A lungo si è discusso – e si continua a discutere – sul senso di questo riferimento al “genere”, sulla sua matrice teorica, sul suo carattere “statico”[23] o “dinamico”[24]. Ai fini del nostro discorso, ciò che interessa è vedere come nell’essere «generico» si pensi la differenza sessuale. Si è già visto come per Marx quella tra sesso maschile e sesso femminile costituisca una differenza non d’essenza, ma d’esistenza: l’essenza (Wesen), il “genere” (Gattung) è lo stesso, non è per esso che passa la differenza sessuale, intesa come opposizione di “estremi”. Maschile e femminile sono determinazioni di un’unica essenza, e determinazioni storicamente determinate dal grado di “sviluppo”, Entwicklung, dell’essenza stessa.

Da questo punto di vista, l’essenza, il “genere” non è mai “naturalisticamente” dato, ma è un inizio che esisterà soltanto come risultato: «la produzione, la sua attività vitale cosciente, costituisce l’uomo come essere capace di un genere, ma, d’altra parte, è solo la sua capacità di avere un genere che fa dell’uomo un produttore»[25]. L’uomo produce la propria essenza, il proprio “genere”, proprio perché è l’essere capace di generare il genere, di porre la propria origine, di fare della propria natura la propria opera. E’ in questo sviluppo storico che si produce anche la differenza d’esistenza dei sessi, la separazione tra maschile e femminile. Questa separazione, pertanto, si costituisce storicamente, e secondo i differenti gradi di sviluppo del “genere” – anzi, per Marx è da questa separazione che si misura il «grado» di sviluppo e di formazione (Bildungsstufe) raggiunto dall’uomo. Il genere si differenzia dunque, anzitutto, come rapporto tra uomo e donna, differenza sessuale intesa come quel “rapporto di genere” «immediato e naturale», unmittelbare, natürliche Gattungsverhältnis. In questo rapporto – aggiunge Marx – appare (erscheint), si mostra, viene reso visibile, sino a quale punto per l’uomo l’essenza umana sia divenuta natura (das menschliche Wesen zur Natur) oppure (oder) sino a qual punto la natura sia divenuta l’essenza umana dell’uomo (die Natur zum menschlichen Wesen des Menschen).

Dovremo tentare una rilettura di questo passo, nel quale la disgiunzione indica che siano due differenti modi di rapportarsi alla “natura” a venire in questione[26]. Da una parte, infatti, il passo va letto seguendo quel movimento di “emancipazione” in cui «vige l’equazione naturalismo = umanesimo, naturalizzazione dell’uomo = umanizzazione della natura»[27]: il rapporto uomo/donna sarà divenuto naturale in quanto l’uomo, inteso come Gattungswesen – come colui che per essenza ha il genere – sia storicamente divenuto e si sia compreso come uomo, als Mensch. Dall’altra parte, il passo denuncia il movimento opposto: l’estraneazione dell’uomo a se stesso passa, infatti,  nel fare della natura, dell’essere naturale dell’uomo (di ciò che Marx chiama la sua «esistenza fisica»), la sua essenza. Nel rapporto uomo/donna si vede immediatamente – perché si vede al livello sensibile, come se fosse un “fatto” – se l’uomo è giunto al punto di realizzare la propria essenza umana come natura, o, al contrario, se ha assunto la natura (l’esistenza fisica: il dato biologico, “anatomico”) come determinazione della propria essenza umana.

Un conto è perciò realizzare, storicamente, la differenza sessuale come “natura” (il che significa: umanizzare il dato naturale, far passare la differenza sessuale da differenza biologica-anatomica a differenza “umana”); un altro è assumere, sempre storicamente, la differenza sessuale come se essa fosse “naturale”[28], qualcosa di già dato. La prospettiva di emancipazione che Marx traccia, allora, consisterebbe in questo movimento – che è lo stesso movimento del genere, dell’essenza umana: produrre la differenza sessuale come differenza naturale (e non: fare del dato naturale la determinazione della differenza sessuale), realizzare l’essenza umana fino al punto in cui essa si renda natura.

Resta, però, da capire come questo movimento si compia, come l’ “emancipazione” del Gattungswesen si rifletta sui rapporti tra uomo e donna – un punto, questo, sul quale i testi marxiani non torneranno mai. Se ci limitiamo ai Manoscritti, la differenza sessuale appare certamente ripensata attraverso quella modalità di riflessione la quale si definisce sempre in una «struttura a chiasma» che fa valere Feuerbach contro Hegel e, viceversa, il secondo contro il primo[29], ma che rischia, di per sé, di re-inscrivere il concetto di “differenza sessuale” all’interno delle separazioni di genere, della Gattung. Eppure, una “rottura” essenziale deve ritenersi, anche in questo caso, raggiunta: non si è mai, propriamente, uomo o donna per natura, non c’è mai una “naturalizzazione” del sesso, in Marx, ma sempre una sessuazione che va storicamente realizzata, che implica una pratica della differenza sessuale.

Una pratica, nei termini del giovane Marx, del divenire-umano dell’uomo: è infatti nel rapporto dell’uomo con la donna, nella differenza sessuale, che si realizza sensibilmente il «rapporto dell’uomo con l’uomo», il farsi-umano dell’uomo, la «reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo». Ma ciò non può significare il “divenire-uomo” della donna, del riconoscimento degli stessi diritti dell’uomo – il che vorrebbe dire: trattare la donna come un uomo, e quindi di identificarla sempre a partire dall’uomo. Piuttosto, questa pratica, per quanto declinata nei termini di un lessico “umanistico” (e per quanto resti sempre forte la tentazione di una «metafisica biologico-collettivista del “genere”»[30]), significa: risolvere «l’antagonismo tra individuo e genere», Gattung. Secondo questo punto di vista, il singolo – non come individuo egoista, estraniato da se stesso – giunge alla propria singolarità solo in quanto realizza la propria essenza, solo cioè in quanto giunge a porre se stesso e a comprendersi come «singolarità universale» (che singolarizza l’universale, universalizzando la propria singolarità – nei termini del giovane Marx: «l’individuo è l’essere sociale», das Individuum ist das gesellschaftliche Wesen)[31]. Perché non dovrebbe andarne anche sempre della Gattung come “genere”, differenza sessuale? Che l’individuo divenga il proprio genere (la propria essenza, che è la stessa per l’uomo e per la donna), non implica realizzare la differenza sessuale in sé, nell’individuo stesso (e non risolverla, identificarla: il genere è uno solo in quanto differenziato)?

Divenire il proprio genere, realizzare la propria singolarità come essenza universale dell’uomo, non significa allora sopprimere la differenza sessuale, ma attuarla nella propria individualità. Realizzare la propria essenza significa realizzare la propria Gattung, realizzarsi come individuo che, nella propria singolarità, attua ed esprime l’universalità del genere. Esprimere in sé la Gattung, la differenza sessuale: tale sarebbe l’emancipazione dell’uomo come fine di ogni antagonismo con il genere. Che l’uomo sia anche una donna, divenga-donna, e viceversa, questa è l’«emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani» (die vollständige Emanzipation aller menschlichen Sinne und Eigenschaften). Se Marx non giunge espressamente a tale conclusione, è perché essa è, propriamente, “impensabile”. Lo ha detto bene Cixous: questo solo è il difficile da pensare. Non certo che una donna possa essere un uomo (qui non cambierebbe nulla, ed anzi saremmo sempre all’interno di un certo dominio: cancellare la differenza, rendere la donna identica all’uomo, fare come se fosse un uomo). Il difficile è pensare una donna che è anche un uomo, un uomo che è anche una donna. Qui cambierebbe tutto, ed è per questo che «queste complessità non sono ancora udibili», che «non siamo abbastanza forti» per questo, che abbiamo un lessico, una lingua, insufficienti per poterlo dire[32]. Questo è il pensiero più difficile, per noi, da pensare, da rileggere nel testo marxiano, in ciò che certamente non è detto ma che pure è scrivibile attraverso di esso.

Le differenze sessuali.

Si deve giungere, ora, ad una primo, sia pure provvisorio, tentativo di ripercorrere come la differenza sessuale (e non, lo si ripete, la politica della differenza sessuale, ma la differenza come questione teoretica) sia articolata all’interno dei testi giovanili di Marx. Scopriamo allora che vi è più d’una differenza sessuale, perché essa si declina sia come «differenza d’essenza» che come «differenza d’esistenza». C’è, anzitutto, una differenza sessuale senza i sessi, differenza del «sesso umano», del genere (Gattung) con un’essenza altra, estrema, la quale ha almeno una funzione fondamentale: quella di impedire, come già ricordato, di antropomorfizzare il sesso, la sessualità, di inscriverla e di identificarla con la differenza tra i sessi. C’è sesso, c’è del sesso, anche ove non vi sia ancora distinzione tra uomo e donna, maschile e femminile. Questa è la contra-dizione “estrema”, per il giovane Marx: la scissione che rende impossibile ogni unità, che impedisce ogni mediazione, che trascina il pensiero, il logos, sempre verso un “fuori” che esso non può neppure dire, in un rapporto senza rapporto che non si può mai dialetticamente “risolvere”.

Vi è poi una seconda differenza sessuale: quella «d’esistenza», interna al genere, alla Gattung, che separa il maschile dal femminile. In questo caso, non c’è lotta, ma un antagonismo tra individuo e genere, il cui svolgimento sembra, nel giovane Marx, poter aprire, più che ad una “conciliazione” dialettica, ad un pensiero della disgiunzione inclusiva (“sia…sia”), in quanto l’individuo attua la propria essenza, e quindi si realizza come individuo “umano”, realizzandosi come il proprio genere, che è uno, quello del «sesso umano» – l’uomo, dunque, facendo della femminilità la propria differenza, la differenza che egli è, e viceversa.  Certamente, il testo dei Manoscritti – nella sua prospettiva di “emancipazione” dell’uomo – si definisce essenzialmente in quest’ultima prospettiva, lungo la seconda accezione della differenza sessuale. Eppure, l’essenza umana, quell’essenza che è “genere” (Gattung), il «sesso umano», resta sempre esposta ad un “estremo” che tiene costantemente in tensione, in contra-dizione il suo stesso realizzarsi, il suo compiersi: c’è un «sesso non umano», un sesso senza i sessi, una differenza sessuale che il “genere”, per quanto si realizzi, non risolve, non include, non può mai identificare. Vi è, inoltre, un secondo aspetto da considerare. Proprio il pensiero della differenza sessuale sembra implicare, all’interno dello stesso testo marxiano, uno “spostamento”  rispetto a quel sistema di riferimenti, quella struttura a chiasma (Feuerbach contro Hegel / Hegel contro Feuerbach) che determina le domande dei testi del 1843-1844. La differenza sessuale non sembra, infatti, rispondere ad una logica della «contraddizione», ereditata dal neo-hegelismo, quanto a due diverse strategie (la contra-dizione e la disgiunzione inclusiva). Un altro movimento teoretico, dunque, prima ancora che una pratica politica. Accade, allora, come se essa fosse, per definizione, quel pensiero che sempre sia in eccesso rispetto al discorso che pure la dice, che impedisce ad esso di chiudersi. Come se, in definitiva, indicasse una differenza sempre al di là di ogni differenza che il testo filosofico possa tematizzare – la differenza del testo rispetto a se stesso, e che continua a renderlo sempre scrivibile.

[1]  Si vedano, sul punto, in particolare le letture “femministe” del marxismo, su cui, per un’introduzione e i riferimenti bibliografici, si rimanda a V. Held, Marx, Sex, and the Transformation of Society, in C.Gould – M. Wartofsky (a cura di), Women and Philosophy. Toward a Theory of Liberation, New York, G.P. Putman’s Sons, 1979, pp. 168-184; P. J. Kain, Modern Feminism and Marx, in «Studies in Soviet Thought»,  44, 3, 1992, pp. 159-192; C. Arruzza, Genere e capitale: la critica marxiana dell’economia politica e il femminismo, in «Iride», 1, 2015,  pp. 79-92. Eviteremo di occuparci, qui, della riflessione, più articolata sul tema, di Engels. Altra questione ancora, che esula dal presente intervento, è quella che riguarda la biografia marxiana, sulla quale si veda, tra gli altri, P. Durand, La vie amoureuse de Karl Marx, Paris, Julliard, 1970; trad. it. di A. Tomiolo, Marx, l’amore e il matrimonio. La vita amorosa di Karl Marx, Verona, Bertani, 1971.

[2] Ci riferiremo, nelle pagine che seguono, ai passi di K. Marx, Zur Kritik der Hegeischen Rechtsphilosophie, in K. Marx – F. Engels, Werke (MEW), I, Berlin, Dietz, 1956, pp. 292-294; trad. it. di G. Della Volpe, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx – F. Engels, Opere, III, 1843-1844, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 99-101.

[3] L. Althusser, “Sul giovane Marx” (Questioni di teoria), in Id., Per Marx, trad. it. a cura di M. Turchetto, Milano, Mimesis, 2008, p. 65.

[4] J.-F. Lyotard, Discours, figure, Paris, Klinsieck, 2002; trad.it. a cura di F. Mazzini, Discorso, figura, Milano, Mimesis, 2008, pp. 178-182.

[5] G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, a cura d H.-F. Wessels e H. Clairmont, Hamburg, Meiner, 1988, p. 90: «Diese Momente sucht die Sophisterei des Wahrnehmens von ihrem Widerspruche zu retten, und durch die Unterscheidung der Rücksichten, durch das Auch und Insofern festzuhalten, so wie endlich durch die Unterscheidung des Unwesentlichen, und eines ihm entgegengesetzten Wesens, das Wahre zu ergreifen».

[6] L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums, Vollständige Ausgabe, Berlin, 2016, p. 205: «Die Religion ist das Verhalten des Menschen zu seinem eignen Wesen – darin liegt ihre Wahrheit und sittliche Heilkraft –, aber zu seinem Wesen nicht als dem seinigen, sondern als einem andern,  vom ihm unterschiednen, ja engegengesetzten Wesen […]».

[7] M. Rossi, Da Hegel a Marx, III – La scuola hegeliana e il giovane Marx, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 379.

[8] R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx,  Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 253-254.

[9] Secondo Berti, nel riferimento di Marx agli “estremi reali” «siamo in presenza di quella che Hegel, ma già Aristotele, chiamava “differenza indeterminata”, o semplice “diversità”, tra cui non c’è vera opposizione» (E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo, L’Epos, 1987, p. 225). Si tratterebbe, qui, della differenza del tutto indeterminata, o “diversità”, in cui i due differenti sussistono come privi di rapporto l’uno con l’altro, reciprocamente indifferenti. A nostro avviso, però, Marx tenta proprio di pensare il rapporto degli estremi proprio in quanto indifferenti. Di pensare, cioè, che il loro rapporto è il loro non essere in rapporto, l’eccesso di differenza che impedisce di dire la loro differenza. Ma ciò più avanti, nel testo.

[10] Come ricordava già Cesare Luporini, in Marx «di “realtà” (Wirklichkeit) si parla dovunque, e l’aggettivo “reale” (wirklich) è sempre presente. Non si tratta tuttavia di un soggetto reso esplicito tematicamente. Siamo noi a doverlo tematizzare» (C. Luporini, Realtà e storicità: economia  e dialettica nel marxismo, in Id., Dialettica e materialismo, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 153). Per questa ragione, diremo che l’espressione wirkliche extreme, che può certamente essere resa con estremi reali (analogamente: extrêmes réels, nella traduzione francese, e real extremes, in quella inglese) va sempre considerata tenendo conto di come wirklich, almeno in questo caso, indichi qualcosa di diverso dalla Realität come realtà “empirica”, come ciò che è dato, riscontrabile, accertabile come un “fatto”, ma risponda, propriamente, all’essere attivo, wirken, a ciò che è effettivo, che si effettua.

[11] Si deve a Lucio Colletti il tentativo di leggere gli “estremi reali” in corrispondenza con il concetto kantiano di Realrepugnanz (cfr., in particolare, L. Colletti, Intervista politico-filosofica, Bari, Laterza, 1974, pp. 63-113. Sulla stessa linea di Colletti, cfr. G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 13-14). Per le critiche a tale concezione, cfr. E. Severino, Discussione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi, in «Giornale critico della filosofia italiana», LVII, 1978, pp. 69-120; A. Ponzio, Filosofia del linguaggio, logica formale e dialettica marxista, Introduzione a A. Schaff, Teoria della conoscenza logica e semantica. Saggi filosofici/1, trad. it. di M. Sinatra, Bari, Dedalo, 1977, pp. 16-19; M. Mugnai, Il mondo rovesciato. Contraddizione e «valore» in Marx, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 90; R. Finelli, Marx e l’intelletto hegeliano. Note sulle interpretazioni di L. Colletti e E. Severino, in «La ragione possibile», I, 1990, pp. 26-42.

[12] G. Deleuze – F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di A. Fontana, Torino, Einaudi, 2002, p. 335: «In alcune frasi Marx, tuttavia così avaro e così reticente quando si tratta di sessualità, ha fatto saltare ciò di cui Freud e tutta la psicanalisi resteranno al contrario sempre prigionieri: la rappresentazione antropomorfica del sesso!».

[13] J.-F. Lyotard, Discorso, figura, cit., p. 178. Cfr., sul punto, G. Cacciavillani, J.-F. Lyotard e le macchine desideranti, in «Aut Aut», 175-176, 1980, pp. 123-145.

[14] J.-F. Lyotard, Discorso, figura, trad. it. cit., p. 181.

[15] G. Deleuze – F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 407. Cfr., sul punto, anche A. Verdiglione, Subversion de la raison, in «Communications» 26, 1977, p. 157.

[16] Cfr. A. Grandjean, Le dialectique sans la médiation: le jeune Marx et l’abîme qui sépare le social du politique, in «Les Études philosophiques», 87, 4, 2008, p. 550: «S’inscrire à l’intérieur de l’opposition, c’est-à-dire au milieu du réel, c’est la subjectiver, adopter le point de vue de l’un des extrêmes. Dans ce cadre, «il n’y a pas de dualisme réel de l’essence», où «réel» signifie vrai: l’une des essences opposées apparaît pour l’autre comme une essence non vraie, n’est plus qu’une non-vérité existante […] L’opposition n’ouvrant sur aucune médiation, la scission n’ayant pas la réconciliation pour horizon, la suppression du conflit ne peut donc se trouver que dans l’élision de l’un de ses termes».

[17] Cfr., sul punto, A. Wildermuth, Marx und die Verwirklichung der Philosophie, Dordrecht, Springer, 1970, p. 205.

[18] L. Althusser, “Sul giovane Marx”, cit., p. 65.

[19] Vale la pena ricordare sempre, con Althusser, ed al fine di evitare l’errore di pensare che il confronto del giovane Marx avvenga con l’Hegel «da biblioteca che noi possiamo meditare nella solitudine del 1960» (o del 2016), che l’Hegel con cui Marx dibatte è sempre e soltanto «lo Hegel del movimento neohegeliano, uno Hegel già messo in grado di fornire agli intellettuali tedeschi degli anni ’40 di che pensare la propria storia e le proprie esperienze; è uno Hegel già messo in contraddizione con se stesso, invocato contro se stesso, a dispetto di se stesso» (L. Althusser, “Sul giovane Marx”, cit., p. 62).

[20] M. Mugnai, Il mondo rovesciato, cit., p. 92.

[21] Si rimanda, per un’introduzione, a Trân-vàn-Toàn, Note sur le concept de « Gattungswesen » dans la pensée de Karl Marx, in «Revue Philosophique de Louvain», 69, 4, 1971, pp. 525-536; G. Márkus, La teoria della conoscenza nel giovane Marx. Saggio sui manoscritti del 1844, trad. it. di L. Jucker, Milano, Lampugnani Nigri, 1971; T. E. Wartenberg, “Species-Being” and “Human Nature” in Marx, in «Human Studies», 5, 2, 1982, pp. 77-95; J.M. Held, Marx via Feuerbach: Species-Being revisited, in «Idealistic Studies», 39, 2009, pp. 137-148; B. Grashoff, Historisiertes Gattungswesen in entfremdeter Form beim jungen Marx (1843-1845). Zur Zurückweisung Überhistorischer Wesensbegrifflichkeiten in Marx’ Werk, Hamburg, Disserta, 2014. Si veda, inoltre, per un inquadramento fondamentale, il saggio M. Musto, I “Manoscritti economico-filosofici del 1844” di Karl Marx. Vicissitudini della pubblicazione e interpretazioni critiche, in «Studi Storici» 49, 3, pp. 763-792.

[22] K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in K. Marx – F. Engels, Werke (MEW), XL, Berlin, Dietz, 1968, p. 515. Per la traduzione italiana, si vedano sia quella di G. Della Volpe, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx – F. Engels, Opere, III, 1843-1844, cit., p. 301, il quale traduce con «ente generico»,  che quella di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 19682, p. 76, che rende l’espressione con «essere appartenente ad una specie».

[23] Tale è l’interpretazione di C. Preve, L’eguale libertà. Saggio sulla natura umana, Milano, Vangelista, 1994, p. 56: «Questa concezione dà luogo non ad una teoria della natura umana, ma ad una teoria dell’essenza umana (nel senso aristotelico, statico, non hegeliano, dinamico). Essa è una teoria statica perché ipotizza di fatto che l’essenza comunitaria da recuperare ci sia stata, e si tratti perciò di ritornarci». Da questo punto di vista, Preve propone di rendere Gattungswesen con ente generico, evidenziando però come Wesen non indichi un “ente”, ma «l’essenza di un essere, la sua natura propria». Dello stesso autore, si veda però anche il successivo Marx inattuale, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 160. Per una introduzione più generale al problema della “natura umana” in Marx, si rimanda, inoltre, agli studi, con relativa bibliografia, di S. Sayers, Marxism and Human Nature, London, Verso, 1983; P.W. Archibald, Marx and the Missing Link: “Human Nature”, London, MacMillan, 1989, nonché ai più risalenti D. Venturelli, L’antropologia filosofica di Marx, Firenze, Le Monnier, 1976; I. Fetscher, La natura umana nel pensiero di Marx, in «Comunità», 176, 1976, pp. 142-164.

[24] Cfr. G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata, Quodlibet, 1994, p. 124: «[…] principio originale attivo, è, per Marx, la praxis, l’attività produttiva umana. Che la praxis costituisca, in questo senso, il genere dell’uomo, ciò significa che la produzione che in essa si attua è, anche “autoproduzione dell’uomo”». Agamben propone, perciò, la traduzione di Gattungswesen con «essere capace di genere», per indicare come il genere non sia da intendersi come “specie naturale”, come una connotazione naturalistica, bensì come «principio originale», génesis, genere come praxis, attività libera e cosciente che in ogni individuo «fonda l’uomo come essere umano».

[25] G. Agamben, L’uomo senza contenuto, cit., p. 119.

[26] Per una lettura anche dei passi qui in questione in relazione alla differenza sessuale, cfr. J.A. Winders, The Persistence of the Gendered Subject in Marx’s Economic and Philosophic Manuscripts of 1844, in Id., Gender, Theory, and the Canon, University of Wisconsin Press, 1991, pp. 48-71; P. Zarifian, Marx, la qualification et le rapport social de sexe, in «Cahiers du Genre», 1, 32, 2002.

[27] C. Preve, L’eguale libertà. Saggio sulla natura umana, cit., p. 55.

[28] Cf. anche I. Mészáros, La teoria dell’alienazione in Marx, trad. it. di M. Cingoli e E. Cingoli, Roma, Editoria Riuniti, 1976, pp. 206-208

[29] Così, correttamente, R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, cit., p. 160.

[30] R. Finelli, Un parricidio mancato, cit., p. 76.

[31] Per un’introduzione allo studio di tale problematica nei Manoscritti, si rinvia, qui, a G. Bedeschi, Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx, Bari, Laterza, 1968; N. Khan, Development of the concept and theory of alienation in Marx’s writings. March 1843 to August 1844, Oslo, Solum Forlag, 1995.

[32] H. Cixous, Tre passi sulla scala della scrittura, trad. it. a cura di S. Carotenuto, Roma, Bulzoni, 2002, p. 78.

Ferragosto

0

 

I.
Minnie (corrispondenza da Genova)

Al porto antico, verso le otto della sera, un piccolo capannello di bambini e di mammapapà si è formato poco dietro il bigo, dove turisti non fanno che andarsene su e giù giù e su: c’è una Minnie, con il suo vestitino bianco a pois rossi, che fa da attrazione. Muta, regala palloncini ai più piccoli, che lo accettano incerti, per un istante infinito, se quella sia davvero Minnie oppure no. Ma l’imitazione ― se c’è ― è perfetta, iperrealtà di marca Disneyland in cui la finzione (la realtà di una Minnie esistente, in carne e costume) riproduce un’altra finzione (la Minnie “reale”, che non esiste). Con la conseguenza che è più reale la Minnie che chiede soldi al porto antico che non la “vera” Minnie ― personaggio di fantasia, impossibile. Già Augé lo aveva detto benissimo: quintessenza del turismo, dove ciò che si viene a visitare in realtà non esiste (ma non vale anche per questo ascensore panoramico, per questa Genova d’angiporto che non può essere descritta se non attenendosi ad un lessico prefabbricato?). Per questo i genitori ridono come bambini (ma non: come “i” bambini), si divertono intorno a questa Minnie dalla faccia fatta di plastica, immagine che non riflette la realtà, ma nasconde la sua assenza (Fernet).

Anche noi ― un piccolo gruppetto di tre trentenni ― sorridiamo fermandoci a guardare la fidanzata di Topolino, con le sue orecchie enormi, ed i bambini che, spinti dai genitori, le si avvicinano, si fanno abbracciare, corrono intorno a lei, con i loro soldini tra le mani. Minnie saluta, con i suoi guantini neri, ringrazia, sempre muta, chinando il capo enorme, alla luce dorata del tramonto. Adulti applaudono ancora. Ci spostiamo poco più avanti, a osservare la scena dai tavolini di un caffè. Minnie si muove seguendo il ritmo di una musichetta Disney che esce dal piccolo stereo, obsoleto, che ha portato con sé, mickeymouseggiando un po’, diventando la propria immagine animata. Fa sedere i bambini in cerchio, li incanta con qualche bolla di sapone e agitando un po’ le sue manine; si inchina, saluta, fabbrica la loro infanzia, saluta ancora. Soldini ― per comprare l’infanzia ai genitori ―, nuovo inchino. Lo spettacolino termina, poco dopo. La folla si disperde, è il momento dei gelati e della nanna. Minnie raccoglie le sue cose, conta gli spiccioli, si guarda intorno. Finalmente, ora che non c’è più nessuno in giro, può togliersi la maschera di plastica: incrocio gli occhi splendenti di una ragazzina Rom. Sorride: ha i denti marci. Sorride ancora, e se ne va.

Morale della favola: gli zingari non rapiscono i vostri bambini per mandarli a chiedere l’elemosina. Hanno forse capito che è più pratico ― e meno rischioso ― farsi fare l’elemosina direttamente da loro. Fantasmi del sogno disneyano: dietro ogni Minnie, ogni Topolino, c’è uno zingaro, a ricordarvi che la vostra infanzia è sempre falsa. Ho sorriso anche io, alla ragazzina Rom.

 

II.
La fine dei nomi.

Ho passato Ferragosto senza nomi. Senza, cioè, più vedere i nomi, le cose, ma solo il libero gioco dei verbi, delle azioni. Si comincia chiedendosi: e se i nomi fossero, in realtà, verbi, se esprimessero cioè azioni, e non “cose”, “sostanze”, soggetti? Qui serve una breve spiegazione: quando affermo che “S è P” (es: quel cavallo è veloce), ciò che sto facendo è predicare una qualità, un attributo (veloce) ad un soggetto (il cavallo). Questo rapporto di predicazione sembra allora separare le “sostanze”, le “cose” (il cavallo, Socrate, una rosa) ― che esistono di per se stesse ― dai vari predicati che accidentalmente possono o meno avere (la rosa può essere bianca, o rossa, o gialla, ma non è il colore a farne ciò che è, ossia una rosa). Ci sono diverse “strategie” concettuali per criticare questa tesi. Ma non è questo il punto. Esercitiamoci piuttosto sulla domanda: e se anche i “soggetti” fossero predicati, e viceversa? Differenti filosofie lo suggeriscono (potremmo chiamarle, anche se impropriamente, filosofie del divenire, anticartesiane, antisostanzialiste). Sbaglieremmo, però, a considerare questa tesi come “intellettualistica” ― essa implica infatti una pratica, un impegno quotidiano concreto, un esercizio che chiunque può cominciare a svolgere. Proviamoci. Riprendiamo la nostra frase: “quel cavallo è veloce”. Siamo abituati, troppo abituati a pensare, a vedere direi, un cavallo ― considerandolo un ente, una sostanza, qualcosa che è ― e a cercare un “aggettivo” che esprima una sua “qualità”, l’essere veloce. È così che “vediamo” il mondo ― separando continuamente i soggetti dai loro predicati. Ma se cambiassimo improvvisamente questo schema? Perché devo dire che “il cavallo è veloce”, e non che la “velocità è cavallina”? Sarebbe una follia? In fondo, soggetto e predicato sono solo “posizioni” all’interno della frase. Perché non dovrei poterli invertire? Perché non far divenire i soggetti dei predicati? Ma il nostro è un esercizio, e non una discussione teorica. Chiediamoci pertanto: come mi apparirebbe allora il mondo? Come lo vedrei? Immaginatevi di non percepire più un cavallo, e di pensare che è veloce, ma di provare a percepire la velocità che diviene un cavallo, si incarna, si rende visibile facendosi cavallo. Ciò non significa semplicemente affermare che ora la velocità è il “soggetto” ― essa resta verbo, predicato, e solo per convenzione la mettiamo in posizione di soggetto. Ad essere precisi dovremmo cioè vedere il divenire-velocità del cavallo e allo stesso tempo il divenire-cavallo della velocità (tenetelo presente, perché non potrò precisarlo per ogni esempio, per ragioni di spazio e leggibilità). Oppure pensate ai girasoli di Van Gogh. Sarebbe del tutto ridicolo affermare che i suoi girasoli sono gialli (chiunque di voi potrebbe ridipingerli uguali, se fosse così). Ciò che vedete, infatti, è il giallo che diviene-girasole, è il colore che si rende visibile non nel suo essere un “attributo”, una “qualità”, ma nel suo essere verbo, azione, azione di rendersi un girasole. Molta pittura, molto cinema, molta letteratura non si capirebbero, senza questa “inversione”. Forse però tutto questo sembra ancora troppo astratto. Ma solo perché non siamo disposti, quotidianamente, a sperimentare questo strano movimento concettuale: accade come se tutto ciò che solitamente pensiamo come sensazione, azione, idea, prendesse corpo, divenisse concreto, togliendo sostanza e materia alle “cose”, ai nostri “nomi”. Peirce consigliava di riservare mezz’ora al giorno al “musement”, al libero gioco dei pensieri, dove unica regola fosse quella di non avere regole. E se provassimo, magari per mezz’ora al giorno, a guardare il mondo così, osservando ciò che ci circonda, provando a descriverlo e poi a rovesciare o invertire quella descrizione, cercando di trasformare in verbi tutte le parti della proposizione? Ma per quale ragione lo consiglio? In fondo, perché è sempre bene non dare troppo peso alle “cose” ― datelo ai verbi, e a questo mondo stralunato e leggerissimo.

 

Sull’atto terroristico

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Condizioni di possibilità.

Prima ancora di chiedersi che cosa sia il terrorismo – come se esso fosse già dato, già presente (laddove è proprio questa presenza del presente, forse, che il terrorismo mette in questione, con la sua temporalità rapida e lenta, con la sua attualità) –, bisognerà passare per un’altra domanda: a quali condizioni (teoriche) è possibile un «atto terroristico» e, attraverso di esso, un discorso terroristico, una minaccia terrorista?

Ciò non andrà, certamente, senza la costitutività, la performatività del linguaggio: ci sarà stato “terrorismo” soltanto in forza di un discorso che abbia definito “terroristi” gli autori di una serie di atti. Ma ciò non risponde alla questione, che infatti chiede propriamente cosa renda possibile quel tipo particolare di “atto” – quello piuttosto che un altro: perché definirlo terroristico, e non altrimenti?

Bisognerà, allora, cominciare a pensare come si costituisca il nodo che tiene insieme le diverse condizioni, i “dispositivi”, le regole di formazione, concatenazione di quel particolare discorso. Quali sono le condizioni del discorso terroristico (che è sempre il discorso sul terrorismo ed il discorso che il terrorismo fa di se stesso)?

Sono note le difficoltà cui vanno incontro le definizioni legali di “atto terroristico”, le quali finiscono per rendere impossibile proprio la distinzione tra l’atto che vorrebbero definire e tutti quegli atti, quelle misure che delineano per poterlo contrastare. Ma questa difficoltà, forse, è propria dell’atto terroristico in se stesso.

L’atto come impossibile.

In linea generale, diremo che ciò che rende un atto (una strage, un omicidio, etc.) terroristico, e non semplicemente un “delitto”, un “crimine”, è – prima ancora che il discorso politico o ideologico che lo attraversa (la cui funzione dovremo analizzare) – la sua impossibilità.

Ciò che terrorizza, che rende l’atto «terroristico», è infatti il fatto che esso, più che essere accaduto (ma: proprio perché accaduto), può sempre ancora accadere, in qualsiasi circostanza, tempo, luogo. Ciò che “terrorizza” nel fatto che una bomba esplode in un ristorante di Parigi è che – da quel momento in poi – un’altra bomba potrebbe esplodere in qualsiasi locale di Milano, Monaco, o della cittadina stessa in cui viviamo.

Abbiamo parlato di “impossibilità”, allora, perché questa temporalità futura dell’atto terroristico è resa possibile dal fatto che esso avviene, accade come impossibile, come ciò che non era in alcun modo prevedibile, atteso, che irrompe al di là di ogni orizzonte possibile di anticipazione. Era impossibile che succedesse (e proprio per questo è successo)!

Le riflessioni sul terrorismo di autori come Derrida e Baudrillard hanno molto insistito su questo punto. Ciò che, tuttavia, occorre ora pensare è che questo atto impossibile, per essere tale – ossia terroristico – , è sempre costretto a cancellarsi, a negarsi. Questo atto, infatti, è tale soltanto in quanto terroristico, ossia in quanto attraversato da una serie discorsiva che lo legittima, lo definisce, lo giustifica in quanto «atto terroristico».

Se a far esplodere una bomba nel ristorante, o a sparare casualmente su una folla, fosse un «malato di mente», uno dei pur tanti «erostrati», «fanatici isolati», questo atto non provocherebbe alcun terrore. Esso sarebbe sì avvenuto come impossibile, ma non aprirebbe alcuna minaccia, alcuna temporalità altra. Dopo Breivik, nessuno ha avuto paura che stragi analoghe potessero, da quel momento, accadere ovunque e senza ragione. Solo in quanto siano stati dei terroristi – solo in quanto un discorso li renda tali – ci potrà essere atto terroristico.

La difficoltà appare ora più chiara: per essere tale, l’atto terroristico deve accadere come impossibile, e dunque, almeno idealmente, senza-ragione, senza che fosse possibile, ma esso, al contempo, non potrà essere stato un atto terroristico se non dando ragione del suo accadere, e quindi rendendolo possibile. Così l’atto – che pure, per esser tale, doveva essere impossibile – è sempre stato possibile.

L’atto puro.

Bisogna pensare più a fondo questa contraddizione. Da un certo punto di vista, il terrorista “puro” – ci si passi l’espressione – è colui che sogna di realizzare un atto in senso stretto impossibile: di realizzare, cioè, un atto e niente altro che un atto, senza passare per la mediazione di un discorso, di una parola (che, come tale, lo renderebbe anticipabile, prevedibile, in quanto il linguaggio funziona sempre come orizzonte di senso – per questo aggiungiamo: se il terrorismo può essere nichilista, non lo è che secondariamente. Il nichilismo, in quanto introduce il senso della mancanza di senso, è già un discorso, è già inscrizione del reale nella realtà, come vedremo).

Sogna, cioè, un atto che sia direttamente reale (nota. Dobbiamo recuperare, qui, la distinzione lacaniana tra reale e realtà. Il reale non è la realtà, ma è l’esatto opposto. E’ ciò che irrompe nella realtà  – che è l’ordine simbolico del linguaggio in cui viviamo – in quanto impossibile, ciò che accade proprio perché impossibile, e che in tale eccesso resta sempre inspiegabile, al di là di ogni discorso che lo possa significare).

Il terrorista è, da questo punto di vista, colui che sogna un atto che non passi attraverso la parola, la mediazione dell’ordine simbolico, che sia un “buco”. Una bomba che esplode durante una festa, un uomo che entra in una carrozza di un treno e comincia a far fuoco sui passeggeri, sono sempre dei “buchi” nella realtà, in quanto inassimilabili rispetto ad ogni senso. Il problema, però, è che, come tale, questo atto non sarebbe terroristico, perché non sarebbe nulla: sarebbe il niente che irrompe, senza significato.

Per questo il terrorismo sarà il tentativo discorsivo di giustificare quell’atto senza ragione, quell’atto sottratto alla parola (ad ogni ideologia, rappresentazione, significazione), quell’atto impossibile senza il quale non ci sarebbe mai stato “terrorismo”, perché senza di esso nessun  “terrore”, nessuna temporalità futura si potrebbe produrre.

Ritorniamo a questo movimento di cancellazione, che stiamo continuamente cercando di delineare: affinché l’atto sia accaduto come impossibile, il terrorismo è costretto a giustificarlo, a legittimarlo attraverso la parola (è sempre la parola che separa il terrorismo da quello che solitamente chiamiamo il “gesto di un folle”). Ma così facendo il discorso terrorista è costretto a rendere possibile l’impossibile, e dunque a negarlo come tale.

Una “stagione” di terrorismo, dunque, dura, si protrae finché riesce a produrre l’impossibile come sempre possibile, ossia come l’impossibile che può costantemente ritornare, accadere, ovunque; è invece storicamente superata quando questo impossibile diventa, semplicemente, possibile, ossia quando cessa di essere impossibile, per divenire una possibilità reale,  qualcosa che è già presente come possibile, già attesa e prevedibile.

nota. Il terrorismo è storicamente superato – il che non significa che non possa, talora anche efficacemente, proseguire per un certo periodo – nel momento in cui ogni suo nuovo atto non appare più come impossibile, come irruzione del nuovo, dell’imprevedibile, ma come ripetizione, come altro atto identico ai precedenti e, come tale, sempre già possibile. Da questo punto di vista, si potrebbe forse ripensare più a fondo la rilevanza storica di diversi fenomeni di terrorismo della recente storia europea. Per l’Italia, Giorgio Galli, pochi giorni dopo il rapimento di Sossi, notava che, mentre i «drammi della strategia della tensione scoppiavano improvvisi», già sin dalle loro prime rivendicazioni gli atti delle Brigate Rosse apparivano «molto “artificiali”: prevedibili, scontati, volti a provocare una sensazione di paura, ma senza sangue e senza morti». Certo, sbagliava: arrivarono presto anche il sangue e i morti. Ma, forse, non del tutto. Rispetto allo stragismo (1965-1974), il terrorismo brigatista era fin dall’inizio storicamente superato, più che per ragioni ideologiche, per il fatto stesso di essere già da sempre inscritto in un orizzonte di prevedibilità, anticipabilità, significatività.

Spontaneismo.

Per questa ragione l’analisi corretta del terrorismo è ancora quella che  Lenin chiamava spontaneismo, «sottomissione alla spontaneità». Dovremo, ovviamente, ripensare il termine, la definizione. Ma si può sostenere che spontaneismo significa, propriamente, l’illusione che il reale possa coincidere immediatamente con la realtà.

Il terrorista – per ora ci riferiamo all’individuo singolo (e dovremmo poi vedere come esso sia sempre, però, determinato dall’ideologia che se ne serve) –  è colui che pretende di realizzare direttamente il reale. E’ colui, cioè, che pretende di compiere un atto che sia immediatamente reale, che ciò si possa realizzare senza passare per il linguaggio, per la parola.

Da questo punto di vista, per il terrorista non si tratta mai di uccidere per cambiare la realtà, ma per abolirla, per farla coincidere con il reale («la tua purezza assomiglia alla morte, e la rivoluzione che sogni non è la nostra: tu non vuoi cambiare il mondo, vuoi farlo saltare»).

Un terrorista “puro” sarà sempre un assassino, e mai un rivoluzionario, perché egli vive nell’illusione di abolire la realtà, di sopprimere la distanza tra l’atto e le parole. Questa sarebbe, forse, la definizione appropriata e leninista dello «spontaneismo».

L’illusione consiste, dunque, nel fatto che, abolita la realtà, non resta neppure il “reale”, ossia che non c’è nulla dietro la realtà, non c’è neppure l’atto che il terrorista sogna di compiere. Tolte le “parole”, diremmo, non c’è alcun atto.

nota. Forse è il testo letterario, prima d’altri (filosofici, politici, storici) a pensare realmente questa illusione. Sotto tale aspetto, i romanzi di Conrad dedicati al terrorismo russo non muovono che da questa domanda: come è possibile raccontare, narrare un atto terroristico se esso non si situa che nel tentativo di cancellare la separazione tra atto e parola? Non si tratta di una domanda politica – Conrad è uno scritto: pensa per problemi letterari – ma di una domanda che, nel mettere in questione le possibilità di una scrittura, pensa forse a fondo proprio il problema del rapporto tra l’atto terroristico e il linguaggio. Si rilegga l’esordio di Sotto gli occhi dell’Occidente, che non fa che pensare il fallimento della stessa scrittura che inaugura, il fallimento del racconto: «le parole, è noto, sono il grande nemico del reale […] giunge il momento nel quale il mondo non è altro che il luogo delle molte parole, e l’uomo stesso è soltanto un animale dotato di parola, poco più sorprendente del pappagallo».

Qui si svela l’altro lato del terrorista, ciò che fa del terrorismo – anche quello dei giorni nostri – un fenomeno essenzialmente intellettuale. Il terrorista non è un uomo d’azione, ma un uomo di parole. Fallito sempre il tentativo di sopprimere le parola, il terrorismo si produce e riproduce con le sue minacce, rivendicazioni, comunicati, confessioni, riempiendo centinaia e centinaia di pagine, parlando e parlando di se stesso. C’è un’ironia del terrorista, di colui che non riesce mai davvero a “sporcarsi le mani”, perché le sue mani finiscono sempre per stringere soltanto  parole.

Ideologia.    

Lo spontaneismo indica, da questo punto di vista, sempre il fallimento della spontaneità stessa, ossia l’impossibilità di realizzare puramente l’atto. Nel terrorismo, l’atto è già da sempre “mancato” – e ciò proprio nel momento in cui è reso possibile, in cui è “realizzato”: è già parola, significato, già previsto, inscritto, marchiato dal linguaggio (“questo è un attentato terroristico”, “abbiamo compiuto un atto di terrorismo”, etc.).

E’ per tale ragione che non c’è terrorismo se non nel recupero di altri discorsi – l’islamismo, il nichilismo, l’anarchismo, etc. –.

Perché? Perché questi discorsi funzionano – per quanto paradossalmente – nel senso di restituire al terrorista l’atto che ha mancato.

Il discorso terroristico, pertanto, non è mai dimostrativo, quanto piuttosto tragico, «edificante», poiché la sua funzione (o almeno: la sua funzione primaria) non è quella di dimostrare le proprie ragioni, di “convincere” qualcuno, ma di far esistere l’atto nella sua purezza, di mostrare che il terrorista può compiere un atto senza ragione, in qualsiasi momento e luogo, senza motivazione, senza un discorso che lo rende possibile e anticipabile.

Ma il risultato di tutto ciò è che questo discorso non fa che ideologizzare l’atto stesso: non lo fa esistere come atto, ma come discorso, ideologia, retorica (per questo dovremmo capire: se il terrorismo riesce a convincerci che un atto terroristico possa avvenire in qualsiasi momento, in ogni luogo dove ci rechiamo, ciò avviene proprio in forza degli elementi secondari persuasivi del suo discorso, e non di quelli che abbiamo definito come edificanti. E’ la realtà del terrorismo, e non il reale che esso tenta di realizzare, a spaventarci: per questo proviamo paura, e non angoscia).

Dovremo dunque imparare ad individuare i diversi “nodi” discorsivi che rendono possibile il terrorismo – che avranno reso possibile, forse, una nuova “stagione” di terrorismo in Europa.

Certamente, il terrorismo può costituire un mezzo tattico, un’arma di lotta come altre, al servizio di una certa politica, di una certa ideologia. La nostra attualità non fa che insistere su questo punto. Ma ciò non significa che non esista una contraddizione che è propria di questa «tattica» e che definisce la relazione tra terrorismo e ideologia.

Infatti, se è vero che il terrorismo non esiste senza ideologia, è proprio nel suo farsi ideologico che esso si cancella. Per esistere, il terrorismo deve ideologizzarsi, ma questa ideologizzazione ne determina l’inesistenza, fornendogli una ragione per esistere. E’ il movimento che abbiamo già visto. Lo ripetiamo: è grazie all’ideologia che il terrorismo può realizzarsi, producendo l’impossibile come sempre possibile, ossia come l’impossibile che può costantemente ritornare, accadere, ovunque.

Ma questa realizzazione è contraddittoria, e giunge, necessariamente e proprio in forza del discorso ideologico che lo attraversa, sino al punto in cui questo stesso impossibile cessa di esser tale, per divenire una possibilità reale,  qualcosa che è già presente come possibile. Questo è il punto in cui il terrorismo, come “mezzo tattico”, cessa di essere storicamente rilevante.

Il terrorismo costituisce, certamente, un mezzo di lotta – e, in determinate circostanze, il ricorso ad esso può rivelarsi vincente. Eppure esso resta, in ultima istanza, in contraddizione con l’ideologia (senza la quale, pure, esso non esiste). Per questo non capiremo nulla finché continueremo a parlare di «terrorismo islamico». E poco serviranno le varie “diagnosi” sulla crisi dell’Occidente, sulla mondializzazione, e così via – sarebbe interessante, da questo punto di vista, rileggere alcuni dei testi che sono seguiti all’11 settembre, per riscontrarvi osservazioni e tesi smentite radicalmente da quanto è poi avvenuto. Capiremo forse il terrorismo, invece, soltanto pensando la  contraddizione ad esso interna, e seguendone il suo sviluppo.

 

Belzebù o del dia-bolico

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“– el demonio es gran pintor

 

 

Bisognerebbe chiedersi anzitutto come, ed a quali condizioni, il diavolo (ma non sapremo ancora, per ora, se si tratti del diabolico, del demoniaco, del demonico) faccia il suo ingresso, storicamente, nelle arti figurative, e poi in una tradizione iconografica quale quella cristiana. Questa domanda – se pensata adeguatamente – non chiede come il diavolo venga rappresentato (non rimanda alla storia delle sue diverse raffigurazioni), bensì come la rappresentazione del diavolo consenta all’arte di seguire nuove strategie, creazioni, trasformazioni interne alla propria ricerca. Ciò che sarà sempre in questione, nell’arte, non sarà mai il problema di come “rappresentare” il diavolo, quanto piuttosto di come il diavolo consenta la sperimentazione di nuovi colori, nuove linee, forme, movimenti.

In arte, Belzebù. Come se il diavolo non potesse che giungere, ritornare, se non «sotto un altro nome», in the other devil’s name: in arte Belzebù, o Lucifero, o Satana (come poterli davvero distinguere?), ma sempre, in ogni caso, un nome sotto il nome, proprio un “nome d’arte”, nome che nasconde (ma senza nascondere nulla). Nome proprio, dunque, ma senza referente, perché il diavolo non verrà che sotto un altro nome: verrà, cioè, solo come doppio, ma non di qualcuno o di qualcosa. Come il doppio che egli stesso è: “diavolo” non dice altro che il doppio, diable, double. Il doppio, il “sosia”, l’altro che io stesso sono: è questo il dia-bolico, ciò che separa senza tenere-insieme (diabàllein). Il diavolo è il doppio che impedisce l’identità della cosa – «diable ou un contraire du Moi, qui détruit le Moi au lieu de le remplacer» (Rank) – che impedisce ogni sé.

La logica dia-bolica è quella del due-senza-uno che si scrive contro quella sim-bolica dell’uno-che-è-due. In quest’ultima, la dualità è infatti, identica, resta un’unità (un due-che-è-uno); diversamente, il dia-bolico indica uno sdoppiamento senza identità, un due che non farà che raddoppiarsi, che essere il doppio del doppio – il doppio si sdoppia. Non si tratta, quindi, di affermare che l’uno non è, quanto piuttosto di interrogare come il due possa darsi senza l’uno. Il dia-bolico sarebbe allora anche il due-senza-due: il doppio senza che in esso si possano mai dire, identificare i “due” che lo compongono.

Per questo le cose, prese in un movimento dia-bolico, appariranno ora di una duplicità ambigua (Derrida: duplicité sans parité, double sans paire). Non l’una sarà infatti il doppio dell’altra, ma ciascuna sarà già il doppio di se stessa: doppio che si doppia, doppio che rende impossibile ogni unità e determinatezza iniziale. Non, cioè, la cosa rappresentata sarà semplicemente il “doppio” di quella “reale”, ma sarà la stessa realtà, la stessa referenza, ad apparire come il “doppio” di ciò che la rappresenta.

Dovremo dunque distinguere il sim-bolo (symbállein, ciò che tiene-insieme) dal dia-bolo che separa (diabállein) – diabole è la parola che Michel Tournier ha inventato, proprio per designare l’ «inversione maligna del simbolo». Il sim-bolo dice la cosa come identica soltanto come giudizio di identità, e non come identità della cosa: “A è A”, la cosa è se stessa, è identica a sé, soltanto nella riflessione che la separa da sé, nella predicazione che pone A in relazione a sé, e dunque in rapporto ad altro. Il proprio del sim-bolo è questo tenere-insieme i distinti, soggetto e predicato, facendo sì che il predicato dica l’identità del soggetto. E ciò sempre nell’illusione che il soggetto sia ciò porta i propri predicati – sia la referenza ultima, fissa, stabile, il “sostrato” che rende possibile la predicazione. Il diabole non sarebbe, in questo senso, che l’inversione di questa logica, ciò che la trascina verso il suo limite fino a rovesciare la foria – così, nelle parole di Tournier: non più Cristo che porta la croce, ma la croce che porta Cristo, il momento in cui il «crocifero diventa crocifisso».

Diabole dice che il giudizio di identità – tale per cui Cristo è colui che porta la croce – non fa che affermare, al contempo, che è la croce a portare il Cristo. In altri termini: il predicato è il doppio del soggetto, il quale a sua volta non è che il doppio del predicato. “A è A” non direbbe l’identità della cosa con se stessa, ma, al contrario – proprio perché il primo A è il doppio del secondo A, ed il secondo il doppio del primo, e ciascuno il doppio di se stesso – non farebbe che raddoppiare il doppio, che dire la cosa come il doppio del doppio. Il diabolico è un gioco di specchi – per questo lo specchio sarà sempre, nell’iconografia cristiana, lo strumento del diavolo, il quale abita da due parti, dall’una e dell’altra, dove l’una non è che l’altra, che il suo doppio.

Ma, in questo raddoppiamento continuo, diabolo non farà che dire la verità del giudizio: che il giudizio, cioè, non può mai affermare l’identità della cosa con se stessa, pur non mirando che ad essa. Dia-bolica non sarà allora, in un nuovo rovesciamento, la cosa stessa? Non sarà, cioè, essa, sempre separata, differente, irriducibile al simbolo, al suo tenere-insieme, e quindi in sé dia-bolica? Il gioco dello specchio, Spiegel-Spiel, è il gioco della cosa, di questa cosa (das Ding, il questo-qui nella sua singolarità) che si sottrae, resiste, si differenzia da ogni tenere-insieme proprio del sim-bolo. Il sim-bolo dice l’identità della cosa soltanto dicendo ciò che essa non è: la cosa è identica a se stessa soltanto in quanto è in relazione ad altro, in quanto è questa e non quella. La cosa – come ciò che non è altro che se stessa – gli si dà pertanto soltanto attraverso quello “specchio”, quel “raddoppiamento” che è il dia-bolico.

Ci saranno sempre più logiche interne al dia-bolico, a questa separazione senza separati, a questa differenza che non si dà mai come tale – perché altrimenti sarebbe identica a se stessa. Avremo allora sempre più d’una strategia, più d’una tradizione, più d’una risposta da poter seguire. Se ne seguiamo, qui, una, essa non si dà comunque senza un’altra (così non saremo mai sicuri di affermare – come pure stiamo facendo – che la cosa sia il dia-bolico, se esso infatti non si può a sua volta affermare che negandosi, in quanto «ab origine negazione di sé, auto-annullamento», in quanto inospitale verso di sé – Cacciari).

Se diciamo, dunque, che il diabolo separa nel senso di differenziare l’identità della cosa dal giudizio di identità, nel senso di resistere alla tentazione del giudizio, il diavolo sarà sempre anche colui che tenta al giudizio, alla separazione che de-cide, che oppone i due termini come distinti: il diavolo è l’«accusatore» (diábolos), colui che provoca il giudizio, che tenta Cristo a scegliere questo mondo, a diventare padrone di questo mondo (la tentazione del mondo, la terza tentazione), separandosi dal Padre. Altro gioco di specchi, allora: la tentazione dal giudizio è la tentazione del giudizio? Giudicare per non dover più giudicare?

Per questo si dovrà sempre tentare una logica dia-bolica ma senza il diavolo, senza la tentazione che esso rappresenta, senza stringere un patto con uno dei suoi nomi – il diavolo non potrebbe giungere che come una parte, un contraente, in un’economia dello scambio, in un’economia re-ligiosa (re-ligare è tenere insieme, nuovamente unire).

In cosa consisterebbe, allora, il dia-bolico dell’arte? Era questo ciò di cui domandavamo. Esso non starà nel rappresentare il diavolo, ma nel creare percetti – ossia insiemi di percezioni e sensazioni – secondo una logica dia-bolica. Si tratterà, in primo luogo, di non ridurre l’arte al suo voler-dire: dia-bolico è il silenzio dell’opera, il suo linguaggio-senza-linguaggio che non giudica, non redime, non identifica, che lascia la cosa nella sua estraneità radicale, la quale è la sua identità (e non l’identità del giudizio che la dice). Per questo l’arte non è mai imitativa, rappresentativa, “figurativa”, sim-bolica. Essa non dice nulla: il voler-dire la sottometterebbe al discorso, all’autorità della parola e del concetto, laddove invece viene qui in gioco un altro linguaggio – quello plastico, musicale, pittorico – che è senza-linguaggio, senza-parola. Dal concetto (che è giudizio, de-cisione, separazione che tiene-insieme) al percetto, non si restituisce più nulla, non si tratta più di esprimere delle percezioni, di rinviare ad un oggetto, ad un altro da sé. Si tratta, diversamente, di portare, attraverso le linee, i colori, i toni, il movimento, verso un’altra scrittura della cosa (scrittura della mano sinistra). Nell’arte, cioè, la cosa è sempre nella differenza rispetto ad ogni differenza che ci permette di dirla, di coglierla, di pensarla (questa e non quella).

Dia-bolico, demoniaco, demonico. Più d’una tradizione, si è detto, perché sarà anche impossibile distinguere veramente, definitivamente, il diabolico (cristiano) dal demonico (greco), dal δαιμόνιος, da quel semplice che pure è il più in-solito (das Un-geheure), l’estraneo, l’Unheimliche, ma anche il più “naturale”. Se dia-bolica è la cosa, è perché essa – proprio perché è ciò che vi è di più semplice, di più solito, ciò che immediatamente è – è al contempo il più inquietante: ciò che non può dirsi, che si sottrae continuamente al giudizio.

Il dia-bolico non dice la cosa. Dia-bolica è la cosa nella sua semplicità, nella sua singolarità, nel suo venire alla luce senza significare, nel suo essere senza-perché, nel non poter essere detta. Che la cosa non sia altro da se stessa: questo è il più difficile, il più inquietante, il più insolito.

Riferimenti bibliografici: M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano, Adelphi, 1986; G. Deleuze,  Francis Bacon: Logique de la sensation, Paris, La Différence, 1981; J. Derrida, La verité en peinture, Paris, Flammarion, 1978; Id.,  Spéculer – sur “Freud”, in La Carte Postale, Flammarion, Paris 1980; L. Link, The Devil :A Mask without a Face, London, Reaktion, 1995; M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1999; S. Kofman, Le double e(s)t le diable: L’inquietante étrangeté de L’homme au sable (Der Sandmann), in Quatre Romans Autobiographiques, Paris, Galilée, 1973, pp. 135-181; V. Vitiello, L’immagine infranta. Linguaggio e modo da Vico a Pollock, Bompiani, 2014; Id., Il dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma, Città Nuova, 2002.

La malattia della morte

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Ricominciamo da un racconto di Marguerite Duras, La malattia della morte. L’avrà pagata – «potreste averla pagata», certamente – ma non sarà stata, in ogni caso, una prostituta («Le chiede se è una prostituta. Fa segno di no»). Al contempo, però, nulla andrà senza un contratto, con le sue pattuizioni, gli accordi, le condizioni: «vorrei dormire sul sesso quieto», «vorrei penetrare anche là», vorrei provare, provare cosa? «Risponde: ad amare». «Dice la cifra». «Lei accetta». Ma se non c’è prostituzione – ed è questo l’aspetto essenziale – allora come sarà stato possibile un contratto?

Non vi saranno “prestazioni” sessuali se non contro denaro, «il contratto delle notti pagate», ma, allo stesso tempo, non vi sarà nulla che faccia di lei una prostituta, che faccia di voi un cliente. Se lei ha accettato, se c’è contratto, è perché «fin dall’inizio lei ha intuito, senza saperlo chiaramente, che, incapace di amare, lui non può avvicinarsi a lei se non in modo condizionato, in seguito a un accordo» (Blanchot). Neppure dal lato maschile, dunque, vi sarà un contratto di prostituzione: non si tratterà mai di consumare un rapporto sessuale, a fronte di un pagamento. Piuttosto, Lui paga per avere un rapporto sessuale. Per Lui, cioè, non ci sarà rapporto possibile se non attraverso il denaro, attraverso l’attivazione dei protocolli – linguistici, simbolici, giuridici ed economici – dello scambio. Solo per il contratto, solo a forza di pattuizioni, accordi, trattative, potrà esistere il rapporto sessuale. Il contratto costituisce (e non semplicemente ricompensa) il rapporto sessuale, la sua condizione di possibilità.

Ci sarà stato un rapporto sessuale, dietro pagamento: tale è la prostituzione. Ma essa è possibile solo in quanto il diritto, il linguaggio giuridico (che è sempre linguaggio maschile) ha già messo in discorso il rapporto sessuale come tale, ha già reso possibile, nella sua logica interna, affermare, dire il rapporto sessuale, dire che esiste il rapporto sessuale. E, per il diritto, il rapporto sessuale non esiste a sua volta che come contratto, accordo di volontà – e dunque come scambio, come economia dello scambio. Per il diritto, una donna non potrà mai essere altro che pagata – senza che per questo vi sia giuridicamente prostituzione. Il che significa: è solo attraverso il contratto, la sua logica, l’accordo, le condizioni, la fissazione di reciproci diritti ed obblighi, che vi sarà rapporto sessuale.

Tutto, da adesso, passerà da qui: la differenza tra il godimento e la violenza, tra il rapporto “consenziente” e lo stupro, sarà sempre e soltanto una differenza di diritto. Si tratterà sempre di accertare il diritto – avrò avuto il diritto ad abbracciarti, a penetrarti, a toccarti? Altrimenti sarà violenza, e non ci sarà stato, propriamente, rapporto (sessuale). Per il lato maschile, non c’è rapporto sessuale senza diritto – altrimenti sarebbe “violenza”, stupro. Ma proprio per questo, non ci sarà rapporto sessuale se non in una logica del contratto (che è, in definitiva, la stessa logica della prostituzione).

Il divenire-donna non ci insegnerebbe (ma senza mai insegnarlo, sempre in un non-sapere, perché Lei non sa nulla, «la donna stessa non sa»), invece, a pensare una sovversione, una trasgressione impensabile per il diritto? Un rapporto sessuale senza-diritto? «La donna sarebbe sempre pronta, consenziente o meno. E’ su questo punto preciso che voi non sapreste mai nulla». Testo pericoloso, che non cessa di inquietarvi, a voi che lo leggete: cos’è questa indifferenza, questo venir meno del consenso – che pure non porta ad alcuna violenza, ad alcuno stupro? Ecco che Lei si esporrebbe al rischio, all’impotenza di un corpo senza-difesa, senza-diritto: «invoca lo strangolamento, lo stupro, le sevizie, gli insulti, le grida d’odio, lo scatenarsi delle passioni assolute, mortali».

             Sono qui, guardami, fai ciò che vuoi:

            «Sono qui, guardi, sono da davanti a lei».

            «Non vedo nulla».

Guardami, ma guardami senza-diritto, agisci al di là di ogni diritto, al di là di ogni discorsività giuridica. E Lui non potrà farlo: senza il diritto che dica il suo diritto – e che dunque gli consenta anche di trasgredirlo, di violarlo – , lui non vedrà nulla. «Non vedo nulla». La donna risponde: «Provi a vedere, è compreso nel prezzo che ha pagato». Come osserva Blanchot, questa «intimità dall’esterno inaccessibile» è, per l’uomo, impensabile: la «visibilità assoluta» cui lei si espone «è la sua evidenza invisibile».

Il diritto, diremo, non è un velo che occulti, che copra, che nasconda, qualcosa che, altrimenti, potremmo vedere in tutta la sua visibilità. Al contrario: il diritto vela, copre quella visibilità assoluta che è l’invisibilità, copre il fatto che, dietro il velo, non vi è nulla che il maschio possa riuscire a guardare. Il diritto è la realtà che vela il reale, dove il reale è il niente delle cose, il niente che ogni cosa è: insopportabile per il maschio, questa «perfezione indelebile della singola contingenza», il suo non somigliare a nessuno. Per questo il diritto è essenzialmente maschile ed omosessuale: ama lo stesso, ama l’identità; laddove non c’è scrittura e non c’è amore se non nell’eterosessualità, nell’amore dell’altro, della differenza, dei «generi inconciliabili, il maschile e il femminile», come scrive Duras (e la logica lacaniana è la stessa: «per definizione diciamo eterosessuale quello che ama le donne, qualunque sia il suo sesso»).

La logica maschile – che non è altro che il logos, la normatività, il linguaggio – può vedere la donna solo attraverso il discorso giuridico che la costituisce. Dietro il “velo” del diritto, non c’è nulla, non vede nulla. Non c’è alcuna donna. E’ impensabile, per il lato maschile, il rapporto sessuale che si scriva al di là, nella sovversione della scrittura giuridica, dei diritti e degli obblighi: sei mia, sono tuo, ho il diritto di toccarti, ho l’obbligo di avere il tuo consenso, etc. Solo il linguaggio del diritto rende pensabile, per il maschio, il “rapporto sessuale”. Accade lo stesso nel film di Truffaut, L’homme qui aimait les femmes. Bertrand sarà sempre ossessionato da questa domanda, non cercherà altro che una sola risposta: J’ai le droit de poser mes mains là? De vous toucher? (ripeterà questa battuta per tre volte, nel corso del film). Sarà l’unica donna che lo ha fatto soffrire, Vera, l’unica donna che forse ha amato, a rivelargli che egli ha sempre fallito il rapporto sessuale: – Adesso però non ho più il diritto di toccarti. – Più il diritto? Ti esprimi come il codice civile. Il contratto – la logica giuridica –, in ultima istanza, costituisce il rapporto sessuale ma solo alla condizione di renderlo impossibile, di farlo sempre fallire.

Questo testo «misterioso», «irriducibile» di Duras, insegnerebbe allora – ma, lo si ripete, in un insegnamento senza sapere – ciò che per il diritto è l’impensabile: che il rapporto sessuale, se mai vi sarà, sarà possibile solo in una scrittura senza-diritto. Ecco l’impensabile: non c’è diritto al rapporto sessuale, non c’è consenso, accordo, volontà, da cui esso dipenda o che lo costituisca. Una scrittura misteriosa, certamente, tanto che noi che la leggiamo, che cerchiamo di seguirla, non riusciremo mai a capire per dove passi, allora, la differenza tra il sesso e lo stupro, l’amore e la violenza – eppure Duras non sta che scrivendo questa differenza, tanto che lo stupro è, qui, impossibile, ogni violenza esclusa.

Ma la nostra lettura procederà sempre, ancora, dal lato maschile: per questo non vediamo alcuna differenza, non vediamo nulla. La donna è la differenza: il niente della differenza, ciò che il diritto mancherà sempre. Questa donna senza-nome, senza-diritto, sa, senza mai saperlo, la nostra malattia mortale. Essa è, forse, il non aver mai amato. Ma cosa significa? Significa la nostra impossibilità di pensare il rapporto sessuale «contro ogni legge», con la legge stessa, la legge dell’identico, dell’equivalente, del contratto: come sarebbe pensabile un rapporto sessuale senza-diritto, senza che esso dipenda dal consenso, dall’accordo, dalla volontà, e che pure sia, al contempo, quanto di più lontano dalla violenza, dal “dominio” dell’uomo sulla donna?

Lei lo dirà: l’amore non potrà sopraggiungere, forse, che «da una falla improvvisa nella logica dell’universo». Forse da un errore, da un sogno, da un crimine, da una parola. In ogni caso, «mai da una volontà». In ogni caso, «senza sapere come». Nessuna volontà, dunque, per questo sentimento «al di là di ogni sentimento» che «supera la coscienza, rompe con la cura di me stesso ed esige senza diritto quanto si sottrae a ogni esigenza» (Blanchot).

L’amore – scrive Duras – sarà stato possibile solo perdendolo prima che accadesse. I testi segreti portano la scrittura a questo limite: «Quell’amore sta nell’impossibilità di essere scritto. È un amore non ancora raggiunto dalla scrittura. È troppo forte, più forte di quelle persone».  Questo è il movimento stesso del testo letterario, che si scrive sempre contro la realtà (che è sempre giuridica): solo laddove fallisce il rapporto, dove non accade, dove il diritto non riesce più a scriverlo – perché non c’è più contratto, scambio, accordo, volontà a contare –, allora l’amore è stato scritto, pur senza poter essere scritto (per questo nel libro «non è successo nulla, perché nulla accade»). Si dovrà perdere quanto non si è mai avuto – perché non c’è avere possibile, perché non si ha mai un rapporto sessuale.

Una scrittura femminile – che sarebbe sempre il divenire-donna, il divenire-rivoluzionaria di ogni scrittura, la sua lotta contro il linguaggio attraverso il linguaggio stesso – non potrebbe che passare da qui, anzitutto: dal rapporto sessuale senza-diritto. Nel sottrarsi stesso della scrittura, nell’amore che la scrittura non raggiunge mai, ci sarà stata la scrittura del rapporto sessuale che è la sua stessa impossibilità di scriversi, che è il suo stesso fallimento, che è ciò che è perduto prima che possa essere stato – «non c’è rapporto sessuale» non afferma altro che questo: non c’è, ossia non è mai qualcosa di essente, una cosa, una sostanza, ma, appunto, “rapporto”, il niente che accade tra le cose. E non c’è letteratura se non a partire da questo niente che, per esser detto, disdice il linguaggio («Le langage se révèle en définitive incapable d’exprimer l’expérience sexuelle telle qu’elle relève d’un non-savoir», osserva Lahouste). Nello stesso tempo, non c’è linguaggio – linguaggio giuridico, ordine del discorso – se non dal lato maschile, da quel dire che afferma (e dunque costituisce) che c’è qualcosa, che c’è rapporto sessuale, anziché niente. Non ci sarà “opposizione” tra questi due movimenti (la scrittura e il linguaggio, il femminile ed il maschile, la sinistra e la destra), come se essi fossero identificabili, indipendenti e sussistenti ciascuno per sé – l’uno non si dà senza l’altro o, ancor meglio, la loro differenza è senza-differenza: la scrittura è il fallimento che il linguaggio stesso è, è la differenza che esso stesso è, il reale che costituisce la realtà.

Se, qui, verrà in gioco una pratica, se ci sarà una pratica misteriosa e inconfessabile che la scrittura di Marguerite Duras insegna senza alcun sapere, non sarà che una pratica della sovversione del diritto – riusciresti davvero godere del mio corpo senza averne il diritto? Perché non la violenti, non la uccidi – perché non ci riesci? (Forse perché, per Lui, non c’è violenza se non come “negazione”, trasgressione del diritto? Forse perché, nella visibilità assoluta di ciò che è senza-diritto, egli non vede più nulla?). Eppure ci sarà bisogno, ancora, di un contratto, affinché il racconto cominci, affinché esso si possa scrivere: altrimenti, Lei non potrebbe essere lì. Perché una scrittura senza-diritto non sarà mai senza il diritto, perché è lo stesso movimento, è la differenza che non c’è: il senza-diritto non è l’altro (a sé stante, indipendente) dal diritto, ma è il fallimento che il diritto stesso è, è l’alterità che il diritto è, il senza-diritto del diritto.

Testi di riferimento: M. Duras, Testi segreti, trad.it. di R. Postorino, Nonostante, 2015; M. Blanchot, La comunità inconfessabile, trad. it. di D. Gorret, Milano, SE, 2002; C. Lahouste, Emprunter la «route aveugle». L’acte sexuel chez Marguerite Duras, in «Bulletin de la Société Internationale Marguerite Duras», 2, 35, 2014, pp. 189-203; A.-M. Picard,  M.D., cette maladie contagieuse, in A. Saemmer – S. Patrice (a cura di), Les lectures de Marguerite Duras, Lyon, Presses universitaires de Lyon, 2005, pp. 201-212; J.-L. Nancy, Il “c’è” del rapporto sessuale, Milano, SE, 2002; M. Barbuto, Alle soglie del dicibile, in M. Mazzotti (a cura di), Stili della sublimazione. Usi psicoanalitici dell’arte, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 35-41; F. Garritano, Aporie comunitarie. Sino alla fine del mondo, Milano, Jaca Book, 1999.

 

Lappin e Lapinova

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Quando la si interroga sul tema di una scrittura propriamente femminile, Virginia Woolf inorridisce all’idea di scrivere “in quanto donna”. Bisogna piuttosto che la scrittura produca un divenire-donna […]

(G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani)

 

 

           Come è possibile il matrimonio? A quali condizioni si è sposi? Cosa rende qualcuno moglie o marito? Il sesso, il “genere”? Ricominceremo da un racconto di Virginia Woolf, Lappin e Lapinova.

             They were married. «Si erano sposati». Il matrimonio è stato. L’atto è stato celebrato. Ci sarà dunque, anzitutto, il linguaggio giuridico a costituire il matrimonio e due soggetti come marito e moglie, ad assegnare loro le rispettive posizioni. Forse qualcosa del genere nel testo hegeliano – citato e riletto in Glas: non si è mai altro che sposati. Ossia: non ci si sposa mai, si è sempre sposati dagli altri, per gli altri. Ma il matrimonio – la relazione tra i due sposi – , allora, sarà sempre dopo, e mai si darà come atto.

            Riprendiamo il problema. Non si è sposi che per il diritto, perché è soltanto la legge che fa il marito e la moglie. Ma non è questo, in fondo, che conta. Perché la performatività dell’atto, ossia della parole, non viene, propriamente, per “prima”. Questo lo sappiamo, in parte, già, se Benveniste ricordava: non è mai il verbo ad essere performativo, ma è il discorso giuridico in forza del quale viene pronunciato che lo rende performativo. Dovremo spostare in avanti la questione.

             «Questo avvenne di martedì. Ora era sabato. Rosalind doveva ancora abituarsi all’idea di essere la signora Ernest». Cosa significa? Occorre saper leggere il rovesciamento essenziale: non si è sposi che dopo essersi sposati, ma al contempo non si sarà mai stati propriamente sposati finché non ci si potrà dire “sei mio marito”, “sono tua moglie”. Era martedì, quel giorno. E adesso era sabato: è come se la settimana stesse passando – that was on Tuesday. Now it was Saturday –  senza che la signora Thorburn, pur essendosi sposata, sia ancora sposa e moglie. Lo è già, indubbiamente. Ma al contempo non lo è, perché non si è già moglie.

            Le mariage n’est point une situation, mais un état, osservava Portalis. Ossia: è solo perché siamo marito e moglie che lo siamo stati. E’, cioè, solo l’iscrizione dei coniugi all’interno di un certo tipo di linguaggio – che sarà il linguaggio del diritto inteso come diritto del linguaggio – che renderà possibile la “dichiarazione”, la parole, che pure lo precede.

            La parole è per la langue, anche quando viene prima, e mai viceversa. Il che significherà: il matrimonio è quel linguaggio che obbliga gli sposi (e quindi: una volta sposati, perché prima non si è sposi), a produrre e ri-produrre la condizione che li ha resi tali. Ci si sposa, diremmo, soltanto per essere costretti a dimostrare di essersi sposati: “mio marito”, “mia moglie”.

            Per questo Rosalind non è ancora la moglie di Ernest Thorburn, pur essendolo già, pur non essendo altra dalla signora Thorburn. Ernest non è il nome giusto: «non era un nome cui fosse facile abituarsi», non è il nome che lei avrebbe scelto (it was not the name she would have chosen). Ernest non è il nome che consente di inaugurare la significazione, ossia che consente ad entrambi di parlare a partire da esso.

            Ma – proprio perché non c’è nulla di “naturale” nel nome, proprio perché il linguaggio crea la realtà – la significazione potrà cominciare da qualsiasi nome. E proverà che non è il linguaggio ad essere a disposizione di Rosalind ed Ernest, ma che sono loro ad essere parlati da esso, ad essere marito e moglie in quanto parlati dal linguaggio di Lappin e Lapinova.

            Il signore e la signora Thorburn si sono sposati, ma non saranno mai due sposi. Lo saranno solo nel momento in cui la loro relazione sarà significata ed ordinata a partire da due significanti: re Lappin e la regina Lapinova. Re e regina: i due titoli, le due insegne del diritto del linguaggio (ci sarà sempre in gioco una erezione, un fallo), perché solo per il linguaggio è la realtà, solo attraverso il linguaggio esiste il matrimonio.

            Quello di Lappin e Lapinova non è affatto un linguaggio inventato da marito e moglie – una lingua sovversiva, “minore”, de-lirante, una lingua al di là del linguaggio –. Tutto il contrario: sono marito e moglie ad essere soggetti al linguaggio di Lappin e Lapinova, a non essere che parlati da esso, a non essere ciò che sono che attraverso di esso. Ed è proprio per questo che sono marito e moglie: solo in quanto interpellati dal linguaggio (e questo racconto della Woolf è, in fondo, così cupo e privo della gioia dei «divenire donna» che attraversano la scrittura dei suoi grandi romanzi).

            Sembrerebbe, da principio, una somiglianza, una somiglianza naturale, una certa corrispondenza tra il nome e la realtà, a rendere possibile il linguaggio: But here he was. Thank goodness he did not look like Ernest—no. But what did he look like? She glanced at him sideways. Well, when he was eating toast he looked like a rabbit.

            Ernest, sì, assomiglia ad un coniglio, mentre mangia il suo toast. Ma è una somiglianza che nessuno vede, una somiglianza senza somiglianza: «nessun altro avrebbe forse visto una somiglianza tra una creatura così minuscola e timida e questo elegante giovanotto muscoloso».

            Il naso di Ernest freme come quello di un coniglietto, mentre mangia: “It’s because you’re like a rabbit, Ernest,” she said. Ma è solo perché Rosalind lo vede così, che Ernest somiglierà ad un coniglio. Più che somiglianza, allora, ci sarà metafora, non ci sarà altro che una economia metaforica – che è, poi, l’economia della significazione – a creare una relazione tra il naso di Ernest ed il naso del coniglio: la somiglianza non è la condizione della metafora, ma ciò che la metafora costituisce.

            Non c’è dunque, propriamente, alcuna somiglianza, se non a partire e a causa del linguaggio che – cancellando ogni naturalezza, ogni “somiglianza naturale” – la fa esistere. E’ sempre e soltanto in gioco il significante, nel suo spostamento metonimico, mot à mot: rabbit, Lapin, Bunny, Rosalind non trova il nome “giusto”; poi finalmente Lappin, punto in cui si produce la metafora, si assicura la significazione, ma dove  manca sempre il significato, dove esso insiste senza consistere, in cui non sarà mai altro che un significante per un altro significante: «Lappin, Lappin, re Lappin – ripeté. Gli stava a pennello; non era Ernest, era re Lappin. Perché? Non lo sapeva» (Why? She did not know).

            Eppure, Lappin è stato pronunciato «come se avesse trovato proprio la parola che stava cercando». Il matrimonio sarà possibile, allora, soltanto in quanto «appello all’amore di un nome» (Soler): è la ricerca di un nome che, nominando il vuoto, possa “annodare” l’identità di Rosalind.

            Se si dà significazione, non c’è però alcuna garanzia che essa sarà sostenuta da qualcosa: essa è senza perché, senza significato, senza la presenza – o la possibilità, almeno de jure, della presenza – di un significato ultimo (trascendentale). Dietro il significante Lappin non c’è nulla (non c’è Altro dell’Altro), se non il linguaggio stesso, nel suo movimento di continuo scivolamento – linguaggio dunque che manca a se stesso, che non si “assicura” mai. Ma proprio questo – è del tutto evidente – è il linguaggio della legge: Lappin, «coniglio che detta legge a tutti gli altri conigli», significante della regalità (“Re Lappin”), nome-della-legge e legge-del-nome[1].

            La legge impone il nome, il nome impone la legge: la «storia della tribù dei Lappin» è il registro simbolico – e dunque non immaginario, ma il linguaggio della realtà (Under her hands—she was sewing; he was reading—they became very real) – all’interno del quale si articolano le relazioni coniugali. Non è una “fantasia” di Rosalind, lo si ripete: è la realtà stessa, il matrimonio come realtà (e dunque – in senso lacaniano: come l’antitesi del reale), ordine dei rapporti simbolici che consentono ai coniugi di amarsi.

            Così, nel momento in cui Re Lappin catturerà una lepre bianca, Rosalind si potrà riconoscere, ed essere riconosciuta, nel linguaggio. Solo in esso esiste the real Rosalind: «E’ così che si chiama? – chiese Ernest – la vera Rosalind? – La guardò. Si sentiva molto innamorato di lei. – Sì, si chiama così – disse Rosalind, – Lapinova». E’ solo per l’altro, per il nome della legge, Re-Lappin, il re-cacciatore, che ciò che fino a quel momento per Rosalind non era stato altra che un’identità immaginaria diviene simbolica, cioè reale: non c’è soggettivazione senza assoggettamento (la “cattura” della lepre) alla legge del nome.

            Ma il linguaggio non è altro che il diritto: si tratterà sempre di istituire dei titoli (il re e la regina), tracciare confini, territorializzarsi, spartire e dividere: i conigli rossi e quelli neri, la palude e le prateria. «Alleati contro il resto del mondo», ma non c’è nessun movimento di fuga, nessun flusso, ma una continua fissazione e codificazione di segni.

            Il loro è un mondo («senza quel mondo, si domandava Rosalind, come sarebbe riuscita a sopravvivere durante quell’inverno?»), ossia è codice e territorio, è l’ordine imposto dalla legge del significante – che è sempre legge maschile, legge che il fallo al re cacciatore: «lui regnava sull’indaffarato mondo dei conigli; il mondo di lei era un luogo desolato e misterioso e lei lo percorreva soprattutto nelle notti di luna».

            Se l’insegna del re è l’avere il fallo, la “mascherata” in cui si impegna Rosalind – la piccola lepre bianca indifesa, protetta da Lappin – è quella dell’identificazione al significante fallico, a «quel significante destinato a designare nel loro insieme gli effetti di significato, in quanto il significante li condiziona perla sua presenza di significante» (Lacan): Rosalind impara ad essere il fallo, ad essere se stessa, come donna e come moglie, solo in quanto «oggetto del desiderio», oggetto ritrovato, catturato da Re Lappin, il quale però, al contempo, le dona la legge simbolica, da un al di là in cui egli si trova.

            Rosalind non può che abitare nel luogo della legge, del significante, del discorso: solo esso consente la sua sessualizzazione, il suo “essere” moglie, il suo inscriversi come donna attraverso la mancanza del fallo che è, al contempo, il fallo come mancanza, ciò che manca a tutti i significanti per cogliere il loro oggetto (Cadeau).

            Non c’è matrimonio se non nella costruzione del discorso su di esso – che non è altro, però, dal discorso in cui esso consiste. Non sarà diversamente per la Chiesa: «il matrimonio è amore ed è struttura». Ossia: il matrimonio è il discorso amoroso prodotto dalla struttura del linguaggio. O, ancor più propriamente: non c’è matrimonio che nella parola del marito, poiché Rosalind non può godere che della parola, poiché la domanda d’amore è essenzialmente domanda di un nome, di una parola, della significazione. Torneremo su questo punto. Per ora, basti dire che non siamo affatto, qui, in una sovversione del linguaggio, in una scrittura segreta, isterica, del divenire donna: al contrario, il linguaggio di Lappin e Lapinova è essenzialmente pubblico, giuridico, simbolico e codificato, nella misura in cui è quel linguaggio che assicura la significazione e che esiste soltanto in quanto condiviso, anche implicitamente, da tutti.

            Per questo è sufficiente che uno dei Thorburn pronunci la parola rabbits: anche se lui non ne sa niente, egli si comporta come se questo linguaggio esistesse anche per lui. Non si chiederà mai ai Thorburn di riconoscere quel linguaggio: non siamo noi a parlare il linguaggio, e così a farlo esistere, ma è esso che ci parla, e ci fa così esistere.

            Chi lo garantisce, piuttosto, è sempre il significante, il nome-del-re, Lapin. At that word, that magic word, she revived: la parola crea nuovamente la realtà, riattiva le relazioni simboliche che a Rosalind era parso, per un istante, fossero sparite. Ora vede di nuovo il naso di Ernest che freme, come quello di un coniglietto (ma freme davvero?).

            Ora il suocero non è più il suocero, ma un bracconiere; Celia, un furetto bianco; la suocera, il signore di campagna. Si giocherà certamente, qui, l’economia metaforica: non ci sarà metafora (quella degli sposi come rabbits, conigli) senza l’ossessione per il matrimonio come assicurazione della trasmissione della paternità (procreare come conigli, certamente – cuniculus, cunnus). Ma non ci sarà, propriamente, sposa, moglie, non vi sarà l’iscrizione della donna sotto questa metafora della trasmissione del fallo se non a partire dalla parola, dal significante. Non scopami!, ma parlami! è la domanda d’amore della “sposa”: essere parlata dalla parola, essere riconosciuta dalla parola.

            Il linguaggio si potrà disfare soltanto quando sarà il nome-del-re a rivelare il proprio vuoto, la propria mancanza: a rivelare che dietro Lapin non c’è niente, che non c’è alcun significante del significante, che dietro Lapin c’è soltanto Ernest, ed Ernest non è nulla, è soltanto un «uomo, semplicemente un uomo» (Fusini). Il loro matrimonio – sono le ultime pagine del racconto – finirà nell’istante in cui Ernest non riconoscerà più il proprio nome, lasciando Lapinova intrappolata, uccisa, perduta, e si siederà a leggere il giornale, ormai indifferente alle “sciocchezze” di Rosalind. So that was the end of that[2] marriage: la scoperta della mancanza dell’Altro, che non c’è linguaggio dietro il linguaggio – per noi: non c’è diritto dietro al diritto – determina la fine del matrimonio, ossia la fine dell’amore inteso come relazione codificata ed istituita dall’ordine del linguaggio.   «Ranicchiata nel suo lato del letto, come una lepre nella tana»: il dominio della legge è vuoto, non è fondato su nulla. La risposta manca (è da sempre mancata).

            Il testo letterario fa così saltare il discorso del diritto – la sua riproduzione (la riproduzione della riproduzione, diremmo: la riproduzione della trasmissione della paternità, dell’eredità maschile) –, fa fallire il matrimonio non tanto come “istituzione” ma, più propriamente, come regime discorsivo. Il matrimonio è infatti istituzione è sempre secondariamente, sempre perché è anzitutto discorso. E’ solo per la parola, per il suo imporsi, infatti, che si dà scambio, e dunque struttura parentale, separazione della moglie dalla madre.

            Per questo, dunque, è la scrittura letteraria – prima di ogni possibile lettura filosofica, sociologica o psicoanalitica (che pure necessariamente è già stata attivata, richiamata) – ad essere sempre profondamente in gioco. Perché ciò che fa di una mogie una moglie, ciò che rende possibile il matrimonio, i suoi scambi, i suoi ruoli, le sue logiche di coppia, non sarà mai altro che il linguaggio. Ed il linguaggio è sempre legge del nome del padre, è sempre l’imposizione della parola paterna, maschile, fallica, giuridica, normativa.

            Per questo non ci sarà mai matrimonio – se esso non è possibile al di là del linguaggio – che non sia dal lato della sessuazione maschile (indipendentemente dunque dal “genere” sessuale dei coniugi: qualsiasi matrimonio, “eterosessuale” od “omosessuale” che sia, ed ammesso che questi termini abbiano un qualche senso, sarà sempre fallocentrico). Solo la scrittura letteraria potrà portare davvero la sovversione,  il movimento del senza-diritto, perché essa non si farà che spingendo il linguaggio fino al punto in cui esso possa mancare, in cui possa cedere.

            Per questo la scrittura è sempre, diremmo, in radicale opposizione al matrimonio: tra i due vi è incompatibilità assoluta. Bisognerebbe, qui, ripercorrere soprattutto i testi di Kafka, seguendo la splendida lettura proposta da Derrida sul rapporto tra scrittura e matrimonio. Ma già questo racconto di Woolf – anche a non volerlo rileggere nuovamente attraverso i riferimenti ai diari, alle lettere ed agli altri romanzi della scrittrice – ci consente di seguire il punto di rottura tra matrimonio e scrittura.  Non vi sarà scrittura – e la scrittura non è altro che il divenire-donna, che la possibilità di un altro godimento – se non nel fallimento del simbolico, della parola del maschio, del nome-del-padre, se non nella sua contestazione continua.

[1] Cfr. E. Semino, Blending and characters’ mental functioning in Virginia Woolf’s Lappin and Lappinova, in «Language and Literature», 15, 1, 2006, p. 60: «The ‘monarchy’ space provides the notion of power and control over others, as well as the expectation of reverence and respect. Indeed, the choice of the Russian-sounding name ‘Lappin’ could be seen as resulting from one of the long-term memory structures that may be linked with the ‘monarchy’ input space in the character’s mind (when the story was written, Russia had only recently ceased to be ruled by the Tsars)».

[2] Cfr. C. Reynier, Virginia Woolf’s Ethics of the Short Story, New York, Palgrave, 2009, p. 54: «“So that was the end of that marriage”. However the deictic “that” suggests the other married couples will know the same fate as Ernest and Rosalind; their marriage is therefore given a paradigmatic value which in turn prevents the closure of the short story».

Testi di riferimento: E. Semino, Blending and characters’ mental functioning in Virginia Woolf’s Lappin and Lappinova, in «Language and Literature», 15, 1, 2006; C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi, trad. it. di G. Senzolo, Milano, FrancoAngeli, 2005; J. Lacan, La significazione del fallo, in Id., Scritti, II, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974; N. Fusini, Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf, Milano, Mondadori, 2009; C. Reynier, Virginia Woolf’s Ethics of the Short Story, New York, Palgrave, 2009; M.-C. Cadeau, Un continente…non-tutto nero, in Le mie sere con Lacan, Roma, Editori Riuniti, 2012.

 

Lo stupro è il linguaggio

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(In margine a Processo per Stupro, di Loredana Rotondo, trasmesso in RAI per la prima volta il 26 aprile 1979).

 

 

Je veux col. Je veux cul. Je n’ai pas peur. Je veux peur. Je veux: veux. Je veux vœu aussi. Je veux tout. Je veux joue je veux joues, je veux tout joue. J’ai une langue. Je veux que ma langue jouisse. Je veux qu’elle ne se veuve d’aucun bien. Je veux que tout vivant lui revienne vivant.

H. Cixous, , Paris, Gallimard, 1976, p. 109.

 

 

I. Non ci sarà stato processo se non per accertare, ricostruire, condannare ciò che è stato. Ma non vi sarà stato, propriamente, stupro, se non dopo che il processo sarà terminato, se non come ciò che il processo avrà qualificato come tale. Lo stupro è ciò che è accaduto, ossia la realtà di ciò che è stato: il suo significato – i giuristi direbbero: la sua qualificazione normativa.

Per questo, quando il processo comincia, quando il discorso processuale, il linguaggio, ha il suo inizio, esso non troverà nulla, propriamente, che lo preceda.

Non c’è linguaggio giuridico, discorso processuale che non si affermi ponendo i propri presupposti, costituendo retroattivamente le proprie condizioni, far essere ciò che è stato. La ricerca processuale della verità crea il proprio oggetto, la verità dello stupro e lo stupro come verità, come realtà.

Dunque nessuno stupro, prima del processo. Nessuno stupro se non nel processo, come suo risultato e presupposto, nello stesso tempo.

II. Il processo, il diritto, non potrà mai comprendere ciò che Fiorella ha subìto prima del processo. Tutto ciò che è stato, per noi lo sarà solo dopo esserlo stato: solo più tardi, après-coup, ciò che è stato sarà stato quello che è stato.

Ciò che è accaduto, invece, prima, ciò che soltanto dopo sapremo, è il reale, la violenza di quattro uomini che eccede ogni nome perché rompe la trama della significazione che è la trama della realtà.

Non è neppure accaduto, ma accade: senza-nome, possibile solo in quanto impossibile. Solo in quanto non avrebbe potuto accadere. Prima ancora del dolore, della sofferenza (Che ti hanno fatto? Di tutto), quello che le accade, ora, in un’ora che non passa, non ha nome, è il senza-diritto nel suo senso più radicale: ciò che non poteva accadere e ciò che il diritto non potrà mai dire, riconoscere, condannare.

III. Dovremo dunque distinguere: lo stupro come reale, e la realtà dello stupro. Ed è qui che le cose cominciano a cambiare. Certo, è solo con la condanna che, retroattivamente, sarà accaduto uno stupro (e non un rapporto sensuale consenziente). Ma non è questo, in fondo. Ed il punto, a ben vedere, non è neppure – come spesso si è detto – il fatto che Fiorella subisca una vittimizzazione «secondaria», un nuovo “stupro” nel processo, che passi da vittima a imputata.

E’ vero: è solo nel processo, ma per la prima volta, che Fiorella viene stuprata, e stuprata dal linguaggio, dal linguaggio processuale che subisce. Eppure sarebbe improprio pensare che ciò avvenga a causa delle retoriche e delle ideologie che in quel processo trovano espressione. Sarebbe improprio pensare che tutto ciò non accadrebbe più se solo potessimo abbandonare i “pregiudizi di genere”. Le argomentazioni degli avvocati difensori, certamente, tradiscono fin troppo apertamente questi pregiudizi. Fin troppo, appunto: quasi che rivelassero, proprio nell’aderire perfettamente ad essi, che non sono loro a nutrirli, che non sono i loro pregiudizi il problema.

Occorrerà allora saper leggere correttamente la tesi di fondo: solo il linguaggio stupra, violenta, Fiorella. Si tratta, cioè, di capire da dove passi l’ideologia, la violenza maschile sulla donna.

IV. Ciò che non vediamo è che non si tratta, qui, di pensare la circostanza che, nonostante lo stupro sia stato riconosciuto ed accertato, la vera imputata sia stata la donna, il giudizio di colpevolezza sia ricaduto su di lei. Bisogna rovesciare il discorso: è proprio per poter riconoscere lo stupro, proprio per dire il diritto di Fiorella, che è accaduto tutto questo.

E’ questa la logica intrinseca al processo, al linguaggio giuridico: per poter essere la vittima, dovrai essere l’imputata; per poter condannare loro, dovremo condannare te. Dovrai essere stuprata ancora, nuovamente – una seconda volta, ed in realtà per la prima volta –. Ma ciò accade non nonostante, ma affinché gli imputati possano essere condannati, affinché il diritto possa restituire la verità dei fatti.  E’ questo che deve essere pensato: il diritto, qui, è immediatamente e sempre anche il delitto stesso che punisce. Perché avviene tutto ciò, perché non può essere altrimenti?

V. “Nessuno immaginava realmente quello che avveniva in un’aula giudiziaria, dove la giustizia era altrettanto violenta degli stupratori nei confronti delle donne” (T. Lagostena Bassi). Tutti noi vediamo come Fiorella, nel corso del processo, venga stuprata dal linguaggio: come era vestita? cosa ci faceva a quell’ora fuori di casa? Ci dica esattamente come è avvenuto il rapporto, se i maschi hanno goduto, se lei ha provato piacere, se è lei che ha afferrato il membro per prenderlo in bocca. E mentre Fiorella risponde, con la voce che si strozza in gola, il Presidente continua a ripetere benissimo, benissimo, benissimo. Vada avanti, racconti, prosegua: è il linguaggio che sta godendo, stuprando chi lo parla. Ma da dove proviene questo modo di domandare, questa logica della domanda?

VI. Nel processo si parla sempre a partire da una certa posizione, ineliminabile: c’è rapporto sessuale perché c’è consenso, alla condizione che vi sia consenso, «accordo delle volontà»[1]. Non ci sarà, cioè che il consenso a costituire il rapporto sessuale. Cosa significa?

Vi saranno più strategie di risposta possibili. Anzitutto, quella di un discorso che insista sulla natura ideologica del «consenso»[2], sull’economia dello scambio, dell’equivalenza, del contratto[3]. La donna acconsentirebbe, dunque, a farsi acquistare, nulla più. Che si tratti di una finzione legale, lo aveva espresso bene Guy Hocquenghem: «Cette notion de consentement est de toute façon piégée. Il est certain que la forme juridique d’un consentement intersexuel est un non-sens. Personne ne signe un contrat avant de faire l’amour»[4].

Eppure non si tratta semplicemente di questo. Giuridicamente, il consenso non serve soltanto ad escludere la violenza, ma a costituire l’esistenza del rapporto sessuale, ad affermare che c’è rapporto sessuale. Il consenso non è, cioè, causa di giustificazione, esimente, ma è costitutivo dell’esistenza di un rapporto sessuale (cd. consenso improprio).

Il consenso, l’ «accordo delle volontà», il contratto, non è semplicemente, allora, finzione giuridica, finzione dell’eguaglianza formale tra i due sessi, sotto la quale si riprodurrebbe una perdurante logica del possesso della donna (se i contraenti sono liberi, ciò non fa che ribadire come la donna possa sempre essere comprata, come si tratti sempre ed ancora di acquistarla e possederla). C’è dell’Altro, si direbbe.

VII. Che cos’è una finzione legale? Che cosa è proprio della fictio iuris? Ci serviremo di una breve digressione, seguendo e cercando di leggere nella sua reale profondità una tesi di Kelsen: non c’è mai finzione nel diritto (nella creazione e nella sua applicazione)[5]. Non c’è mai, cioè, contraddizione con la realtà – diremo, noi: non c’è mai alcuna alcuna realtà che la finzione velerebbe. E’ questo passaggio che dev’essere compreso a fondo.

Cosa implica – si chiede Kelsen – che il marito sia «considerato» padre del bambino nato a seguito dell’adulterio della moglie? Si tratta davvero di una finzione (di una logica del come se, del «come se» X fosse Y, anche se X non è Y)? Per poter esservi finzione, sia X che Y dovrebbero essere “qualcosa di reale”, scrive Kelsen. Non così nel diritto: la legge, infatti, non afferma affatto che il marito, a certe condizioni, venga considerato come se fosse il padre naturale del bambino. Essa dice, diversamente, che il marito è giuridicamente il padre, ossia che «padre» è soltanto colui che è indicato dalla legge come tale. Non finge, cioè, che una realtà stia al posto di un’altra, ma dice che la realtà dev’essere quella che il diritto prescrive.

Non c’è mai finzione, in altri termini, perché la legge non può mai essere in contraddizione (Widerspruch) con una qualche realtà effettiva (Wirklichkeit). E ciò, essenzialmente, perché la legge è sempre costitutiva della realtà – nelle parole di Kelsen: il diritto non è niente di reale (Nun ist aber das Rechts von vornherein überhaupt nichts Wirkliches), ma prescrive in modo che si debba creare una realtà (als eigentlich eine Wirklichkeit geschaffen werden soll).

Dal punto di vista del diritto, non c’è alcuna realtà che preceda la legge: non c’è alcun padre naturale prima o “dietro” la presunzione di paternità, perché padre, giuridicamente, è solo quello che la legge dice sia tale. «Ignoret-on que, dans l’état de société, c’est la loi qui fait les pères?», aveva osservato Bonaparte durante una seduta del Consiglio di Stato, nel 1801. Non c’è padre che per la legge.

Eppure – nel momento stesso in cui il testo kelseniano cancella la finzione dal diritto – esso mostra implicitamente un’altra “finta”, un’altra struttura di finzione che sarebbe propria di questa stessa assenza di finzioni.    La legge non sembra fingere davvero qualcosa nel suo porre una presunzione di paternità? Non sembra, in altri termini, che vi sia una certa finzione nel far ritenere per vero qualcosa che essa stessa ammette non si possa provare, accertare. Anzi, diremo con Kelsen: nel far ritenere vero ciò che la legge è sicura che non lo sia. Ma in cosa consiste, allora, questa “finta”?

La finzione che la legge realizza consiste precisamente in questo: nel fingere che vi sia la finzione, nel fingere che la paternità giuridica copra, nasconda, si sovrapponga alla “paternità naturale”.

La finzione, cioè, consiste nel fingere di fingere: nel fingere, nella presunzione di paternità, che si tratti di una finzione, di qualcosa che serve a nascondere la realtà. La legge finge che esista davvero qualcosa dietro di essa, che esista davvero la paternità al di là della “presunzione” di paternità. E ciò proprio quando, invece, che non c’è alcun padre “dietro” il discorso giuridico che lo costituisce

La finzione che la legge produce consiste proprio in questo, allora: nel creare l’illusione che ci sia qualcosa dietro il velo della la legge, nel nascondere che, dietro alla legge, non vi sia nulla.

La finzione – o, piuttosto semblant, sembiante, ciò che pare e che appare – non consiste allora nell’occultare la realtà, ma nel costituirla. Come ha osservato Jacques-Alain Miller, «nous appelons semblant ce qui a fonction de voiler le rien. En cela, le voile est le premier semblant»[6]. La finzione è «come un velo, un velo che non vela nulla: la sua funzione è di creare l’illusione che ci sia qualcosa di celato sotto il velo»[7].

VIII. E’ in questo senso che bisognerebbe allora ripensare la finzione che attraversa il motivo del reciproco consenso. Per dove passa, qui, la finzione? In cosa consiste?

Dovremo riprendere alcune pagine dedicate da Kant alla differenza sessuale[8] ed alla possibilità dell’ «uso delle proprietà sessuali»[9]. Come posso  possedere l’altro, come posso usarlo, servirmi delle sue qualità sessuali, dei suoi organi sessuali?

Ci sarà, anzitutto, una certa logica dello scambio, del consenso reciproco, a definire i diritti ed i doveri, le facoltà ed i limiti del rapporto sessuale. Vi sarà rapporto, cioè, proprio perché l’uso non potrà che essere  reciproco (wechselseitige), perché ci sarà sempre eguaglianza nel possesso (Gleichheit des Besitzes).

Potrò acquistare una persona come se fosse una cosa (gleich als Sache), ma alla sola condizione che quest’ultima acquisti, allo stesso tempo, me. Vi sarà, certamente, già una finzione, una “finzione di reciprocità”, laddove il testo kantiano, la sua logica, continua in realtà a pensare la differenza sessuale attraverso una serie di opposizioni implicite che definiscono la relazione tra uomo e donna nei termini di attività/passività, soggetto/oggetto[10]. Chi possiede davvero, chi acquista, è sempre l’uomo, infatti («l’acquisto secondo questa legge è, secondo l’oggetto, di tre specie: l’uomo acquista una donna […]» – la logica del mulierem habere, uxorem habere, uxoris animo habere).

Ma se vi è una “finta”, nel discorso kantiano, se esso non si scrive che attraverso una finzione, essa forse farà molto di più che nascondere qualcosa, una verità (quella dello sfruttamento dell’uomo sulla donna) che Kant non vorrebbe dire e rivelare. Per scoprirla, bisognerà spingere il testo nel punto in cui esso fingerà di fingere di nascondere qualcosa, in cui la finzione servirà proprio a creare l’illusione della finzione.

Riprendiamo, allora, il testo. La reciprocità, il possesso, non è affatto dell’altro in quanto tale. Non si tratta, cioè, mai di possedere la persona, di usare una donna: tutto ciò di cui voglio usare è una sua parte, il suo organo sessuale.

Si gode, per Kant, sempre e soltanto di una parte dell’altro, si gode del suo organo (Denn der natürliche Gebrauch, den ein Geschlecht von den Geschlechtsorganen des anderen macht, ist ein Genuss, zu dem sich ein Teil dem anderen). Si tratta sempre e soltanto dell’ «uso reciproco, che un essere umano fa degli organi e delle facoltà sessuali di un altro essere umano (usus membrorum et facultatum sexualium alterius)».

C’è come, allora, un fallimento del rapporto sessuale, come l’impossibilità di essere davvero Uno con l’Altro. Il testo kantiano dice (e non dice, vedremo) questo: non c’è rapporto sessuale che possa scriversi, non c’è alcun «rapporto» tra uomo e donna.

Eppure il testo si scrive, e lo fa proprio nel senso opposto: c’è Geschlechtsgemeinschaft, «comunità dei sessi» (nel senso più proprio di commercium sexuale, «rapporto sessuale»[11]). Si dà rapporto, e rapporto tra uomo e donna. E’ questo scarto che consente di individuare quella che è l’autentica finzione giuridica del testo, senza la quale esso sarebbe destinato a “fallire”. Si tratta del seguente principio:

l’acquisto di un membro di un essere umano è insieme l’acquisto dell’intera persona – poiché questa è un’unità assoluta» (Es ist aber der Erwerb eines Gliedmaßes am Menschen zugleich Erwerbung der ganzen Person, weil diese eine absolute Einheit ist)[12]

Per quanto il godimento (Genuß) non sia che di un membro, di un organo, di una parte del corpo dell’altro – e mai dunque dell’altro in quanto tale –, esso sarà però già-da-sempre stato definito attraverso il diritto sulla persona, sull’intera persona.

E’ questa ridefinizione, questo passaggio che è da sempre già avvenuto nel testo (e che infatti non viene mai argomentato, giustificato, domandato), che consente il costituirsi del discorso giuridico kantiano.

La strategia kantiana è sottile. Se ad essa è necessaria la “finzione” del consenso, della reciprocità, è perché è un’altra finzione a venire realmente in gioco. Kant finge di fingere. Finge, cioè, di nascondere il fatto che, dietro alla “reciprocità”, all’accordo delle volontà, al consenso, vi sarebbe una verità del rapporto sessuale da celare, da non rivelare – quella dell’uomo che possiede la donna, e mai viceversa. In realtà, ciò che nasconde è che dietro il velo non vi è nulla.

Dietro, cioè, alla finzione del consenso non si cela il fatto che il rapporto sessuale sarebbe sempre rapporto di dominio dell’uomo sulla donna, quanto, diversamente, il nulla del rapporto sessuale stesso. Non c’è rapporto sessuale: è questa la “verità” del testo kantiano e che il testo kantiano neutralizza per potersi porre come discorso giuridico; la verità che non c’è niente dietro il possesso, perché ciò che si possiede non è mai La donna, ma sempre e soltanto un suo “organo”, una sua “parte”.

Kant scopre l’impossibilità della donna, scopre che la donna non esiste, scopre il fallimento di ogni tentativo di fare de La donna in quanto tale, nella sua alterità e nella sua integralità, una cosa, un oggetto, di possederla in quanto oggetto. Tutto ciò che potrò possedere, se mai, sarà un oggetto (una parte di lei: un suo organo) come se fosse una donna.

Questo non è altro che il modo “maschile” di fallire il rapporto sessuale: «il fallimento, è l’oggetto», «l’essenza dell’oggetto, è il fallimento»[13]. E’ in questo modo che il diritto fallisce il rapporto sessuale, e lo fallisce nel modo propriamente “maschile”, fallocentrico,  poiché, per il desiderio maschile, non si tratterà che di godere dell’oggetto (la bellezza del corpo della donna, i suoi seni, le sue labbra, etc.): «dal lato dell’identificazione sessuale, dal lato maschio», è l’oggetto «che si mette al posto di ciò che, dell’Altro, non potrebbe esser colto». E’ l’oggetto che, per il lato maschile, esercita «il ruolo di ciò che va al posto del partner mancante»[14].

E’ questa la struttura di finzione che attraversa il testo kantiano: fingere di nascondere che la donna sia trattata come se fosse un oggetto, per non scoprire mai che, in realtà, tutto ciò che l’uomo può fare è in realtà trattare un oggetto come se fosse una donna.

Tutta la strategia del testo – e l’ideologia giuridica che l’attraversa – non servirà allora che a neutralizzare questo niente, questo nulla. Si dovrà piuttosto fingere di fingere che l’uomo possa acquistare la donna, purché la donna continui ad esistere, purché vi sia ancora rapporto sessuale.

IX. La lezione kantiana scopre dunque il “rovescio” del problema del consenso. Il consenso è una finzione non perché nasconderebbe il fatto che sarebbe sempre l’uomo a possedere la donna – sarebbe sempre la donna a consentire, ad acconsentire, passivamente –, ma perché esso non potrà mai costituire realmente il rapporto sessuale come tale.

Ma – come nel testo kantiano – non c’è diritto senza rapporto sessuale: costitutiva del diritto è, cioè, la necessità di scrivere la differenza sessuale come differenza tra due soggetti e di pensare la sessualità come rapporto, relazione, tra essi.

La necessità logica dell’ «unità assoluta della persona» è una necessità anzitutto giuridica di poter far esistere non tanto l’uomo, il «lato maschile» (che è come tale definito proprio dall’Uno, e non esiste che come concetto universale, «l’uomo») quanto La donna, l’Altro.

E’ a partire da questa necessità che si dovrà pensare allora il senso della funzione costitutiva che il consenso della donna rispetto al «rapporto sessuale».  A cosa sarà già condannata Fiorella? Condannata a parlare un linguaggio che la obbliga, per poter dire che c’è stata violenza, a dire che non ha voluto, e dunque ad ammettere che sia la volontà a far esistere il rapporto sessuale. Di questo si tratta, in ultima istanza: condannare Fiorella a volere o a non volere.

E’ questa volontà ad essere essenzialmente maschile, ad a tradire, a sua volta, il modo specificamente maschile di fallire il rapporto sessuale e di supplire a questo fallimento. Ancora una volta, infatti, questa logica cade nella stessa aporia che voleva evitare, ossia mettendo al posto dell’Altro (Fiorella, una donna) un oggetto: la volontà di lei. Tutto ciò che il diritto può fare non è altro che considerare un oggetto (la «volontà», la «dichiarazione di volontà») come se fosse La donna.

X. «La grande domanda alla quale non sono riuscito a rispondere è: “che cosa vuole una donna?”». Questa osservazione di Freud dovrebbe, allora, essere forse ripensata. Forse la domanda – ciò che in essa si chiede – è nell’impossibilità stessa di porla: una donna (e non dunque La donna) forse è ciò che non si scrive se non nella differenza rispetto ad ogni volere, ad ogni nozione di volontà (che, in ultima istanza, non sarebbe altro che ciò che sta sempre dal lato maschile, dalla costruzione del “soggetto” maschile: la volontà di volontà).

Come pensare, però, questo niente di volontà (che non avrebbe nulla a che vedere con una volontà di niente), per servirsi di un’espressione deleuziana? Non certo come una forma di passività, né di rinuncia. Al contrario, come una forma di contestazione radicale, come il senza-diritto che ciascuna donna è: il sottrarsi ad ogni sapere, ad ogni linguaggio, per una lingua nuova, da crearsi, per una nuova e diversa volontà di volere – che non sarebbe, al limite, neppure più una volontà, forse una volontà-senza-volontà.

XI. Ciò che va ancora chiesto, in fondo, non si darà che in un “rovesciamento” dell’arringa dell’avvocato difensore di Fiorella, della sua testimonianza di essere presente come donna, e non solo come avvocato. Dovremo domandare sempre: perché noi donne siamo presenti a questo processo? Dovremo, cioè, capire cosa in essa venga realmente chiesto e testimoniato, ed è questo è il compito ancora da assolvere, quarant’anni dopo il Processo per stupro. Perché il diritto, per noi donne?

[1] Cfr. D. Borrillo. Liberté érotique et exception sexuelle, in D. Borrillo – D. Lochak (a cura di), La liberté sexuelle, Paris, PUF, 2005, p. 45 : «La légitimité de l’activité sexuelle trouve donc son fondement dans la capacité à consentir; celle-ci devient désormais la clé du dispositif juridique». Si veda, nello stesso volume, anche J.-F. Chassaing, Le consentement. Réflexions historiques sur une incertitude du droit pénal, pp. 65-88.

[2] Cfr., per tutti, M. Hester, Lewd Women and Wicked Witches: A Study of the Dynamics of Male Domination, London, 1992. Si vedano anche i contributi raccolti in R. Hunter – S. Cowan (a cura di), Choice and Consent. Feminist engagements with law and subjectivity, New York, Routledge, 2007.

[3] Cfr. J.-F. Lyotard, Femminilità nella metalingua, in Id., Rudimenti pagani, trad. it. di N. Coviello, Bari, Dedalo, 1989, p. 158: «La libertà sessuale e affettiva delle donne (come degli uomini) è un valore capitalista, non solo perché trasforma “il sesso” in una merce facile da negoziare sul mercato (maschile), ma perché, come per il lavoro “libero”, occorre che siano neutralizzate le differenze, in questo caso quelle dei sessi, e anche quelle degli erotismi singolari, affinché possano essere globalmente poste sotto la legge della scambiabilità». Si veda anche C. Pateman, The Sexual Contract, Stanford, Stanford University Press, 1988.

[4] Cfr. La loi de la pudeur. Entretien avec M. Foucault, J. Danet, P. Hahn et G. Hocquenghem, in «Recherches», 37, avril 1979, pp. 69-82. Si veda, per la letteratura francese, G. Bertrand, Deux critiques du consentement, in «Raisons politiques», 2, 46, 2012, pp. 67-78

[5] H. Kelsen, Sulla teoria delle finzioni giuridiche (1919), in Id., Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, trad. it. a cura di A. Carrino, Napoli, ESI, 1988, pp. 237-265

[6]  Cfr. J.-A. Miller, Des semblants dans la relation entre les sexes, in «La Cause freudienne», 36, 1997, pp. 7-16.

[7] S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, trad. it. di C. Salzani e W. Montefusco, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 61. Questa differenza è illustrata da Lacan mediante l’apologo di Zeusi e Parrasio narrato da Plinio: «Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno d’orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore» (Plinio, Storia Naturale, XXXV 61-66).

[8] I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (1797); trad. it. di F. Gonnelli, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 51 e ss.. Per una ricostruzione più ampia e dettagliata del tema, cfr. P. Jauch, Immanuel Kant zur Geschlechterdifferenz. Aufklärerische Vorurteilskritik und bürgerliche Geschlechtsvormundschaft, Wien, Passegen, 1988.

[9] Cfr. I. Kant, Lezioni sul diritto naturale (Naturrecht Feyerabend), a cura di N. Hinske e G. Sadun Bordoni, Milano, Bompiani, 2016, p. 199.

[10] Cfr. R. M. Schott (a cura di), Feminist Interpretations of Immanuel Kant, Pennsylvania State University, 1997.

[11] Traduciamo, qui, Geschlechtsgemeinschaft anche con «rapporto sessuale», seguendo la lezione di F. Di Donato, Nei limiti della ragione. Il problema della famiglia in Kant, Pisa, Plus, 2004.

[12] Cfr. anche I. Kant, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, cit., §26, p. 143, a proposito del contratto di concubinato: «weil dieser ein Contract der Verdingung (locatio-conductio) sein würde und zwar eines Gliedmaßes zum Gebrauch eines Anderen, mithin wegen der unzertrennlichen Einheit der Glieder an einer Person diese sich selbst als Sache der Willkür des Anderen hingeben würde».

[13] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973,  testo stabilito da J.-A. Miller, edizione italiana a cura di G. Contri, trad. it. di S. Benvenuto e M. Contri, Torino, Einaudi, 1983, p. 58.

[14] Idem, p. 63.

 

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